27 Aprile 2017

Il premio di risultato nelle PMI

di Roberto Lucarini

Conoscete tutti la c.d. detassazione dei premi di risultato. L’ultima Legge di Stabilità, L. 208/2016, ne ha ampliato sia i limiti di base che la platea dei beneficiari, dopo che la precedente legge omologa l’aveva finalmente resa strutturale nel nostro ordinamento, chiudendo la stagione delle proroghe.

In concreto, come noto, per poter beneficiare dell’agevolazione tributaria (tassazione sostitutiva, al 10%, di Irpef e sue addizionali) occorre che il premio sia previsto dalla contrattazione di secondo livello, aziendale o territoriale. Ciò pone più a proprio agio, come spesso accade, le grandi imprese, abituate alla contrattazione sindacale; un po’ meno, al contrario, le piccole e medie imprese (PMI), le quali, potendo, si tengono bene alla larga dal confronto con i sindacati.

Ci si è posti quindi il problema, del resto già sussistente in passato, di valutare le strade che le PMI possono percorrere per giungere a un accordo di premio fiscalmente agevolato. Sul tema è intervenuta anche la Fondazione studi dei consulenti del lavoro, con proprio parere n. 1/2017.

Togliamo un dubbio: tutto questo vale nel caso si voglia ottenere l’agevolazione in discorso; in caso contrario, ossia erogando un premio non agevolato, non sorgono particolari problemi.

Il nocciolo della questione, a ben vedere, è proprio il rapporto impresa-sindacato, spesso inesistente nelle aziende di minori dimensioni. I titolari, infatti, paiono spesso non gradire tale frequentazione…

Che fare, allora, per usufruire della detassazione in una PMI?

Il contratto aziendale è una strada, ma occorre l’intervento del sindacato quale parte firmataria. Escludendo tale opzione, resta soltanto quella di potersi riferire a un accordo territoriale posto in essere tra le OO.SS. di categoria. Sul punto vi sono pareri non conformi, che lasciano aperti conseguenziali dubbi.

C’è chi ritiene l’azienda totalmente libera di adottare un contratto territoriale anche di diverso settore o di altro territorio, rispetto a quello di pertinenza. Negli accordi interconfederali, tuttavia, le organizzazioni firmatarie (esempio Confindustria, Confcommercio) non paiono di questo avviso, limitando l’applicabilità alle sole aziende iscritte o che, semmai, conferiscano al sindacato datoriale apposito mandato.

Per quanto mi riguarda ritengo l’azienda libera di adottare un accordo, del proprio settore e territorio, senza particolari vincoli associativi; ne andrebbe della libertà sindacale ex articolo 39 della Carta Costituzionale.

Più scivoloso, invece, il discorso legato all’applicabilità di un accordo territoriale di altro settore, ovvero di altro territorio. Su questo sarei prudente: andrei sempre a verificare prima l’esistenza di un contratto del proprio settore o territorio; in mancanza, sembra possibile riferirsi a un accordo stipulato, per lo stesso settore, in un territorio limitrofo.

Cambiare settore e territorio, senza motivazioni chiare, mi pare un po’ forzato. Potrebbe infatti realizzarsi il caso di un’azienda che applica in toto un certo Ccnl e, solo per il premio di risultato, vada a riferirsi a un accordo di altro settore.

In genere una motivazione oggettiva, che giustifichi una così diversa applicazione, andrebbe, a mio avviso, precostituita.

 

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