8 Maggio 2025

Se c’è denuncia dei protocolli è whistleblowing

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Con ordinanza n. 10864 del 24 aprile 2025, la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia di applicabilità delle tutele previste dalla normativa sul whistleblowing. Nel caso di specie, in particolare, un lavoratore, contestando la decisione dell’AD di tenere – durante il periodo pandemico – una riunione in presenza, aveva inviato diverse email nell’arco di 4 giorni al proprio superiore gerarchico, in cui non solo aveva contestato la violazione dei protocolli contro la diffusione del Covid-19 nei luoghi di lavoro, ma aveva altresì svolto diverse altre considerazioni caratterizzate da un tono polemico, a tratti ingiuriose e dai profili di insubordinazione.

Lo stesso lavoratore aveva poi riferito della violazione dei protocolli anche al Comitato anti-Covid, esponendo così l’amministratore delegato anche a potenziali pregiudizi di ordine legale. La Società aveva dunque licenziato il lavoratore per giusta causa.

In seguito all’impugnazione, sia in primo che in secondo grado, il licenziamento veniva dichiarato illegittimo, in quanto sproporzionato, ritenendo invece escluso il carattere ritorsivo del recesso.

La Corte di Cassazione, riformando la sentenza della Corte territoriale, ha invece affermato che, proprio per effetto dell’esposto del lavoratore al Comitato, dovessero trovare applicazione le tutele previste dalla normativa sul whistleblowing a beneficio del segnalante.

Innanzitutto, secondo la Corte, le esternazioni di dissenso di cui alla corrispondenza intrattenuta fra il lavoratore e l’amministratore delegato vanno ricondotte al legittimo esercizio del diritto di critica connesso alle condizioni di lavoro in azienda.

In secondo luogo, la segnalazione sulla violazione dei protocolli non può che condurre all’applicazione della normativa a tutela del whistleblower. Sulla base di dette considerazioni, la Cassazione ha ritenuto il licenziamento illegittimo, non già perché sproporzionato, ma perché i fatti contestati sarebbero insussistenti, da cui dunque l’applicazione della c.d. tutela reale attenuata, consistente dunque nella reintegra del lavoratore e nel risarcimento in misura di massimo 12 mensilità.

A ben vedere, la normativa richiamata dalla suprema Corte farebbe ricadere il recesso nell’alveo della ritorsività, il che avrebbe dovuto condurre alla diversa (e più grave) sanzione della nullità del licenziamento con applicazione della tutela reale piena.

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