14 Maggio 2025

Disciplina fiscale dei riaddebiti nel reddito da lavoro autonomo

di Paolo Meneghetti Scarica in PDF

Il riaddebito di costi sostenuti dal professionista al suo committente, quali spese necessarie per svolgere l’incarico affidatogli, è sempre stato un tema fiscalmente in bilico tra la definizione di provento vero e proprio e la collocazione tra i componenti rilevanti ma non definibili come compenso. Il tema porta con sé l’applicazione o meno di ritenuta di acconto e quindi si tratta di questione molto delicata e frequente nell’esercizio di arte o professione. Ma il riaddebito non riguarda solo le spese di trasferta ma anche i costi sostenuti per l’utilizzo in comune di locali adibiti a studio, con una modalità variabile nel senso che tra professionisti legati da un rapporto paritetico di colleganza i costi vengono ripartiti, mentre ove vi sia un dominus e altri professionisti che collaborano solo con quest’ultimo il riaddebito, di regola, non avviene. Ebbene su questa vicenda si sono generati diversi contenziosi tra Agenzia delle entrate e contribuenti, contenziosi che sono giunti all’esame della Corte di Cassazione con recenti esiti contrastanti rispetto a pronunce del passato.

La disciplina fiscale del riaddebito di costi sostenuti da un lavoratore autonomo nei confronti di altri lavoratori autonomi, o più in generale nei confronti di soggetti terzi, costituisce un tema comune nella attività professionale. Su tale problematica è recentemente intervenuto il D.Lgs. 192/2024 che con l’articolo 5 ha riformato sensibilmente la disciplina del riaddebiti (sia di spese comuni, sia di costi sostenuti nell’ambito di trasferte il cui incarico proviene da terzi). Ma anche la Corte di Cassazione è tornata recentemente su questo argomento con una ordinanza che ribalta le conclusioni a cui la stessa Suprema Corte era giunta nel 2015. Quindi, l’intera tematica va indagata sia alla luce delle novità normativa sia di fronte alla nuova posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità.

Ma andiamo con ordine affrontando prima di tutto il tema del riparto delle spese comuni relative a un immobile utilizzato da vari professionisti, nel quale le utenze sono intestate a un solo professionista. Ebbene costui può decidere di riaddebitarle o meno agli altri professionisti. Valutiamo separatamente i 2 casi.

 

Le spese non riaddebitate

Non è certo un caso isolato riscontrare il fatto che in uno studio professionale, nel quale lavorano diversi collaboratori del professionista principale, si presenti un utilizzo comune di spazi (con i relativi costi quali canoni locativi, utenze di vario genere, etc.) senza che il professionista intestatario di tali costi proceda al riaddebito ai vari collaboratori. Pensiamo al tipico rapporto che si genera tra un professionista dominus e altri professionisti collaboratori a vario titolo che utilizzano i locali dello studio del quale il dominus è proprietario o locatario. Non si tratta certamente di una fattispecie rara, e nella maggioranza dei casi il dominus non riaddebita alcun costo ai collaboratori che lavorano esclusivamente o quasi esclusivamente a vantaggio del dominus.

Ebbene questo scenario ha dato vita a 2 contrastanti pronunce della Suprema Corte che, in prima battuta, nel 2015 aveva sostenuto una tesi molto criticabile mentre 10 anni dopo ha rovesciato le proprie conclusioni.

Con la sentenza n. 16035/2015 la Cassazione confermava i rilievi operati dall’Agenzia delle entrate nei confronti di un professionista, che non aveva riaddebitato i costi di gestione di uno studio a tutti i professionisti collaboratori che vi lavoravano. La Cassazione, richiamando le conclusioni della circolare n. 38/E/2010, ha sostenuto che il professionista unico intestatario dei costi può dedurre solo quelli rimasti a suo carico. I costi sensatamente riferibili a un uso dei locali eseguito dai collaboratori, non potrebbero che essere dedotti da questi collaboratori, mentre se il riaddebito non è stato eseguito, il mancato riaddebito si traduce in liberalità, quindi atto fiscalmente non rilevante. Nel ricorso presentato dal contribuente era stata richiesta, in subordine, la possibilità di dedurre almeno una parte di detti costi pari a un percentuale stimata dell’utilizzo dei locali eseguito direttamente dal professionista dominus, ma anche tale richiesta è stata respinta dalla Cassazione, in quanto non sufficientemente provata con documenti che permettessero di arrivare alla percentuale di deducibilità invocata dal ricorrente. Sicché tutte le spese relative a quei locali, e non riaddebitate, sono state considerate non deducibili dall’Agenzia delle entrate con l’avallo della Cassazione.

Senonché 10 anni più tardi con la recentissima ordinanza n. 4663/2025 la Suprema Corte ritorna su questo argomento in un contenzioso del tutto simile a quello prodotto nel 2015. Il tema è sempre l’utilizzo di locali da parte di più professionisti, con costi addebitati solo a uno di essi e non ribaltati da quest’ultimo sugli altri collaboratori. In questa recente pronuncia la Cassazione boccia immediatamente il richiamo alla circolare n. 38/E/2010 poiché detta circolare (che comunque non sarebbe una fonte normativa ma solo l’interpretazione della normativa operata da una delle 2 parti del contenzioso, quindi non certamente imparziale) si interessa unicamente della fattispecie in cui i costi comuni per l’utilizzo dei locali sono riaddebitati, mentre nella fattispecie in esame essi non sono riaddebitati. Quindi il tema è giudicare l’inerenza di detti costi, considerando che il servizio a essi sotteso non è stato beneficiato solo da chi ne pretende la deduzione ma anche da altri, e da qui il riferimento all’atto di liberalità. Ma quando in uno studio vi sono alcuni soggetti che ne sono titolari e altri che collaborano esclusivamente o quasi con i titolari non si realizza alcun rapporto paritetico tra professionisti o di colleganza, bensì un rapporto nel quale i collaboratori soggiacciono alle direttive dei dominus, percependo un compenso senza svolgere una reale attività professionale autonoma dalla quale derivi la necessità di ripartire le spese. Quindi il sostenimento di tali spese, così come il compenso erogato a detti collaboratori, ricade solo sui titolari dello studio ed è costo inerente e deducibile proprio perché necessario per svolgere l’attività, e produrre i compensi da parte dei titolari dello studio. Non siamo di fronte, pertanto, a liberalità ma, al contrario, al sostenimento di un costo che per i titolari dello studio è funzionale allo svolgimento dell’attività così come ogni altro costo inerente. Da qui la pronuncia di deducibilità dei costi per l’utilizzo di locali comuni, non riaddebitati ai collaboratori che pure utilizzano detti spazi.

 

Le spese riaddebitate

Immaginiamo un caso diverso dal precedente ma altrettanto frequente e cioè la classica situazione del professionista che è locatario di uno studio e che riaddebita a un collega che lavora nel medesimo luogo fisico, parte del costo della locazione, oltre che parte del costo delle utenze e dei consumi energetici. Il tema è stato oggetto di una nota pronuncia di prassi dell’Agenzia delle entrate, sopra citata, risalente all’inizio del 2000 (circolare n. 58/E/2001, § 2.3) che ha codificato il corretto comportamento da tenersi a fronte del riaddebito, sia dal punto di vista di chi incassa la somma riaddebitata, sia per colui che paga l’addebito. La somma in questione per colui che la incassa non viene qualificata come un provento, bensì come un minor costo, il che porta alla conclusione che non vi è alcun compenso tassabile per il professionista riaddebitante che, al contempo, potrà dedurre come costo solo la quota effettivamente rimasta a suo carico, cioè al netto della parte riaddebitata. La conseguenza evidente di questa impostazione è che sul pagamento eseguito non va operata alcuna ritenuta d’acconto poiché non siamo di fronte a un compenso, bensì a un minor costo deducibile. Nella medesima circolare è stato affrontato anche il tema dell’Iva, arrivando a sostenere l’imponibilità del riaddebito in quanto definibile obbligazione di fare non fare o permettere da parte di un soggetto passivo Iva. Questa impostazione, sotto il profilo Iva, è certamente penalizzante in tutti i casi in cui chi subisce il riaddebito non è nella condizione di detrarre l’Iva (pensiamo ai medici che hanno in genere un pro rata di indetraibilità del 100% o al soggetto forfettario) ed è stata oggetto di critiche da parte della dottrina (norma di comportamento AIDC n. 93/1987) contestando il fatto che sia effettivamente realizzato il profilo soggettivo: infatti vero è che il professionista riaddebitante detiene partita Iva, ma questa operazione potrebbe non essere configurata come esercizio di arte o professione.

Dal punto di vista di chi paga l’addebito il costo è ordinariamente deducibile in quanto inerente, nel rispetto del principio di cassa e, ovviamente, per la quota effettivamente pagata.

Questa tematica va aggiornata con l’intervento normativo del D.Lgs. 192/2024 che modifica l’articolo 54, Tuir. Infatti, nella versione di tale norma applicabile dal 1° gennaio 2024 (per effetto della decorrenza retroattiva stabilita dall’articolo 6, comma 1, D.Lgs. 192/2024) il comma 1, lettera c), articolo 54, Tuir stabilisce che le somme incassate quale rimborso di spese sostenute per l’uso comune di immobili utilizzati anche promiscuamente per l’esercizio di arte o professione, non concorrono a formare il reddito imponibile. Si tratta, in qualche modo, di una ufficializzazione in chiave normativa della tesi già sostenuta con la circolare n. 38/E/2010. Correlata a questa previsione vi è la nuova disposizione di cui all’articolo 54-ter, comma 1, Tuir, secondo cui le spese riaddebitate non sono deducibili, salva la fattispecie del rimborso non incassato di cui si dirà più avanti in materia di spese per trasferte. È chiaro che la previsione di indeducibilità riguarda solo la quota di spesa riaddebitata, mentre quella effettivamente rimasta a carico del professionista riaddebitante è deducibile secondo l’ordinario principio di cassa. Va osservato che la nuova regola di cui all’articolo 54, lettera c), Tuir è una previsione necessaria poiché con il nuovo assunto che sancisce la omnicomprensività del reddito da lavoro autonomo (secondo cui il reddito in questione è formato dalla differenza tra tutte le somme e i valori percepiti a qualunque titolo e l’ammontare delle spese sostenute) sarebbe stato qualificato compenso o comunque reddito tassabile anche l’incasso della somma riaddebitata. Del resto fuori dalla eccezione di cui all’articolo 54, comma 1, lettera b) e c), Tuir, le somme riaddebitate diverse da quelle da ultimo citate (ad esempio riaddebito di spese per il personale dipendente) dal 2024 costituiscono certamente se non compensi in senso stretto, almeno somme rilevanti del reddito da lavoro autonomo.

 

Il provento correlato a un costo

Ora proviamo ad ampliare il tema affrontando la casistica del provento incassato a fronte di un costo sostenuto: in realtà la questione è del tutto simile a quella sopra affrontata ma l’ottica non è limitata ai costi riaddebitati da un professionista all’altro, ma riguarda più in generale i proventi strettamente correlati a costi sostenuti. Pensiamo al professionista che versa una sanzione per ristorare un proprio cliente da un errore compiuto, e che riceve dalla assicurazione professionale il risarcimento di detto costo. Se il risarcimento avviene nel medesimo periodo d’imposta in cui è stato sostenuto il costo potremmo ben parlare di minor costo deducibile similmente a quanto sopra enunciato. Ma se il risarcimento (o più in genere) il provento correlato è incassato in un periodo d’imposta successivo? Questo è il tema analizzato dalla risposta a interpello n. 482/E/2022 in cui un professionista riceve una somma dal proprietario dell’immobile detenuto quale locatario, per aver versato canoni locativi maggiori del dovuto in anni precedenti. A tutti gli effetti sembrerebbe di trovarsi di fronte a una classica sopravvenienze attiva definita dall’articolo 88, Tuir come il provento conseguito a fronte di oneri dedotti, ed è notorio che le sopravvenienze attive fino al 31 dicembre 2023 non erano imponibili nella determinazione del reddito professionale. Invece l’Agenzia delle entrate, definendo tali somme come proventi correlati a costi dedotti le ha ritenute fiscalmente rilevanti, anche riallacciandosi al precedente di prassi della risoluzione n. 356/E/2007. E proprio le pronunce richiamate dall’Interpello, qualificando le somme come proventi, hanno ritenuto necessaria l’operazione di ritenuta a titolo di acconto da trattenere al professionista percettore del riaddebito.

Con il 2024 la pronuncia della Agenzia delle entrate (fino al 2023 ampliamente criticabile) trova conforto nel nuovo testo dell’articolo 54, Tuir che introduce il sopra citato principio di omnicomprensività del reddito da lavoro autonomo. Il tema che lascia perplessi è l’applicazione della ritenuta di acconto, poiché se è vero che tali somme rientrano tra quelle incassate nell’esercizio dell’attività (correlate a costi dedotti in precedenza) altrettanto vero è che esse non possono essere considerate “compensi” in senso stretto e, va ricordato, che l’obbligo di operare la ritenuta è circoscritto, ex articolo 25, D.P.R. 600/1973, alla ipotesi di erogazione di compensi, non alla generica erogazione di somme che rientrano nel reddito da lavoro autonomo.

 

Le ripercussioni fino al 2023

Ragionando fino al periodo d’imposta 2023, dalla risposta a interpello n. 482/E/2022 emerge che secondo l’Agenzia delle entrate il provento correlato a un costo e incassato in anno successivo a quel costo non realizza la fattispecie della sopravvenienza attiva, che in sé sarebbe non tassabile in capo al professionista, bensì realizza un vero e proprio compenso tassabile. Le ragioni che stanno alla base di questa impostazione sono per certi versi comprensibili, nel senso che simmetria tributaria vuole che a fronte di un costo dedotto il provento a esso correlato abbia rilevanza fiscale. Però ci sono 2 aspetti che non convincono nella ricostruzione interpretativa dell’Agenzia delle entrate:

  • il medesimo importo (cioè il provento da riaddebito) se incassato nell’esercizio di sostenimento del costo è rilevante come minor costo, se invece incassato in un periodo successivo diventa un compenso tipico da attività professionale, tanto è che sarebbe necessario applicare ritenuta a titolo di acconto;
  • il provento incassato in un esercizio successivo a quello di sostenimento di un costo configura l’ipotesi di sopravvenienza attiva che indubbiamente nella determinazione del reddito professionale è componente non rilevante: ciò può sì determinare asimmetrie tributarie, ma per evitarle va modificato il dato normativo, come ha fatto il D.Lgs. 192/2024 il che in qualche conferma che fino al 2023 la tesi dell’Agenzia delle entrate era sbagliata, viceversa non sarebbe stato necessario intervenire normativamente.

Il tema trattato nell’Interpello pur non avendo a che fare in senso stretto con la tematica del riaddebito di costi, ha tuttavia delle ripercussioni anche sullo scenario del coworking nel senso che anche in questa ultima ipotesi vi sono proventi correlati a costi, ipotesi che, a tutti gli effetti, parrebbe configurare una sopravvenienza attiva non tassabile, mentre l’Agenzia delle entrate propende per la tassazione in quanto provento correlato a un costo dedotto. Inoltre, l’Agenzia delle entrate richiama la precedente risoluzione n. 356/E/2007 con la quale si è affermato che la somma erogata che risarcisce il professionista di costi sostenuti in anni precedenti va trattata come vero e proprio compenso quindi assoggettato a ritenuta a titolo di acconto (nella stessa direzione la risoluzione n. 106/E/2010).

Spostando l’esame dal caso dell’interpello al riaddebito di costi per canoni locativi, utenze, servizi di segreteria, seguendo l’opinabile tesi dell’Agenzia delle entrate si arriverebbe a dire che il provento da riaddebito incassato nel medesimo anno di sostenimento del costo va trattato come riduzione del costo stesso, mentre se incassato in anno successivo diviene compenso professionale da assoggettare a ritenuta d’acconto.

Le conseguenze di tale impostazione, laddove il provento da riaddebito venga incassato in un periodo d’imposta successivo al costo sono duplici a seconda del regime contabile scelto:

  1. nel caso di professionista in regime ordinario a fronte di un costo dedotto integralmente, viene tassato un provento, il che equivale a dire che nella sostanza, pur se nell’arco di più periodi d’imposta si avrebbe la deduzione del costo effettivamente rimasto a carico;
  2. nel caso di professionista forfettario invece emerge interamente l’irrazionalità della tesi succitata, in quanto se il riaddebito fosse percepito nell’anno di sostenimento del costo non si avrebbe alcuna ripercussione (il costo è comunque irrilevante), mentre se incassato nell’anno successivo concorrerebbe alla formazione del reddito imponibile da LM.

Questo diversa conclusione spinge a ritenere che sussista più di un dubbio sulla razionalità della pronuncia sussiste, e forse anche in questo senso si spiega la scelta di intervenire per via normativa come accade dal 2024 per effetto del D.Lgs. 192/2024.

Vediamo ora di sintetizzare con qualche esempio il tema del riaddebito.

CASO 1

Bianchi, avvocato in regime ordinario, è titolare di un contratto di locazione immobiliare relativo allo studio che utilizza insieme al collega Rossi. Il canone è pari a 12.000 euro annui e Bianchi incassa da Rossi, all’inizio dell’anno locativo, 6.000 euro a titolo di rimborso parziale.

Soluzione: la somma incassata da Bianchi va anzitutto fatturata con applicazione di Iva ordinaria. L’importo ricevuto rappresenta una riduzione del costo locativo sopportato da Bianchi, il quale inserirà nel proprio quadro RE del modello redditi l’importo di 6.000 euro a titolo di costo per canoni. Sulla somma incassata non va operata alcuna ritenuta di acconto, a maggior ragione dal 2024 per effetto della declaratoria di somme irrilevante fiscalmente di cui all’articolo 54, lettera c), Tuir.

CASO 2

Verdi, commercialista in regime forfettario, utilizza per la propria attività uno studio di proprietà nel quale svolge l’attività anche Gialli, commercialista in regime ordinario. Verdi, titolare del contratto per le utenze elettriche di riscaldamento riaddebita a Gialli la metà dei consumi pari a 3.000 euro all’anno.

Soluzione: la somma addebitata da Verdi a Gialli non comporta l’applicazione di Iva posto che Verdi è in regime forfettario. L’incasso del provento riduce il costo, ma siccome Verdi è in regime forfettario l’operazione non modifica il reddito di quest’ultimo, mentre Gialli in regime ordinario, deduce quale costo per utenze professionali la somma erogata.

CASO 3

Mario Neri, architetto in regime ordinario, vince una causa con la società Alfa Srl, la quale viene condannata a risarcire al professionista la somma di 4.000 euro quale rimborso di costi sostenuti dall’architetto 3 anni prima.

Soluzione: la somma versata, pur essendo qualificata come risarcimento di costi, viene qualificata secondo l’Agenzia delle entrate, come provento correlato a costi, provento che va qualificato come compenso professionale da assoggettare a ritenuta a titolo di acconto, similmente a quanto accadrebbe a fronte di una ordinaria prestazione.

CASO 4

Giuseppe Bianchi, medico lavoratore autonomo, vince una causa con un ex paziente per danno di immagine, generato dalla supposta imperizia del professionista. La somma in questione è versata da un privato ed è pari a 20.000 euro, ed evidentemente non si riferisce a una prestazione medica.

Soluzione: nonostante la causa da cui origina l’erogazione non si possa qualificare come prestazione professionale, bensì come risarcimento, secondo la tesi della Agenzia delle entrate, la somma va trattata come indennità per lucro cessante, quindi, tassata esattamente come se fosse stata svolta una vera e propria prestazione medica. Ciò a maggior ragione, dal 2024, per effetto del principio di omnicomprensività del reddito da lavoro autonomo. In quanto soggetto privato, l’erogante non è tenuta a operare ritenuta di acconto.

 

I riaddebiti di somme per trasferte

Nella disciplina dell’articolo 54, Tuir vigente fino a tutto il 2024 (decorrenza posticipata di questa regola rispetto alla decorrenza generale delle novità in materia di lavoro autonomo cioè 1° gennaio 2024) emerge che i rimborsi per spese di trasferta (vitto e alloggio) sostenuti dal professionista nell’espletamento del suo incarico e riaddebitati analiticamente al committente, non soggiacciono ai limiti di deducibilità sanciti al 75% (e con tetto massimo del 2% dell’ammontare dei compensi incassati dal professionista). Ciò non di meno il riaddebito costituisce un compenso tassabile (la cui rilevanza reddituale è azzerata dalla deducibilità del costo), con il conseguente obbligo di applicare la ritenuta d’acconto all’atto del pagamento da parte del committente.

Su tale incongruenza generata dal compenso azzerato dal costo, ma con applicazione di ritenuta il che crea un fisiologico credito in capo al professionista, interviene il D.Lgs. 192/2024 che riformula l’articolo 54, comma 1, lettera b), Tuir. Infatti, viene previsto che in linea generale tutte le spese sostenute dal professionista per l’espletamento dell’incarico e riaddebitate analiticamente al committente non costituiscono reddito per il professionista. Dalla novità (applicabile alle spese sostenute dal 2025) consegue che da una parte viene meno l’obbligo di operare la ritenuta di acconto e dall’altra si avrà l’irrilevanza della componente costo, quindi queste spese sostenute dal professionista non concorrono alla formazione del reddito, o meglio, sono qualificate indeducibili, così come disposto dall’articolo 54-ter, comma 1, Tuir.

Ma questo nuova previsione porta all’obiettivo di evitare una ritenuta d’acconto operata su un reddito inesistente per definizione, solo postulando l’avvenuto pagamento da parte del committente del rimborso riaddebitato. È evidente, altresì, che se tale pagamento non avvenisse, il professionista si vedrebbe penalizzato in modo duplice: da una parte per non aver incassato una somma a lui dovuta, e dall’altra per non avere dedotto un costo che in assenza dell’incasso del riaddebito rimane effettivamente a suo carico. Ed è proprio su questo punto che interviene il D.Lgs. 192/2024 introducendo una interessante previsione con un nuovo articolo 54-ter, Tuir che, in deroga alla generale previsione di indeducibilità delle spese riaddebitate, statuisce al contrario la deducibilità delle stesse, laddove siano sorti dei problemi nell’ottenere il rimborso da parte del committente. Si tratta di una sorta di deducibilità indiretta della perdita sul credito per il rimborso, la cui condizione è l’avvio da parte del committente di una delle procedure di risoluzione della crisi di cui al D.Lgs. 14/2019 (deducibilità dei rimborsi spesa dalla data in cui si è fatto ricorso alle procedure), oppure sia rimasta infruttuosa la procedura esecutiva individuale avviata contro il committente inadempiente.

Infine, va sottolineato che nell’ottica di favorire il professionista, inciso dalla spese di trasferta e per le quali egli abbia difficoltà a ottenere il rimborso dal committente, l’articolo 54-ter, Tuir prevede che entro un limite di ammontare del rimborso pari a 2.500 euro, le stesse spese non rimborsate entro un anno dalla emissione della fattura sono in ogni caso deducibili, esattamente nel periodo d’imposta in cui scade il termine annuale senza che il committente abbia dato esito al rimborso. Il riferimento all’importo addebitato in fattura porta a ritenere che il tetto di 2.500 euro vada considerato non cliente per cliente, ma fattura per fattura, e del resto se l’anno decorre dalla emissione della fattura è solo quest’ultimo documento che rileva per misurare il rispetto del limite di 2.500 euro.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare tributaria”.

Casi d’uso ai della piattaforma EuroconferenceInPratica – giugno