27 Novembre 2019

Condotta antisindacale e libertà di trattare

di Luca Caratti

La Suprema Corte, con sentenza n. 21537/2019, interviene su uno dei temi maggiormente dibattuti nell’ambito del diritto sindacale: l’applicazione dell’articolo 28, L. 300/1970, nelle relazioni industriali ovvero scandaglia i profili di antisindacalità del comportamento del datore di lavoro e la libertà di recesso dal contratto collettivo. La Corte afferma che la facoltà di disdetta del Ccnl applicato in azienda non è consentita unilateralmente al datore di lavoro, essendo tale ipotesi riservata solo alle parti stipulanti (associazioni sindacali e rappresentanza dei datori di lavoro).

 

Una necessaria premessa

La questione è nota: fino a che punto un datore di lavoro può porre in essere determinate azioni, che, seppure lecite, possono sconfinare in profili di comportamento antisindacale ex articolo 28, St. Lav.?

Il confine è, infatti, spesso molto sottile, in quanto la formulazione stessa della norma, c.d. “in bianco”, a causa della sua indeterminatezza, rende difficile l’individuazione delle fattispecie, che, è opportuno ricordare sin da ora, costituisce un’ipotesi di reato. Vi è anche da osservare come la richiamata norma sia centrale nelle relazioni sindacali e come spesso venga invocata, a volte anche a sproposito, per indurre un datore di lavoro a trattare su determinate tematiche o con determinate organizzazioni sindacali. Questo poiché è pacifico che possa configurarsi come condotta antisindacale il comportamento dell’imprenditore che rifiuti a talune organizzazioni sindacali forme di consultazione, di esame congiunto o di instaurazione di trattative, qualora espressamente previste da clausole contrattuali o da disposizioni di legge, allorquando detto rifiuto si traduca in condotte oggettivamente discriminatorie, atte a incidere negativamente sulla stessa libertà del sindacato e sulla sua capacità di negoziazione, minandone la credibilità e l’immagine anche sotto il profilo della forza aggregativa in termini di acquisizione di nuovi consensi. È evidente come l’ampia nozione di condotta antisindacale “richiama la nota impostazione (G. Giugni), per la quale il datore di lavoro, al fine di rispettare il principio di libertà sindacale, costituzionalmente garantito (art. 39) ed assistito dall’art. 28 Stat. Lav., è tenuto a “muoversi nel conflitto”, ma non può “opporsi ad esso” (da cui discende che egli è obbligato a trattare, seppur non accogliendo le rivendicazioni proposte)[1].

Stante la complessità e la delicatezza della materia, la giurisprudenza ha, negli anni, delineato il campo e le modalità di applicazione del procedimento di repressione della condotta antisindacale nella realtà delle relazioni industriali e, pertanto, ogni nuova sua espressione diventa occasione di analisi.

 

Il caso portato all’attenzione degli Ermellini

Il sindacato ritiene che integri un’ipotesi di condotta antisindacale la condotta del datore di lavoro che non aveva informato e interpellato il sindacato Filctem in merito alle trattative sfociate nell’accordo del 13 dicembre 2011, comportante l’estensione a tutti i dipendenti del contratto specifico di lavoro del 29 novembre 2011 nella sua stesura definitiva, concluso con Fim-Cisl, Uilm, Fismic, Ugl e Associazione quadri e capi.

La questione, nella sostanza, è se poteva rientrare o meno nell’autonomia negoziale la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto collettivo con le organizzazioni sindacali anche diverse da quelle che avevano sottoscritto il precedente, non essendoci particolari obblighi a carico del datore di lavoro di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le organizzazioni sindacali.

È da rilevare come, dal 1° gennaio 2012, l’azienda avesse esercitato il recesso dal sistema confindustriale e, non aderendo più a detto sistema, non era tenuta a rispettare le intese sindacali sottoscritte dall’associazione del settore, essendo in tal modo da quella data libera di applicare a tutti i propri dipendenti solo e soltanto il contratto collettivo richiamato nell’accordo aziendale del 13 dicembre 2011.

 

La sentenza di Cassazione n. 21537/2019

Gli Ermellini sono chiamati a pronunciarsi, per il caso sopra riportato, sulla violazione dei principi in materia di efficacia della parte normativa del contratto collettivo di diritto comune e violazione dell’articolo 1372 cod. civ., stante, secondo il ricorrente, l’erronea affermazione del giudice del gravame secondo cui l’efficacia vincolante di tale contratto deriverebbe esclusivamente dalla sussistenza e permanenza del vincolo associativo; in particolare si discute sulla possibilità di disdettare unilateralmente il contratto collettivo. Oltre a ciò, il quid disputandum verte sulla legittimità del comportamento datoriale, non tacciabile quindi di condotta antisindacale, consistente nell’aver sottoscritto un nuovo contratto collettivo, sostituendo il trattamento in precedenza applicato, frutto di accordo con alcune organizzazioni sindacali, con il trattamento concordato con altri sindacati, e imponendo tale nuovo trattamento agli iscritti al sindacato non stipulante, nonostante l’esplicito diniego espresso.

Sulla prima questione la Corte ricorda il consolidato orientamento della giurisprudenza, secondo il quale “nel contratto collettivo la possibilità di disdetta spetta unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali che di norma provvedono anche a disciplinare la conseguenza della disdetta; al singolo datore di lavoro, pertanto, non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo l’eccessiva onerosità dello stesso, ai sensi dell’art. 1467 c.c., conseguente ad una propria situazione di difficoltà economica, salva l’ipotesi di contratti aziendali stipulati dal singolo datore di lavoro con sindacati locali dei lavoratori (Cass. 19/4/2011 n. 8994, e già prima, Cass. 7/3/2002 n. 3296, e Cass. 15863/2001 richiamate da Cass. 7/11/2013 n. 25062)”.

Da ciò consegue che non può ritenersi legittima la disdetta unilaterale da parte del datore di lavoro del contratto applicato, seppure accompagnata da un congruo termine di preavviso.

Ne deriva, pertanto, che si potrà recedere dal contratto solo alla scadenza dello stesso e se ne potrà applicare uno diverso a condizione che ricorrano i presupposti di cui all’articolo 2069 cod. civ. (Cassazione n. 24575/2013).

Ancora una volta viene affermato il principio secondo il quale, laddove al contratto collettivo sia stata apposta una clausola di durata, la medesima clausola vincola tutti i destinatari e non consente la possibilità di un recesso unilaterale nemmeno nel caso in cui il datore di lavoro si dissoci dall’organizzazione sindacale di appartenenza.

Come anticipato, anche il singolo datore di lavoro, al pari dell’organizzazione sindacale, è doverosamente tenuto a rispettare le clausole fissate nell’accordo, in caso contrario sarebbe inadempiente nei confronti dei lavoratori.

Di fatto, quindi, risulta che l’unica possibilità di libero recesso da un contratto collettivo post-corporativo si ha nel caso in cui il contratto sia stato stipulato a tempo indeterminato e senza predeterminazione del termine di scadenza.

È, infatti, evidente che, se così non fosse, non si consentirebbe lo sviluppo delle relazioni industriali, poiché si vincolerebbero per sempre tutte le parti contraenti, vanificando la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina è da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati e con la possibilità di evolversi in base ai mutamenti della realtà socio-economica. Gli Ermellini precisano, però, che tale principio è valido sempre che il recesso sia stato esercitato nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto e, soprattutto, non siano stati lesi i diritti intangibili dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, e ormai entrati in via definitiva nel loro patrimonio.

Coerente con l’affermazione di tale ultimo principio è la pronuncia della stessa suprema Corte, n. 14511/2013, secondo cui non costituisce condotta antisindacale (con ciò rispondendo alla seconda questione), ai sensi dell’articolo 28, St. Lav., il comportamento del datore di lavoro il quale abbia sottoscritto un nuovo contratto collettivo, sostituendo il trattamento in precedenza applicato, frutto di accordo con alcune organizzazioni sindacali, con il trattamento concordato con altri sindacati, e imponendo tale nuovo trattamento agli iscritti al sindacato non stipulante, nonostante l’esplicito diniego espresso; è stato in tale pronuncia ribadito che non sussiste, nel nostro ordinamento, un obbligo a carico del datore di lavoro di trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le organizzazioni sindacali, rientrando nell’autonomia negoziale da riconoscere alla parte datoriale la possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto collettivo con organizzazioni sindacali anche diverse da quelle che hanno trattato e sottoscritto il precedente (così si espresse anche Cassazione n. 24268/2013).

Tuttavia, nella specie ciò di cui si discute è l’applicazione del contratto collettivo sino alla sua naturale scadenza, in mancanza di una disdetta dello stesso da parte di soggetti a ciò legittimati.

La Suprema Corte conclude evidenziando come la questione principale che “i giudici dei giudici” devono risolvere, per decidere la controversia che gli è stata presentata, è se l’anticipata disdetta e la vincolatività del termine di scadenza del contratto sostituito abbiamo o meno valore ostativo alla stipulazione di nuovo contratto.

Sul punto, precisano che nessun principio o norma dell’ordinamento italiano induce a ritenere consentita l’applicazione di un nuovo contratto collettivo prima della prevista scadenza di quello in corso di applicazione, che le parti si sono impegnate a rispettare.

La sentenza in commento riserva, poi, una particolare attenzione anche al contratto di prossimità, disciplinato dall’articolo 8, D.L. 138/2011, convertito in L. 138/2011.

L’interesse per tale, speciale, contratto collettivo, sottoscritto a livello aziendale o territoriale, è evidentemente, anche per il caso in esame, la previsione che gli accordi di prossimità “operano anche in deroga alle disposizioni di legge … ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”, potendo così, pur in assenza di un espresso rinvio della norma alla contrattazione collettiva, disporre interventi modificativi o abrogativi della norma stessa. La possibilità di intervenire sulla norma e, contemporaneamente, di essere efficace erga omnes, è inequivocabilmente l’appeal della contrattazione di prossimità. Tali contratti possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, all’emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività. Il Legislatore del 2011, all’articolo 8, comma 2, D.L. 138/2011, dispone che gli accordi di prossimità possano riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:

  1. agli impianti audiovisivi e all’introduzione di nuove tecnologie;
  2. alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale;
  3. ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;
  4. alla disciplina dell’orario di lavoro;
  5. alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite Iva, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro. Non possono essere oggetto di intesa il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino a un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore e il licenziamento in caso di adozione o affidamento. L’articolo 8 prevede espressamente che la sottoscrizione dei richiamati contratti collettivi decentrati sia effettuata “da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale” ovvero “dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda […] a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario”. È giusto rilevare come esista la possibilità che tale sottoscrizione avvenga anche solo da una sola sigla sindacale, purché dotata di comparata rappresentatività. È da notare, infatti, come il Legislatore abbia utilizzato la preposizione semplice “da” e non la preposizione articolata “dalle”, lasciando quindi intendere la legittimazione alla sottoscrizione anche di una sola associazione. L’utilizzo di “dalle loro rappresentanze sindacali in azienda” non impone l’unanimità delle stesse, ma significa esclusivamente che debbano essere derivazioni di quelle medesime organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Viste le precipue prerogative derogatorie delle intese disciplinate dall’articolo 8, D.L. 138/2011, ci si potrebbe legittimamente domandare se siffatto atto negoziale possa conferire il potere al datore di lavoro di recedere ante tempus dall’accordo collettivo di livello superiore, ma tale ipotesi viene recisamente smentita dalla Corte di Cassazione.

 

Conclusioni

Ciò che emerge dalla lettura della sentenza n. 21537/2019 è che si palesi l’ipotesi di condotta antisindacale non certamente nel caso in cui, nel pieno rispetto del precetto costituzionale di cui all’articolo 39, Costituzione, il datore di lavoro scelga con chi trattare per la sottoscrizione di un nuovo accordo successivo a uno precedente, quanto piuttosto nel caso in cui vi sia un atteggiamento di rifiuto alla trattativa, precludendo in tal modo al sindacato la possibilità di svolgere il suo ruolo. Si verifica quindi, in quello specifico caso, “la lesione dei diritti dei sindacati e l’interesse di questi ultimi a veder rimossa la perdurante situazione idonea a comprimere il libero esercizio e delle prerogative sindacali”. Concludendo, poi, nell’ipotesi in cui all’impresa interessi recedere dal contratto collettivo, il quale generalmente ha predeterminato il termine finale, essa dovrà aver cura di comunicare il recesso alla scadenza dello stesso o entro i termini di disdetta stabiliti, non potendo, unilateralmente, recedere ante tempus.

[1] M.N. Bettini, P. Pizzuti, Il rifiuto del datore di lavoro di negoziazione ed informazione nei confronti del sindacato costituisce comportamento antisindacale, in “Soluzioni lavoro.it”.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia:

Diritto sindacale