Anche il convivente more uxorio rientra nel novero dei familiari che prestano in modo continuativo attività di lavoro nell’impresa familiare
di Giulia Ponzo Scarica in PDF
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11661 del 4 maggio 2025, resa a Sezioni Unite, ha recepito e quindi attuato quanto previsto dalla Corte Costituzione circa l’incostituzionalità dell’articolo 230-bis, cod. civ., sull’applicazione della disciplina dell’impresa familiare anche al convivente di fatto.
La pronuncia origina dall’impugnazione di una sentenza emessa dai giudici di merito, che, confermando quanto statuito dal Tribunale all’esito del giudizio di primo grado, aveva rigettato la domanda avanzata dalla ricorrente, nei confronti dei figli-eredi del suo convivente di fatto, di liquidazione della quota lei spettante quale partecipe all’impresa di famiglia. A parere dei giudici di merito la nozione di “impresa familiare”, di cui all’articolo 230-bis, cod. civ., presupporrebbe un rapporto di coniugio, di parentela o comunque di affinità, sicché, non rientrandovi il rapporto di mera convivenza, il convivente di fatto non potrebbe essere annoverato nella nozione di “familiare” prevista dal comma terzo dell’articolo 230-bis, cod. civ..
Tale pronuncia veniva impugnata dalla ricorrente – convivente di fatto – innanzi alla Corte di Cassazione, che, con l’ordinanza interlocutoria n. 2121/2023, trasmetteva il ricorso al Primo presidente, che, a sua volta, lo assegnava alla Sezioni Unite, stante la particolare importanza della questione affrontata.
E, infatti, l’articolo 230-bis, cod. civ., è una norma eccezionale e, come tale, non suscettibile di interpretazione analogia, sicché il presupposto imprescindibile per l’applicazione delle norme in materia di impresa familiare è l’esistenza della famiglia legittima; tuttavia, i giudici di legittimità hanno correttamente rilevato come il contesto sociale sul punto sia mutato, essendo ad oggi ampliamente diffusa la convivenza di fatto che, certamente non esisteva, se non marginalmente, nel periodo in cui l’Assemblea costituente approvava la norma oggetto di censure.
È vero che ancora oggi sussistono differenze tra la famiglia di fatto e quella fondata sul matrimonio, differenze giustificate dal carattere di “stabilità certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti”, tuttavia in ipotesi particolari, come appunto quella in esame, si riscontrano caratteristiche comuni ai due istituti tali da richiedere l’applicazione della medesima disciplina, ciò seguendo un controllo di “ragionevolezza” per situazioni specifiche e particolari. Nella fattispecie in commento i giudici costituzionali evidenziano come i diritti fondamentali tutelati siano il diritto al lavoro, ex articoli 4 e 35, Costituzione, e alla giusta retribuzione, ex articolo 36, Costituzione, e che nell’impresa familiare il Legislatore mira a tutelare il lavoro prestato appunto dal “familiare”, che si pone in una situazione intermedia tra quello subordinato e quello prestato gratuitamente. Posto, quindi, che anche il convivente di fatto non è assoggettato al potere direttivo dell’imprenditore, non considerarlo al pari del “familiare” significherebbe annoverarlo quale prestatore di lavoro gratuito, conclusione che si paleserebbe errata, poiché, nei fatti, il convivente more uxorio presta attività lavorativa nell’impresa familiare in modo analogo a quella prestata da un familiare legato da un rapporto di coniugio, o comunque parentela, con l’imprenditore.
Ed è proprio alla luce del mutato contesto sociale che la Corte Costituzionale – a seguito dell’ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione n. 1900/2024 – ha ritenuto l’articolo 230-bis, comma 3, cod. civ., incostituzionale nella parte in cui non prevede come “familiare” anche il convivente di fatto e come “impresa familiare” quella in cui collabora anche il convivente more uxorio.
A seguito della predetta pronuncia, promosso il ricorso in riassunzione da parte della convivente di fatto, che si era vista respingere le proprie domande nei precedenti gradi di giudizio, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha cassato la pronuncia affinché i giudici di merito indaghino circa l’effettività e la continuità dell’apporto lavorativo prestato dalla convivente presso l’impresa familiare, in una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 230-bis, cod. civ., oltre che dell’articolo 230-ter, cod. civ., che già espressamente riconosce il diritto del convivente di fatto alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare.