9 Aprile 2019

Ci si mette anche il Codice della crisi, aiutatemi a contare

di Riccardo Girotto

La dimensione aziendale nella disciplina giuslavoristica assume valore vitale, ogni player del mercato deve, infatti, convivere con rigide determinazioni tese ad alleggerirne o limitarne la libertà decisionale e operativa, a seconda del requisito occupazionale espresso.

Infinite leggi richiamano la necessaria attenzione al computo del personale assunto, la compressione della libera azione aziendale è finalizzata a difendere l’impatto sociale che può imprimere l’iniziativa privata, la quale, pur costituzionalmente garantita, non deve eccedere nelle lesioni di interessi socialmente rilevanti.

Necessario, ad esempio, il controllo delle parti sociali o dell’Ispettorato quando le aziende dimensionate intendono ridurre il personale, necessario il rispetto di un rapporto contenuto quando l’azienda vuole ricorrere al lavoro flessibile, necessario ricordare che se un’azienda è dimensionata deve evitare le discriminazioni accogliendo un disabile o rispettando le parità di genere. Molte di queste tutele paiono indiscutibili nella loro mission, ma il computo dei lavoratori sviluppa anche effetti non facilmente condivisibili, qualificando, ad esempio, come artigiana un’impresa in base al numero di dipendenti assunti e non sulla scorta delle modalità di svolgimento dell’attività, come se al diciannovesimo dipendente cambiasse l’impostazione produttiva.

Il problema non è, però, legato alla correttezza o meno di queste tutele, bensì alla difficoltà che si riscontrano quotidianamente nel monitorare il rispetto dei vincoli occupazionali. I tempi di osservazione sono assolutamente eterogenei, ma soprattutto le modalità di computo risultano da norma a norma completamente stravolte. Lavoratori assunti con tipologie contrattuali utili per un particolare risultato non dovranno considerarsi per un risultato completamente diverso.

L’azienda che vuole LEGITTIMAMENTE conoscere le conseguenze di un passaggio da 12 a 16 dipendenti, per capire se convenga o meno acquisire un nuovo importante lavoro per il quale paiono necessarie risorse aggiuntive, si troverà in mezzo a un incrocio di possibili effetti, con grande confusione in merito a quale di questi meriti la precedenza. Da una parte arriveranno le valutazioni sull’inquadramento Inps, dall’altra l’articolo 18, L. 300/1970, poi da una via arriveranno le valutazioni sulla L. 68/1999, da un’altra le considerazioni di massima sul contratto collettivo, etc.. L’ulteriore cattiva notizia è che ogni valutazione considererà basi di calcolo completamente diverse.

Ad aggravare un quadro già disarmante arriva la prassi, famosa la circolare n. 18/2014 del Ministero del lavoro, che, con coraggiosa spinta interpretativa, prova a illustrare il computo utile a misurare il contingentamento nei contatti a termine, ritenendo computabili nella forza lavoro aziendale anche gli apprendisti, espressamente esclusi dalla legge per ogni computo già dal 1987. Da segnalare che solo un anno prima lo stesso Ministero, con circolare n. 3/2013, in tema di licenziamenti, ne aveva confermato la specifica esclusione dal computo: mah.

Ancora più creativo il passaggio ministeriale sul significato della parola dipendenti associata ai soggetti utili al calcolo. La circolare n. 14/2013, al fine di permettere l’applicazione di una norma altrimenti inapplicabile, e non solo per le questioni di computo, vede il Ministero sfoderare un’interpretazione ultraestensiva della parola “dipendenti”, conferendole significato inclusivo dei “collaboratori coordinati e continuativi”. La lingua italiana perde valore, ma il sistema di computo assume perlomeno connotati di applicabilità; certo, la legge dice un’altra cosa, con quanto ne consegue in termini di contenzioso.

Per contro, all’incertezza amministrativa si contrappone l’apprezzabile articolo 27, D.Lgs. 81/2015, introdotto dall’impianto del Jobs Act, che somministra una piccola dose di ottimismo nel complesso mondo dei requisiti occupazionali, agevolando finalmente il metodo di calcolo dei contratti di lavoro a tempo determinato.

Tutta questa premessa non può non portare all’analisi della recentissima produzione normativa. Il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza insiste con molteplici riferimenti a requisiti occupazionali determinanti per l’applicazione dell’una o dell’altra fattispecie. A mero titolo di esempio ne riportiamo alcuni:

  • articolo 84, in tema di continuità indiretta, impone il mantenimento o la riassunzione di almeno la metà dei lavoratori in forza nei 2 esercizi precedenti;
  • articolo 189, comma 2, in tema di continuazione dei rapporti, permette la proroga del termine da parte del giudice delegato in caso di forza occupazionale oltre i 50 dipendenti;
  • articolo 379, a modifica dell’articolo 2477 civ., introduce uno dei requisiti utili alla soggezione all’obbligo di nomina organi di controllo, il superamento della media di 10 dipendenti per 2 esercizi consecutivi.

Non sarà facile, quindi, applicare il nuovo Codice, che neanche al Capo IV, Titolo X, nominato “Coordinamento con la disciplina del diritto del lavoro”, riesce ad agevolare le ipotesi di computo, stante che proprio la disciplina lavoristica non risulta assolutamente illuminante sul punto, pertanto da coordinare resta ben poco.

Significativa l’insistenza del Legislatore nell’individuare la dimensione della popolazione aziendale quale requisito principe per l’applicazione dell’uno o dell’altro istituto. Sempre più determinante il computo, quindi tanti computi, ma aiutatemi a contare.

 

Segnaliamo ai lettori che è possibile inviare i propri commenti tramite il form sottostante.

 

Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia:

Gestione del rapporto di lavoro nel CCNL Terziario Confcommercio