26 Ottobre 2022

Gerarchia delle fonti: deroghe al Ccnl da parte del contratto aziendale

di Andrea Ercoli

Il tema dei rapporti tra contratti collettivi di differente livello ha interessato, nel corso degli anni, la giurisprudenza e la dottrina. L’analisi ha riflessi sulla pratica, specialmente nel caso in cui una contrattazione molto stratificata sia applicabile al rapporto di lavoro, con più possibili conflitti normativi sugli istituti. Per dirimere questi dubbi è necessario conoscere i criteri interpretativi elaborati nel corso degli anni.

 

Premessa

La gerarchia esistente tra i vari livelli di contrattazione, se individuata con precisione, è il metro di misura su cui valutare la libertà delle parti sociali che addivengano a un accordo. Il rapporto tra le fonti contrattuali del diritto del lavoro costituisce argomento tradizionale di dibattito tra i commentatori, in quanto varie teorie hanno ipotizzato una lettura univoca del tema, senza raggiungere un punto di concordia pacifico. Il tema è rilevante dal punto di vista teorico e pratico, stante la diffusione della contrattazione di secondo livello, oltre alla rilevanza data alla contrattazione collettiva dal nostro ordinamento.

D’altro canto, la legislazione del lavoro ha fatto ricorso spesso alla disciplina della delega ai contratti collettivi, per regolare alcuni aspetti peculiari dei rapporti, anche recentemente e su materie di assoluto rilievo. Non ultimi, i contratti collettivi nazionali stessi spesso sostengono e incoraggiano la contrattazione di secondo livello. Per comprendere, quindi, come possa agire e fino a dove possa spingersi la contrattazione di secondo livello nella deroga a quanto stabilito in contratti collettivi di livello superiore, è necessaria un’analisi delle varie teorie in materia, spesso basate su principi generali del diritto, oltre che su quanto disposto espressamente da atti normativi.

 

La contrattazione collettiva

Il contratto collettivo è l’accordo siglato tra le associazioni datoriali e le organizzazioni dei lavoratori, al fine di regolare in modo univoco i rapporti di lavoro instaurati in corrispondenza di un determinato comparto produttivo o più settori, con riferimento al trattamento economico e normativo, nei limiti imposti dalla normativa vigente.

Come noto, la Costituzione della Repubblica italiana disciplina una forma di contratto collettivo rimasta a oggi inattuata nell’ordinamento: il contratto con efficacia erga omnes. Se per ragioni politiche e storiche non è mai stato dato corso a tale modalità di contrattazione, che prevedrebbe il rispetto di alcune regole specifiche da parte delle organizzazioni sindacali (misura della rappresentatività, in primis), l’ordinamento ha comunque riconosciuto una modalità differente di contrattazione collettiva.

Di fatto, applicando i concetti del diritto privato generale, le organizzazioni sindacali hanno sottoscritto da sempre contratti collettivi, detti per questo motivo “di diritto comune”, in quanto espressione della libertà contrattuale delle parti sottoscrittrici, ma non depositari dell’efficacia erga omnes individuata dalla Carta Costituzionale.

Tali accordi hanno comunque assunto rilevanza centrale nella gestione dei rapporti di lavoro sotto molti punti di vista, forti dell’assenza di contratti applicabili erga omnes e del ruolo a essi riconosciuto dalla legge e dalla giurisprudenza. Se per approfondire la tematica brevemente accennata si rimanda a più specifici interventi, ai fini del presente contributo è importante sapere che la contrattazione collettiva nel nostro ordinamento si articola su più livelli, a seconda del perimetro di applicazione delle norme in essa contenute.

La contrattazione collettiva può, pertanto, essere di livello:

  • interconfederale;
  • nazionale;
  • territoriale;
  • aziendale.

La contrattazione di livello interconfederale regola alcune norme generali del diritto del lavoro, a prescindere dal settore di appartenenza. Si tratta di una modalità di negoziazione che ha vissuto fortune alterne nel corso degli anni e si può tradurre in accordi collettivi sottoscritti anche dal Governo, oltre che dalle parti sociali, anche se ciò non è obbligatorio.

Quando si parla genericamente di contratto collettivo, invece, si fa di norma riferimento alla contrattazione di livello nazionale: il cosiddetto Ccnl (Contratto collettivo nazionale di lavoro). Il Ccnl è lo strumento con cui vengono regolati i rapporti di lavoro di un determinato settore, con riferimento alla grande maggioranza degli istituti (la retribuzione, le ferie, le indennità, etc.), all’interno del perimetro tracciato dalla normativa.

Restringendo il campo geografico di applicazione troviamo la contrattazione territoriale, applicabile a livello regionale o provinciale. L’ultimo grado di contrattazione è tagliato sul singolo datore di lavoro, si tratta del livello aziendale di contrattazione collettiva, sottoscritto secondo le esigenze del singolo datore di lavoro e delle organizzazioni sindacali rappresentative presso il medesimo.

Un importante intervento normativo ha riconosciuto la rilevanza di tutti i livelli di contrattazione: l’articolo 51, D.Lgs. 81/2015, ha disposto che, ai fini dei rimandi contenuti nel medesimo decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.

 

La gerarchia

La presenza di più livelli di contrattazione nell’ordinamento potrebbe far pensare all’esistenza di una chiara gerarchia tra essi, ma, come anticipato in premessa, non è disponibile una norma che disponga tale rapporto di subordinazione. La contrattazione nazionale, stante la rilevanza, potrebbe apparire in una posizione sovraordinata rispetto ai contratti collettivi territoriali o aziendali, ma tale ordinamento non è scontato.

Le organizzazioni sindacali hanno provato a individuare in via endogena tale rapporto gerarchico, mediante l’accordo interconfederale del 10 gennaio 2014, sottoscritto da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Sulla base delle considerazioni riportate nel citato accordo, la contrattazione nazionale definisce le materie che vengono delegate alla contrattazione di secondo livello.

Tale accordo, definito “Testo Unico sulla rappresentanza”, non individua le regole per gestire i conflitti tra differenti livelli di contrattazione. Oltretutto, non sembrerebbe possibile per un atto di diritto privato determinare questo tipo di regola. Non procede in questo senso nemmeno il citato articolo 51, che pone sul medesimo piano i livelli di contrattazione, senza alcun accenno ai rapporti di forza tra essi.

Non mancano altri interventi significativi, che meritano di essere citati in relazione a questo tema. Il protocollo tra Governo e parti sociali, “Politica dei Redditi e dell’occupazione, assetti contrattuali, politiche del lavoro e sostegno al sistema produttivo”, sottoscritto in data 23 luglio 1993, identifica la contrattazione nazionale come strumento di regolamentazione generale. Interessante quanto viene detto relativamente alla contrattazione di secondo livello: “La contrattazione aziendale riguarda materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del CCNL”.

E ancora: “La contrattazione aziendale o territoriale è prevista secondo le modalità e negli ambiti di applicazione che saranno definiti dal contratto nazionale di categoria nello spirito dell’attuale prassi negoziale con particolare riguardo alle piccole imprese. Il contratto nazionale di categoria stabilisce anche la tempistica, secondo il principio dell’autonomia dei cicli negoziali, le materie e le voci nelle quali essa si articola”.

Come evidente, lo scopo è circoscrivere il raggio d’azione della contrattazione di secondo livello, evidenziando che il contratto nazionale è lo strumento destinato a delineare i limiti entro i quali è possibile muoversi. Queste nozioni sono antecedenti e, in un certo senso, prodromiche a quanto citato con riferimento al T.U. rappresentanza. L’obiettivo, che ha visto anche le tappe intermedie dell’accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 2009 e dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, è identificare una rigida gerarchia delle fonti in ambito contrattuale, relegando la contrattazione di secondo livello a strumento per attuare quanto stabilito in sede di contratto nazionale.

Tutti gli atti citati, tuttavia, hanno efficacia puramente obbligatoria. La forma con cui sono stati sottoscritti, infatti, è sempre da reperirsi nel diritto comune dei contratti, che, pertanto, non può costituire un intervento vincolante in via generale, stante anche l’altalenante adesione delle sigle sindacali, che hanno parzialmente rifiutato di sottoscrivere tali accordi e protocolli in più occasioni.

Per trovare un principio di ragionevole fruibilità, quindi, è necessaria una panoramica delle teorie su cui giurisprudenza e dottrina si sono basate nel corso degli anni. Prima di analizzarle, tuttavia, è opportuno circoscrivere il dubbio sulla derogabilità a un solo argomento: può il contratto di secondo livello (aziendale o territoriale) derogare in pejus alla contrattazione di livello superiore?

Nulla quaestio, infatti, sulla deroga in melius: ove il contratto più prossimo deroghi alle materie gestite dal contratto nazionale migliorandole, si ritiene pacificamente che tale operazione sia legittima.

 

La teoria del favor

La prima teoria di riferimento per l’argomento in trattazione è quella c.d. del favor lavoratoris. La tesi è risalente e affonda le proprie radici negli anni precedenti l’emanazione dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970). In quel periodo la giurisprudenza utilizzava questo metro di misura per valutare quelli che venivano definiti patti plurilaterali all’interno dell’azienda. L’applicazione del principio del favor ha percorso numerosi anni, con varie traduzioni pratiche, ma prende le mosse da quanto stabilito per i contratti individuali dall’articolo 2077, cod. civ..

In buona sostanza, la previsione codicistica prevede l’inderogabilità in pejus, da parte del contratto individuale, della disciplina prevista dal contratto collettivo applicabile.

Il testo della norma non fa alcun riferimento alla contrattazione di secondo livello, ma per i sostenitori della teoria del favor sarebbe analogicamente applicabile ai rapporti tra i 2 livelli di contrattazione. Il principio secondo cui non sarebbe possibile derogare in senso peggiorativo a previsioni della contrattazione collettiva sarebbe, quindi, applicabile in senso lato a ciascun atto sottoscritto, a prescindere da quanto indicato letteralmente dall’articolo 2077, cod. civ..

Questa linea interpretativa non ha, tuttavia, trovato conforto nella giurisprudenza, che già nel 1988 (sentenza n. 2021/1998) sosteneva che: “a tale categoria di pattuizione collettiva non è applicabile la norma invocata (l’art. 2077 del Codice Civile, NdA) concernente invece, i rapporti tra contrattazioni collettive anche di livello aziendale, e contratto individuale”.

La teoria del favor lavoratoris, ove ritenuta applicabile, trova rinforzo nel principio della tutela reale, a sua volta analogicamente applicato ai rapporti tra contratti. Nel caso in cui si desse credito a tale ricostruzione, l’eventuale clausola peggiorativa inserita nella contrattazione collettiva sarebbe automaticamente sostituibile con la clausola di maggior favore nei confronti del lavoratore.

La disciplina del favor, tuttavia, presta il fianco a un’interpretazione più moderna anche con riferimento al contratto individuale, che potrebbe estendersi anche con riferimento alla materia in parola. La valutazione sul maggior favore viene, infatti, oggi declinata in senso più comprensivo, valutando maggiori e minori vantaggi con riferimento all’intera posizione lavorativa, più che al singolo istituto contrattuale.

 

La teoria del mandato

Una delle teorie classiche del diritto del lavoro, pur se particolarmente risalente, è la c.d. teoria del mandato, secondo la quale il rapporto intercorrente tra i lavoratori e le organizzazioni sindacali è assimilabile a quanto disciplinato in materia di mandato dagli articoli 1723 e 1726, cod. civ.. Senza indulgere in analisi più dettagliate, il fulcro della teoria ai fini del presente contributo è che le norme richiamate sanciscono l’irrevocabilità del mandato, da cui si leggerebbe l’immodificabilità della contrattazione collettiva, effetto del mandato stesso.

La teoria ha negli anni subito alcune critiche, risultando oggi superata. La prima critica prende le mosse dall’assunto appena riportato, ossia che l’irrevocabilità del mandato non permetterebbe deroghe alla contrattazione: in questo caso dovrebbero considerarsi nulle anche le deroghe migliorative.

La seconda critica riguarda l’assimilazione tra irrevocabilità e inderogabilità: il mandato è sì irrevocabile, ma ciò non significa che quanto pattuito dal mandatario sia immodificabile da pattuizioni successive.

Poste queste critiche, ciò che più riguarda il tema oggetto del presente contributo è la declinazione di questo mandato. Ove, infatti, di mandato si tratti, lo stesso ha natura ascendente o discendente? In sostanza, le organizzazioni sindacali aziendali e territoriali sono sovraordinate (teoria del mandato ascendente) o subordinate (teoria del mandato discendente) rispetto a quelle nazionali, con riferimento alle scelte a esse delegate dal lavoratore?

La teoria del mandato ascendente, che trova la propria base in pronunce risalenti della Corte di Cassazione (n. 2018/1978), prevede che il lavoratore affidi il proprio mandato principalmente alle organizzazioni aziendali e territoriali, in quanto più prossime e maggiormente a conoscenza degli interessi di cui sono depositarie. Viceversa, la teoria del mandato discendente, che trova la propria origine, nello stesso periodo, in altre pronunce della Suprema Corte (n. 213/1978), prevede che il lavoratore conferisca il proprio mandato in primis alle organizzazioni sindacali nazionali, dalle quali discendono le indicazioni verso le organizzazioni territoriali e aziendali.

Negli anni, le altalenanti fortune di entrambe le teorie, unite alla più generale critica nei confronti della linea di pensiero del mandato, come già riportato, hanno indebolito entrambe le posizioni, di fatto superandole.

 

La successione nel tempo

Superate le contrapposte teorie del mandato ascendente e discendente, la giurisprudenza, negli anni ’90 del secolo scorso, ha individuato un nuovo criterio per valutare la prevalenza di uno o dell’altro contratto collettivo: la posteriorità.

Il criterio in parola prevede che non vi sia una gerarchia tra i 2 contratti, posti di fatto sullo stesso piano dal punto di vista del valore vincolante, ma che semplicemente il contratto successivo deroghi il contratto precedente, secondo un criterio di mera cronologia. Ciò comporta la possibilità, per il contratto collettivo di secondo livello sottoscritto successivamente al contratto collettivo nazionale, di derogare alle disposizioni di quest’ultimo anche in pejus.

In questo senso è assolutamente significativa la pronuncia della Corte di Cassazione n. 2155/1990, in cui si legge: “Già in altre controversie insorte sulla stessa questione […] l’orientamento di questa Corte si è manifestato nel senso che, non essendo applicabile in materia la disciplina dell’art. 2077 c.c., il detto conflitto va risolto non già assegnando la prevalenza alla disciplina più favorevole al lavoratore o in base al criterio della specialità, ma alla stregua della effettiva volontà delle parti contraenti […], tenendo presente che la possibilità della nuova disciplina collettiva (sia essa nazionale o aziendale) di modificare “in peius” per i lavoratori quella precedente può trovare limiti soltanto nell’esistenza di veri e propri diritti (e non già di mere aspettative) che il lavoratore abbia acquisito sotto il vigore della clausola poi superata da quella peggiorativa, ancorché tali diritti non siano stati ancora esercitati o soddisfatti […]. In applicazione di tali principi il Tribunale ha proceduto all’interpretazione [..] traendone il convincimento che il carattere generale della nuova disciplina introdotta dovesse comportare l’assorbimento e la sostituzione di ogni diversa disciplina aziendale precedente”.

Il pregio della teoria in oggetto è sicuramente la chiarezza applicativa: un criterio puramente cronologico, infatti, è univoco. Tuttavia, la linea di pensiero tralascia completamente il tema della regolamentazione di un istituto da parte di atti differenti, non affrontando appunto il tema del conflitto “gerarchico” tra le 2 fonti. Da qui, un’evoluzione della teoria in oggetto, basata sul criterio di specialità.

 

Il criterio di specialità

Questo criterio, presente in forma più o meno massiva nel corso del lungo dibattito giurisprudenziale cui si è fatto cenno, ma soprattutto caldeggiato dalla dottrina, si basa sul principio secondo cui la norma più vicina al rapporto regolato abbia potere di derogare alla norma più lontana dal medesimo.

Si tratta di una traduzione del principio contenuto nel brocardo lex specialis derogat generalis, applicato in via generale nell’ordinamento. In buona sostanza, il contratto collettivo aziendale avrebbe buon diritto di derogare, anche in senso peggiorativo il contratto nazionale, in quanto più prossimo agli interessi regolati.

 

Il criterio della volontà delle parti

La teoria oggi dominante, ai fini dell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi che risultino in contrasto tra loro, è quello dell’effettiva volontà delle parti. Il principio in oggetto presuppone una parità di dignità tra i vari livelli contrattuali, escludendo, per questo motivo, l’esistenza di una linea gerarchica tra essi che subordini un livello contrattuale all’altro.

Prendendo le mosse da questo presupposto, l’analisi sulla disciplina applicabile all’istituto deve analizzare le disposizioni di ciascun contratto collettivo, andando a ricercare la volontà delle parti contraenti sul tema.

L’azione ermeneutica, quindi, ha rilevanza centrale: non sarà l’atto in quanto tale a costituire la base per valutare se la deroga è valida o meno, ma sarà la disciplina contenuta in ciascun contratto a suggerire la reale volontà delle parti sul tema esaminato.

Questa teoria costituisce un cambio di paradigma importante e prende forma da pronunce recenti della Corte di Cassazione. Si legge, ad esempio, nella sentenza n. 19396/2014: “E sempre con riguardo al concorso tra i diversi livelli contrattuali è stato anche precisato che detto concorso va risolto non secondo i principi della gerarchia e della specialità propria della fonte legislative, bensì accertando quale sia l’effettiva volontà delle parti, da desumersi attraverso il coordinamento delle varie disposizioni della contrattazione collettiva, aventi tutti pari dignità e forza vincolante, sicche’ anche i contratti aziendali possono derogare in peius di contratti nazionali, senza che osti il disposto dell’articolo 2077 c.c., con la sola salvaguardia dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori, che non possono pertanto ricevere un trattamento deteriore in ragione della posteriore normativa contrattuale, di eguale o di diverso livello […]”.

Questo punto di vista, pienamente condiviso da chi scrive, costituisce oggi la traccia per interpretare eventuali conflitti tra contratti collettivi di diverso livello, ove si verifichino clausole incompatibili tra loro.

 

Il contratto di prossimità

Un ultimo istituto deve essere considerato, ai fini di una completa analisi sul tema: il contratto di prossimità. Questa tipologia di contratto aziendale, che è stata introdotta dal D.L. 138/2011, prevede espressamente la possibilità, per un contratto collettivo aziendale o territoriale, di derogare alle disposizioni del contratto nazionale.

I contratti di prossimità possono riguardare le regole riferite:

  1. agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie;
  2. alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale;
  3. ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;
  4. alla disciplina dell’orario di lavoro;
  5. alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite Iva, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio.

Il potere derogatorio del contratto di prossimità, oltretutto, si estende anche alla normativa: l’articolo 8, comma 2-bis, D.L. 138/2011, prevede che tali specifiche intese operino anche in deroga alle disposizioni di legge.

Oltre alle limitazioni legate alle materie, tuttavia, il contratto di prossimità ha trovato un ostacolo nell’ostracismo a esso riservato dalle organizzazioni sindacali, che dall’instaurazione della citata norma hanno sempre evitato di sottoscrivere accordi con le caratteristiche proprie del contratto di prossimità.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Contratti collettivi e tabelle“.

 

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