26 Settembre 2019

Collocazione della prestazione, tra accordi individuali e regolamentazioni collettive

di Luca Vannoni

L’orario di lavoro può richiedere forme di flessibilità che consentano di adeguare la forza lavoro al momento e agli andamenti produttivi, ovvero può essere oggetto di interventi che favoriscano la conciliazione vita-lavoro.

Le prime valutazioni devono essere, ovviamente, svolte in riferimento all’orario normale di lavoro, nella conformazione e nella collocazione.

Su quest’ultimo punto, è bene ribadire che la collocazione della prestazione di lavoro a tempo pieno rientra tra i poteri del datore di lavoro e, pertanto, da quest’ultimo può essere liberamente fissata o modificata. Questo significa che spetta al datore di lavoro fissare l’inizio e l’articolazione dello svolgimento della prestazione, nel rispetto del limite dell’orario normale di lavoro, previsto dalla contrattazione collettiva, in conformità con la disciplina in materia di pause, riposi giornalieri, settimanali e lavoro festivo. Come ulteriore precisazione, si ricorda come l’orario normale di lavoro è determinato esclusivamente come orario settimanale (40 ore, ovvero una durata inferiore da parte della contrattazione collettiva – articolo 3, D.Lgs. 66/2003), pertanto la durata della prestazione può anche essere non uniforme nelle singole giornate.

Tale prima forma di flessibilità, insita nella libertà dell’esercizio dell’attività imprenditoriale e non soggetta, rientrando nel potere organizzativo/direttivo correlato alla subordinazione, a compressioni dirette normative, deve comunque essere valutata nel contesto contrattuale, individuale e collettivo, che disciplina lo specifico rapporto di lavoro.

A livello di accordo individuale, se nella lettera di assunzione – che deve essere sempre valutata e meditata come il contratto che determinerà il vincolo della subordinazione – è stata fissata una collocazione ben precisa dell’orario di lavoro, senza alcuna possibilità di intervento o modifica da parte del datore di lavoro, facendo parte della regolamentazione contrattuale, in virtù dell’articolo 1321 cod. civ., la variazione dell’orario richiederà il consenso espresso da parte del lavoratore. In tale situazione, tuttavia, è comunque da considerare che il permanere dell’originaria collocazione dell’orario potrebbe rendere la prestazione non più utile al datore di lavoro e incompatibile con l’organizzazione dell’impresa e, quindi, il rifiuto alla variazione potrebbe determinare il licenziamento per gmo, con tutte le attenzioni del caso nel valutare l’oggettività dell’incompatibilità che si determina.

Riguardo alla contrattazione collettiva, spesso sono gli stessi Ccnl che dettagliano diversi sistemi di orario, dove l’orario normale può avere valori diversi (mediante Rol) a seconda della turnazione.

Recentemente la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 21680/2019, ha stabilito che, in caso di modulazioni dell’orario, previste dalla contrattazione collettiva, secondo scansioni alternative all’interno dello stesso rapporto di lavoro a tempo pieno (37 h/sett. con turnazione 5+2 oppure 40 h/sett., secondo lo schema 4 + 2) in corrispondenza a un’esigenza di flessibilità propria dell’attività svolta, la mera modificazione accessoria dell’obbligazione (non potendosi ravvisare gli elementi della novazione) non costituisce variazione dell’orario di lavoro, assimilabile alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, ma una diversa modalità di prestazione lavorativa sempre a tempo pieno.

Il fatto che l’orario normale sia determinato da un parametro settimanale e non giornaliero consente di articolare, inoltre, forme di flessibilità all’interno di esso, senza la necessità di intervenire con la contrattazione collettiva. Il datore di lavoro può, infatti, stabilire, anche solo con il regolamento aziendale, margini di inizio della prestazione flessibili, con possibilità di recupero o compensazione.

 

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