Il campo da gioco è anche campo di applicazione della normativa antinfortunistica?
di Irene Ferrari Scarica in PDF
La Riforma dello sport ha introdotto importanti novità circa la qualificazione degli impianti sportivi. Questo contributo si propone di esaminare le implicazioni penali che discendono dalla qualificazione dell’impianto sportivo, anche del mero campo da gioco, come luogo di lavoro, con specifico riferimento all’eventualità non infrequente di infortuni. In particolare, la recente sentenza della Corte di Cassazione, sentenza n. 6806/2025, pur collocandosi nel passato contesto normativo, si presta a una lettura evolutiva della responsabilità penale del legale rappresentante dell’impianto, offrendo importanti spunti di riflessione, alla luce dell’attuale centralità assunta dalla sicurezza degli atleti e dei lavoratori sportivi, sulla configurabilità delle fattispecie incriminatrici di lesioni colpose e omicidio colposo aggravate dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Il caso
La sentenza in commento (depositata lo scorso 19 febbraio) riguarda un infortunio occorso il 27 dicembre 2017 a un minore, nei pressi di un campo da gioco, in occasione di un torneo di calcio organizzato da una Asd.
Il giovane atleta, a causa della rottura di uno dei pali di illuminazione del campetto che, cadendo, lo colpiva alla testa e alla gamba, riportava gravi lesioni. Il legale rappresentante dell’associazione organizzatrice dell’evento, ritenuto titolare della posizione di garanzia, ovvero dell’insieme degli obblighi di controllo e prevenzione che gravano, nel caso, sul datore di lavoro, veniva condannato in I e in II grado per il delitto di cui all’articolo 590, commi 2 e 3, c.p., ovvero per lesioni colpose gravi, con l’aggravante dalla violazione delle norme antinfortunistiche.
Nello specifico, veniva addebitato all’organizzatore di non avere impedito, per negligenza, il prevedibile evento lesivo, e di non avere ottemperato alla regola cautelare specifica di cui all’articolo 64, comma 1, lettera c), D.Lgs. 81/2008 (c.d. Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro, d’ora innanzi TU): l’obbligo di provvedere alla regolare manutenzione tecnica dei luoghi di lavoro, degli impianti e dei dispositivi.
Nel corso del giudizio era emerso che i sostegni dell’illuminazione presentavano segni di deterioramento (tracce di ruggine) e tanto era bastato ai giudici di merito a ritenere responsabile dell’infortunio, a titolo di colpa generica (negligenza) e specifica (stante la violazione della disposizione sopra richiamata), il vertice del sodalizio sportivo.
La Corte di Cassazione ribaltava la doppia pronuncia conforme di condanna, incentrando il proprio contrario convincimento, in primis, sulla errata qualificazione dell’impianto sportivo quale luogo di lavoro e, conseguentemente, dell’organizzatore come datore di lavoro, e, in secondo luogo, sulla non prevedibilità dell’evento lesivo.
Il Supremo Consesso, invero, non condividendo l’interpretazione estensiva delle nozioni di “datore di lavoro” e “luogo di lavoro” di cui agli articoli 2 e 3, TU, riportate nelle sentenze di I e II grado, riteneva:
- di dover dare continuità all’orientamento sviluppatosi antecedentemente alla Riforma dello sport, secondo cui è luogo di lavoro, ai fini dell’obbligo di attuazione delle misure antinfortunistiche: “ogni luogo in cui viene svolta e gestita una qualsiasi attività implicante prestazioni di lavoro e in cui il lavoratore deve o può recarsi per provvedere ad incombenze di qualsiasi natura in relazione alla propria attività” ed “a prescindere dalle finalità perseguite”[1];
- di escludere che, nel caso di specie, il campetto da gioco, potesse considerarsi luogo di lavoro nel senso anzidetto, dato che non risultava individuata alcuna specifica attività lavorativa.
Per la Cassazione, dunque, il campo sportivo in assenza del comprovato svolgimento di attività lavorativa non poteva considerarsi luogo di lavoro, escludendo così ogni profilo di colpa specifica connessa alla violazione delle norme antinfortunistiche.
Non solo. La sentenza riteneva insussistente anche la colpa generica per l’omessa manutenzione del campo da gioco. In proposito, tuttavia, è opportuno considerare che l’esclusione di ogni profilo di responsabilità nel caso specifico era conseguenza di un insuperabile difetto istruttorio: il mancato esperimento in fase di indagini di un doveroso accertamento tecnico sulle effettive condizioni dei sostegni.
Tale carenza impediva tanto la dimostrazione della violazione della regola cautelare che della prevedibilità in concreto dell’evento verificatosi.
La responsabilità penale non può fondarsi su un ragionamento la cui premessa (costituita dal cattivo stato di manutenzione dei pali), derivi dalla conseguenza (ovvero dalla rottura di uno di essi), e questa da quella, realizzando un inammissibile circolo vizioso.
In conclusione, nella pronuncia di legittimità sopra esaminata, l’organizzatore del torneo -disconosciuto datore di lavoro – andava esente da responsabilità in quanto non veniva raggiunta la prova che la ruggine presente esternamente fosse rivelatrice del grave stato di corrosione interno dei pali del campo da gioco e, dunque, tale da consentire di prevederne il crollo con conseguente rischio per l’incolumità dei presenti.
Sorprende, tuttavia, che non sia stata contestata e ravvisata una responsabilità a titolo di colpa generica del gestore del campo sportivo ai sensi del combinato disposto degli articoli 40, c.p. e 2051, cod. civ..
A ben vedere, infatti: “Il responsabile di attrezzature sportive o ricreative è titolare di una posizione di garanzia a tutela dell’incolumità di coloro che le utilizzano, anche a titolo gratuito, sia in forza del principio del neminem laedere, sia nella sua qualità di “custode” delle stesse attrezzature, come tale civilmente responsabile, fuori dall’ipotesi del caso fortuito, dei danni provocati dalla cosa ex art. 2051 c.c., sia quando l’uso delle attrezzature dia luogo a un’attività da qualificarsi pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., rispetto alle quali egli è obbligato ad adottare tutte le misure idonee ad evitare l’evento dannoso”[2].
L’attuale contesto normativo
Tra gli obiettivi principali della Riforma dello sport vi è la promozione e la disciplina dell’attività sportiva in maniera più efficace, inclusiva e sicura. Uno degli aspetti più innovativi è, infatti, la definizione di lavoratore sportivo e l’introduzione di una regolamentazione ad hoc degli spazi e dei luoghi dedicati all’attività sportiva, che include non solo le strutture professionistiche, ma anche campetti e impianti di dimensioni minori.
Gli articoli 2, lettera dd) e 25, D.Lgs. 36/2021, invero, qualificano il lavoratore sportivo come qualsivoglia atleta, allenatore, istruttore, direttore tecnico, direttore sportivo, preparatore atletico e direttore di gara che, indipendentemente dal settore professionistico o dilettantistico, esercita l’attività sportiva verso un corrispettivo, ovvero, ogni altro tesserato che svolge mansioni necessarie per l’attività sportiva a fronte di un corrispettivo. Mentre la lettera cc) della medesima norma definisce impianto sportivo ogni struttura, all’aperto o al chiuso, preposta allo svolgimento di manifestazioni sportive, comprensiva tanto degli spazi specificatamente dedicati all’attività sportiva quanto di eventuali zone spettatori, servizi accessori e di supporto.
A ciò si aggiunga, che per espressa disposizione di legge ai rapporti di lavoro sportivo, stante il richiamo contenuto negli articoli 25, comma 5, e 33, comma 1, D.Lgs. 36/2021, si applicano per tutto ciò che non è diversamente disciplinato dalla normativa sportiva e in quanto compatibili, le norme di legge sui rapporti di lavoro nell’impresa e, in particolare, le disposizioni in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Ne discende che, in tema di sicurezza e di prevenzione degli infortuni, l’impianto sportivo in quanto spazio a disposizione, o comunque accessibile, al lavoratore sportivo è da intendersi luogo di lavoro ai sensi e per gli effetti dell’articolo 62, TU. Con una precisazione: ai lavoratori sportivi che percepiscono un compenso annuo non superiore a 5.000 euro si applicano le sole disposizioni relative alle imprese familiari e ai lavoratori autonomi, ai sensi degli articoli 31, comma 1 D.Lgs. 36/2021 e 21, comma 2, TU (ad esempio, non sono obbligati a redigere il documento di valutazione dei rischi). Di talché, nell’ipotesi di infortunio di un collaboratore, volontario e/o lavoratore autonomo, l’imputazione a titolo di colpa specifica per la violazione degli obblighi prevenzionistici e/o l’applicabilità delle connesse disposizioni sanzionatorie previste dal TU, in capo al datore di lavoro sportivo sarà, pur non potendosi escludere, residuale.
Responsabilità penale per infortunio del datore di lavoro sportivo
In considerazione delle novità recentemente introdotte, difficilmente oggi potrà escludersi la qualificazione dell’impianto sportivo, anche del mero campetto teatro di una qualsivoglia competizione e/o manifestazione sportiva (in presenza, ad esempio, di allenatori e/o arbitri retribuiti), quale luogo di lavoro.
Invero, se luogo di lavoro è qualsiasi spazio in cui un lavoratore è chiamato a svolgere la propria attività e se il lavoratore sportivo è qualsiasi operatore sportivo che per la propria attività percepisce un corrispettivo, anche nel caso di impianti utilizzati principalmente per attività sportive dilettantistiche, la presenza di detto personale rende l’impianto stesso luogo di lavoro.
Di conseguenza, il gestore è tenuto a rispettare gli obblighi di sicurezza specificatamente previsti al fine di garantire un ambiente sportivo sicuro; e non solo.
Alla luce della normativa vigente, il pronunciamento della Corte di Cassazione chiarisce, come la mancata osservanza delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (tra cui oggi, come detto, non può escludersi l’impianto sportivo) aumenti notevolmente il rischio in capo ai vertici del sodalizio sportivo di essere perseguiti, in caso di infortuni, per i reati di lesioni personali e, nei casi più gravi, di omicidio colposo. Responsabilità penale aggravata della violazione degli obblighi prevenzionistici che non potrà essere esclusa dalla natura meramente dilettantistica dell’attività sportiva, poiché il dovere di sicurezza è sempre presente, indipendentemente dal livello di competizione, sempreché risulti individuabile una prestazione lavorativa. Questo aspetto rappresenta un’importante novità e passo avanti nella protezione dei lavoratori sportivi e degli atleti in genere, imponendo un’adeguata vigilanza e manutenzione degli impianti sportivi.
Infortuni sul lavoro: le fattispecie incriminatrici di lesioni colpose e omicidio colposo aggravati
Il reato di lesioni colpose di cui all’articolo 590, c.p.
La fattispecie di lesioni colpose ha subito nel tempo significative modifiche che ne hanno segnato la trasformazione in disposizione specificamente rivolta alla tutela della salute nell’ambiente di lavoro.
La fattispecie prevede: al comma 1 il reato base “chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale”; al comma 2 le circostanze aggravanti delle lesioni gravi ex articolo 583, comma 1, c.p. o gravissime ex articolo 583, comma 2, c.p.; al comma 3 una pena specificatamente calibrata per le lesioni gravi (reclusione da 3 mesi a 1 anno o multa da 500 a 2.000 euro) o gravissime (reclusione da 1 a 3 anni) quando esse siano commesse con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro. In tali ultimi casi, il reato è sempre procedibile d’ufficio, dunque indipendentemente dalla volontà punitiva della persona offesa.
È bene tenere a mente che l’aggravante a effetto speciale in questione è configurabile, anche senza la violazione di specifiche norme antinfortunistiche di cui al TU, essendo sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa dell’omessa adozione delle misure e accorgimenti per tutela dell’integrità fisica e la personalità morale (si pensi allo stress da lavoro correlato/burnout che può svilupparsi in seguito al mobbing) del lavoratore imposti al datore di lavoro dall’articolo 2087, cod. civ.[3].
Detta aggravante che, di regola ha a oggetto la sicurezza e la salute dei lavoratori, può riguardare anche i terzi, ove questi vengano a trovarsi nella medesima situazione di esposizione del lavoratore[4] (come nel caso oggetto dalla sentenza esaminata in cui l’evento lesivo aveva interessato un giovane calciatore dilettante).
È il caso ancora dell’infortunio occorso all’atleta amatoriale durante l’allenamento all’interno della palestra della polisportiva: ove l’evento lesivo sia riconducibile alla violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l’aggravante in questione verrà contestata anche se la persona offesa è estranea a qualsiasi rapporto di lavoro, purché ella al momento del fatto fosse legittimamente presente nello spazio sportivo ove si stava svolgendo una qualsiasi attività lavorativa.
Ciò che conta è che sia ravvisabile il nesso causale tra l’evento dannoso e l’accertata violazione, in quanto anche i terzi, ove si trovino esposti ai pericoli derivanti da un’attività lavorativa da altri svolta, devono ritenersi destinatari delle misure di prevenzione, sussistendo un rischio connesso all’ambiente lavorativo/sportivo che deve essere coperto dal datore di lavoro[5].
Il reato di omicidio colposo di cui all’articolo 589, c.p.
La fattispecie di omicidio colposo è analoga alla precedente, differenziandosi, come ovvio, per l’evento letale e la pena ragionevolmente più alta. L’articolo 589, comma 2, c.p., invero, punisce chi cagiona il decesso di una persona a seguito della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro con la reclusione da 2 a 7 anni. Per il resto le questioni applicative sono in buona parte le medesime del reato di lesioni personali colpose.
Ai fini dell’affermazione della responsabilità per colpa del datore di lavoro per il decesso del lavoratore è necessaria la prova della violazione di una norma cautelare, oltre la constatazione che il rischio che la cautela intende presidiare si sia concretizzato nell’evento mortale.
Soltanto il comportamento abnorme o che si discosti radicalmente dalle prescrizioni del datore di lavoro, escluderà la responsabilità di quest’ultimo[6].
Nulla, invero, deve essere dato per scontato dal datore di lavoro.
La condotta negligente del lavoratore non esclude la responsabilità del datore di lavoro, ove l’evento lesivo sia riconducibile all’insufficienza di date cautele che, se adottate, avrebbero neutralizzato proprio il rischio derivante dalla condotta imprudente[7].
Andrà esente da responsabilità il datore di lavoro che avrà adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della posizione di garanzia rivestita, ovvero qualora la condotta dell’infortunato possa ritenersi imprevedibilmente colposa.
Si consideri, inoltre, che, come espressamente previsto dall’articolo 61, TU, in caso di esercizio dell’azione penale per i reati di omicidio e lesioni colpose commessi con violazione delle norme antinfortunistiche, l’Inail (direttamente informata dal PM) è legittimata a costituirsi parte civile e a esercitare nel procedimento penale l’azione di regresso nei confronti del datore di lavoro eventualmente imputato.
I soggetti corresponsabili con il datore di lavoro della sicurezza dei luoghi di lavoro
Gli altri soggetti eventualmente responsabili con il datore di lavoro, in tema di sicurezza, possono essere:
- il datore di lavoro di fatto; dall’assunzione di fatto di una posizione di garanzia può derivare la responsabilità penale per l’evento lesivo a prescindere dalla presenza di un rapporto gerarchico tra il garante di fatto e il soggetto infortunato (ad esempio, il primo allenatore che impartisca disposizione errate al secondo allenatore sull’utilizzo di un dato attrezzo); l’articolo 299, TU (esercizio di fatto di poteri direttivi) recepisce i consolidati principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme antinfortunistiche deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate[8];
- il dirigente e/o preposto, con poteri organizzativi e di direzione dell’attività lavorativa;
- il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp), ogni qualvolta l’infortunio sia riconducibile a uno specifico pericolo/rischio che questi avrebbe avuto l’obbligo di conoscere, segnalare e prevenire con idonee misure di sicurezza da individuarsi nel documento di valutazione dei rischi (Dvr); tale figura è tenuta ad adempiere all’obbligo di valutazione e prevenzione del rischio in conformità alle previsioni normative in materia, formulando specifiche e tassative prescrizioni tecniche vincolanti per tutti i soggetti destinati a operare all’interno dei luoghi di lavoro;
- il medico per l’omesso controllo sanitario.
Implicazioni pratiche e doveri del datore di lavoro sportivo (cenni)
La qualificazione dell’impianto sportivo in senso lato (ovvero di qualunque spazio sportivo in cui sia individuabile una prestazione lavorativa nel senso anzidetto) quale luogo di lavoro, comporta l’applicazione di obblighi specifici in capo ai vertici del sodalizio. In generale e con voluta sinteticità, in conformità al TU, questi devono:
- garantire la sicurezza e prevenire gli infortuni: implementare misure di prevenzione e protezione per ridurre i rischi legati all’attività sportiva e agli infortuni in genere. Ciò include la manutenzione delle attrezzature, la valutazione dei rischi e l’adeguamento delle strutture e degli impianti sportivi; in particolare, “la valutazione dei rischi è atto imputato dal legislatore al datore di lavoro ed egli ne porta la responsabilità”[9];
- adottare il documento di valutazione dei rischi (Dvr), designare responsabili per la sicurezza Rspp (articoli 17, 28 e 29, TU); detti adempimenti pur essenziali per dimostrare l’adempimento degli obblighi di sicurezza, tuttavia, “non escludono la responsabilità del datore di lavoro se sia possibile rilevare la sussistenza di rischi ulteriori o l’inadeguatezza delle modalità di prevenzione di quelli già correttamente individuati, adoperando l’ordinaria diligenza”[10];
- nominare il medico competente per la sorveglianza sanitaria (articolo 58, TU);
- formare i lavoratori; offrire formazione e sensibilizzazione sui temi della sicurezza sportiva ai lavoratori e segnatamente sui rischi specifici dell’attività sportiva e sulle procedure di emergenza;
- sottoporre i luoghi di lavoro a regolare pulizia, controllo del funzionamento e manutenzione tecnica, così da eliminare, quanto più rapidamente possibile, i difetti che possano pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori (articolo 62 e ss., TU).
Conclusioni
La Riforma dello sport, qualificando gli impianti sportivi come luoghi di lavoro, ha esteso l’ambito applicativo della normativa in materia di sicurezza sul lavoro anche al settore sportivo, ampliando e aggravando la responsabilità penale dei vertici del sodalizio sportivo.
È, dunque, essenziale che i soggetti coinvolti, siano essi dirigenti, gestori, allenatori o atleti, siano consapevoli delle implicazioni giuridiche derivanti da questa qualificazione. L’adeguamento alle norme di sicurezza e la promozione di un ambiente di lavoro sano sono passaggi fondamentali per ridurre al minimo il rischio di eventi lesivi e di conseguenti addebiti di responsabilità. La sentenza della Corte di Cassazione, n. 6806/2025, rappresenta il punto di svolta in tema di responsabilità penale connessa alla qualificazione degli impianti sportivi come luoghi di lavoro. Essa conferma che la Riforma ha avuto effetti diretti sulle responsabilità dei gestori, ampliando le tutele per gli atleti e i lavoratori. Gli attori del mondo sportivo, a qualsiasi livello, sono tenuti ad acquisire una maggiore consapevolezza riguardo agli obblighi di tutela della salute e della sicurezza in tutti gli spazi sportivi.
[1] Cassazione, n. 41393/2024, n. 45316/2019, n. 12223/2015, n. 2343/2013, n. 43840/2018 e n. 28780/2011.
[2] Cassazione n. 2343/2013 e n. 9160/2018.
[3] Cassazione n. 28780/2011 e n. 18628/2010.
[4] Cassazione n. 32899/2021.
[5] Cassazione n. 38623/2021, n. 32178/2020, n. 44142/2019 e n. 31521/2016.
[6] Cassazione n. 41393/2024, n. 46841/2023 e n. 23808/2022.
[7] Cassazione n. 3616/2016.
[8] Cassazione n. 2157/2022 e n. 10704/2012.
[9] Cassazione n. 6381/2018.
[10] Cassazione n. 15406/2023.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Associazioni e sport”.