16 Dicembre 2020

Gli accordi di incentivo all’esodo nel Decreto Agosto (e nel Decreto Ristori)

di Edoardo Frigerio

Uno degli strumenti di più significativa portata utilizzato dal Legislatore al fine di attutire le drammatiche ricadute sociali dell’emergenza COVID-19, è stato sicuramente, a partire dal 17 marzo scorso, il divieto dei licenziamenti individuali per motivo oggettivo accompagnato dal blocco delle procedure di licenziamento collettivo. Tale “congelamento” dei licenziamenti è stato prorogato prima dal Decreto Agosto e poi dal Decreto Ristori, che hanno previsto, però, alcune deroghe, tra le quali spicca la possibilità per il datore di lavoro di stipulare, con le organizzazioni sindacali, un accordo collettivo aziendale che preveda un incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro a favore dei lavoratori che aderiscono a tale accordo, con la possibilità, per il lavoratore disoccupato, di richiedere il trattamento di NASpI.

 

L’articolo 14, D.L. Agosto, la proroga del divieto di licenziamento per motivi economici e l’ulteriore proroga dell’articolo 12, D.L. Ristori

Nell’ambito delle ormai innumerevoli norme lavoristiche introdotte nell’ambito dell’attuale persistente emergenza pandemica, l’articolo 14 (intitolato “proroga delle disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo”), D.L. 104/2020 (c.d. Decreto Agosto, ma si sarebbe forse dovuto chiamare Ferragosto, essendo entrato in vigore proprio il 15 agosto del corrente anno), come convertito dalla L. 126/2020, ha disposto, come noto, una generale proroga al divieto dei licenziamenti individuali per motivo oggettivo e dei licenziamenti collettivi nel corrente anno, accanto, però, a molteplici eccezioni al divieto. Con tale norma i datori di lavoro hanno la facoltà di procedere al licenziamento:

  1. alla fine della cassa integrazione c.d. COVID-19 per le imprese che hanno utilizzato le nuove 18 settimane di ammortizzatori sociali;
  2. alla fine del periodo di esonero contributivo per i datori che, nel periodo di maggio e giugno 2020 abbiano fruito di ammortizzatori sociali, ma che non intendano utilizzarne di nuovi;
  3. nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività, nel caso in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni o attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’articolo 2112, cod. civ.;
  4. nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, essendo comunque riconosciuto il trattamento NASpI;
  5. in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione e, nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso;
  6. nell’ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di Legge, di Ccnl oppure di clausola del contratto di appalto stesso.

Successivamente è, però, intervenuto il recentissimo e ulteriore Decreto Ristori (D.L. 137 del 28 ottobre 2020, pubblicato in G.U. del medesimo giorno ed entrato in vigore il giorno successivo), che nuovamente ha introdotto modifiche all’attuale divieto di licenziamento.

Con le disposizioni previste nell’articolo 12, commi 9-11, Decreto Ristori, è stato ulteriormente prorogato il divieto di licenziamento per motivo economico, individuale o collettivo, al 31 gennaio 2021, ma, è opportuno notare, tale termine ridiviene “secco”: escono, infatti, di scena, non essendo stata riprodotta nel nuovo Decreto la relativa disposizione, i termini “mobili” di divieto del Decreto Agosto legati all’utilizzo della cassa integrazione o dello sgravio, mentre, per il resto, il Decreto Ristori riproduce integralmente le eccezioni al divieto già contemplate dal Decreto Agosto.
Nella conversione del D.L. 104/2020 è anche stata eliminata la revoca del licenziamento, come era stata introdotta dall’articolo 14, comma 4, appena 2 mesi or sono.

Tale revoca consentiva al datore di lavoro che avesse, in barba al divieto, temerariamente licenziato individualmente per gmo ai sensi dell’articolo 3, L. 604/1966, uno o più dipendenti – evidentemente non più di 4, stante il generale divieto di dar corso alle procedure di licenziamento collettivo, fuori dalle eccezioni previste dall’articolo in esame – di poter revocare il licenziamento individuale in ogni tempo (purchè con contestuale richiesta di cassa integrazione COVID), senza alcun onere e sanzione per il datore di lavoro revocante. Evidentemente tale norma è stata ritenuta troppo sbilanciata a favore dei datori di lavoro più spregiudicati, che avrebbero potuto intimare licenziamenti per gmo vietati, confidando magari nella mancata impugnazione del dipendente meno attento o ritardatario, salvo poter revocare il licenziamento “senza oneri né sanzioni” in caso di impugnazione, anche giudiziale, evitando così sia il risarcimento che l’indennità sostitutiva della reintegrazione prevista dallo Statuto dei Lavoratori e dalle tutele crescenti. Come detto, tale possibilità di revoca ha avuto breve vita, meno di 2 mesi, essendo stata cancellata dalla Legge di conversione, rimanendo quindi vigente l’ordinaria possibilità di revoca del licenziamento come prevista dall’articolo 18, comma 10, St. Lav., che prevede tale potere di revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro esclusivamente in una finestra temporale limitatissima, ovvero entro 15 giorni dall’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore: solo in tale caso di ripristino del rapporto di lavoro sono escluse le tutele dello Statuto dei Lavoratori, con il solo riconoscimento della retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca del licenziamento.

Il D.L. Agosto ha, quindi, rimodulato il divieto di licenziamenti collettivi e individuali per gmo – divieto generale stabilito in modo secco a partire dal 17 marzo 2020 e poi prorogato sino al 17 agosto di questo annus horribilis – sancendo complesse eccezioni e termini temporali “variabili” valevoli sino al 31 dicembre 2020. Poco più di 2 mesi dopo, il D.L. Ristori è nuovamente intervenuto nella materia, prorogando, come detto, il divieto di licenziamento al 31 gennaio 2021[1] ed eliminando i termini temporali “variabili” legati a cassa integrazione e sgravi e confermando le eccezioni al divieto di licenziamento del Decreto Agosto. Tra queste eccezioni al divieto di licenziamento spicca il caso di stipula di “accordo collettivo aziendale” che preveda una risoluzione incentivata del rapporto di lavoro a cui possano aderire lavoratori interessati all’uscita dall’azienda.

 

Gli accordi di incentivo all’esodo

Concentriamoci, quindi, su una delle fattispecie che, in base al Decreto Agosto e al Decreto Ristori, permette il licenziamento per motivi economici/organizzativi in deroga all’attuale divieto, ovvero quando si verifichi l’ipotesi di “accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22”.

Fin dalla sua entrata in vigore nel giorno di Ferragosto 2020, la previsione normativa in parola è stata oggetto di vivaci critiche da parte degli interpreti, che ne hanno subito rilevato alcune contraddizioni intrinseche e lo scarso coordinamento con la normativa vigente in tema di esuberi collettivi[2].

La questione ermeneutica più rilevante appare essere quella se la cessazione del rapporto di lavoro regolamentato dalla norma in commento sia un licenziamento oppure una risoluzione consensuale.

Ragioni sistematiche potrebbero indurre a ritenere che si tratti di licenziamento, poiché il comma in questione è posto all’interno dell’articolo 14, D.L. 104/2020, che è intitolato, appunto, “proroga delle disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo” e che contempla casi di cessazione del rapporto di lavoro unicamente per volontà unilaterale datoriale. Tuttavia, considerazioni di chiara lettura della norma fanno propendere per ritenere che la cessazione del rapporto nel caso in questione non possa che essere di natura consensuale: ciò in ragione del fatto che, in base all’articolo 14, il lavoratore deve essere liberamente interessato all’esodo volontario dall’impresa, in ragione, evidentemente, dell’incentivo, frutto della trattativa sindacale, offerto nell’accordo collettivo aziendale. Tale situazione appare evidentemente differente da quella di un lavoratore licenziato a cui venga offerto un incentivo all’esodo in caso di rinuncia all’impugnazione e ancora differente rispetto al caso di una trattativa individuale di risoluzione del rapporto di lavoro con la previsione di un incentivo all’esodo, in cui le parti – datore e dipendente – contrattano direttamente il contenuto dell’accordo, mentre, nel caso della fattispecie prevista dall’articolo 14, ci troviamo di fronte a una sorta di “contratto per adesione”.

Per la natura consensuale della “risoluzione del rapporto di lavoro”, scaturente dagli accordi ex articolo 14, D.L. Agosto, e articolo 12, D.L. Ristori, depone anche il fatto che vi sia l’espressa previsione per il lavoratore esodato della possibilità di accedere al trattamento NASpI[3], possibilità, come noto, esclusa, tranne alcune eccezioni, in caso di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro: la risoluzione consensuale non è, infatti, considerata, per principio, una perdita involontaria del lavoro e, come tale, tradizionalmente è esclusa dal trattamento economico di disoccupazione. Nulla vieta, peraltro, che si possa teoricamente accedere all’accordo in questione anche a seguito di licenziamento (o licenziamenti) intimati dal datore di lavoro: è evidente, in questo caso, la totale sovrapponibilità con la situazione di accordi individuali incentivati per rinuncia all’impugnazione, senonché, in caso di accordo sorto ex articolo 14, D.L. 104/2020, e articolo 12, D.L. 137/2020, il trattamento NASpI sarebbe assicurato, mentre nel caso di usuale accordo individuale successivo al licenziamento (e alla sua impugnazione) ci si può porre in teoria il dubbio circa l’involontarietà della perdita del posto di lavoro, con eventuale riflesso sulla legittima concessione del trattamento NASpI da parte dell’ente previdenziale[4].

Tornando all’esame della norma, si rileva come l’accordo “quadro” debba essere di livello aziendale, ma debba, altresì, essere contrattato, dal datore di lavoro, con le organizzazioni sindacali “comparativamente più rappresentative a livello nazionale”: quindi, quasi con un controsenso, non è previsto che la sottoscrizione possa essere fatta esclusivamente da Rsa o Rsu – anche se nulla esclude che possano sottoscrivere anche tali rappresentanze – ma dalle articolazioni territoriali delle organizzazioni sindacali nazionali, immaginando di individuarle in quelle firmatarie del Ccnl applicato in azienda[5].

La disposizione in questione non disciplina, poi, il contenuto dell’accordo sindacale, salvo prevedere la presenza di un “incentivo alla risoluzione”, che dovrà necessariamente essere previsto all’interno dell’accordo stesso. Si può pensare, quindi, che nell’intesa, oltre all’ammontare dell’incentivo economico – incentivo che potrebbe anche essere differenziato sia a seconda delle condizioni del lavoratore, magari in base all’anzianità aziendale o ai carichi di famiglia, sia sostituito in parte da differenti elargizioni, come ad esempio un servizio di outplacement a carico dell’azienda – e i termini di corresponsione, si debbano comunque opportunamente indicare settori o reparti aziendali oggetto del piano di esubero, i profili professionali eccedentari, il numero massimo di esuberi proposti, i termini temporali per l’adesione, i criteri di priorità di scelta in caso di adesione dei dipendenti all’uscita incentivata in numero maggiore rispetto a quello preventivato.

È chiaro, infatti, come, da un lato, il datore di lavoro debba avere l’accortezza di evitare che l’iter in questione possa concludersi con un incontrollato esodo “di massa” dei dipendenti, privando quindi l’impresa di forza lavoro in misura maggiore a quanto necessario oppure rendendola carente in settori o reparti strategici, laddove non vi sia alcuna necessità di riduzione delle maestranze. D’altro canto, potrebbe anche accadere che, raggiunto l’accordo di incentivazione alla risoluzione con le organizzazioni sindacali territoriali, nessun lavoratore vi aderisca, rendendo, quindi, irrilevante e senza seguito l’accordo stesso: in tale situazione, al datore di lavoro è precluso al momento ricorrere allo strumento del licenziamento individuale o collettivo per ragioni economico e/o organizzative, salvo le eccezioni – ad esempio la cessazione dell’attività aziendale – contemplate dal Decreto Agosto. In tale situazione è evidente che l’accordo collettivo aziendale di cui alla norma in esame sarebbe inutiliter datum, anche se è presumibile che si arriverà a stipule dell’accordo solo avendo un “pacchetto” già definito di lavoratori interessati all’esodo, lavoratori a cui le OO.SS. avranno previamente e cautelativamente sottoposto gli estremi dell’accordo, soprattutto per quanto riguarda l’ammontare dell’incentivo proposto dall’azienda.

Si deve, in ogni caso, ribadire come l’esodo incentivato in parola non sia assolutamente una procedura di licenziamento collettivo – procedura vietata dalle norme emergenziali – ma, viceversa, una modalità di adesione volontaria a una risoluzione (con incentivo) del rapporto di lavoro. Non pare, al riguardo, che vi sia preclusione alcuna per un numero minimo o massimo di adesioni alla risoluzione incentivata, liberamente valutabile dal singolo dipendente in base ai criteri dall’“accordo quadro” stipulato dalle organizzazioni sindacali.

Da tenere sempre presente che la presente norma non ha carattere strutturale, ma è legata all’attuale situazione di divieto di licenziamento “economico” e di blocco delle procedure di licenziamento collettivo, quindi trattasi di una norma che avrà vigenza sino al 31 dicembre 2020, salvo ulteriori proroghe.

 

L’adesione del lavoratore all’accordo

La norma in esame non prevede alcuna forma o modalità particolare per l’adesione del lavoratore agli accordi collettivi ex articolo 14, Decreto Agosto e articolo 12, Decreto Ristori. In teoria, quindi, la semplice e libera adesione in forma scritta del lavoratore all’accordo sarebbe, di per sé, valida e sufficiente; tuttavia, trattandosi di una fattispecie di risoluzione consensuale, tale risoluzione, per il suo perfezionamento, dovrebbe seguire le modalità telematiche previste dall’articolo 26, D.Lgs. 151/2015.

Al riguardo, però, si può prevedere che il datore di lavoro voglia utilizzare i normali principi e cautele applicabili negli accordi di conciliazione delle vertenze, non accontentandosi di una semplice adesione del lavoratore all’accordo. Infatti, trattandosi di una cessazione del rapporto di lavoro, seppur incentivata, l’impresa sarà indotta, per cautela, a richiedere che l’adesione del lavoratore avvenga per mezzo di accordo sottoscritto in sede protetta, nelle forme previste dagli articoli 2113, cod. civ., e 410 e 411, c.p.c., anche al fine di ottenere dal lavoratore una valida rinuncia a eventuali ulteriori pretese in relazione al rapporto di lavoro in cessazione. Non basterebbe, in sostanza, che il lavoratore, all’atto della formale adesione all’accordo collettivo aziendale in questione, rinunciasse ad altre richieste in relazione al rapporto di lavoro in cessazione: ciò, ovviamente, in ragione della possibilità di impugnare le rinunce nel termine di 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, giusto il disposto dell’articolo 2113, comma 3, cod. civ..

Così pare ovvio che sarà necessario, a latere dell’adesione all’accordo collettivo o nell’ambito dell’adesione allo stesso da parte del dipendente, prevedere un accordo in sede protetta, sindacale o amministrativa, al fine di suggellare la definitività dell’accordo ed evitare possibili strascichi in ordine a contestazioni e pretese inerenti al rapporto cessato, accordo che consenta, altresì, di evitare la procedura telematica di conferma della risoluzione.

Si deve, però, ricordare come, mentre la rinuncia o transazione del lavoratore circa crediti di lavoro deve essere sempre espressa in sede protetta ai fini della non impugnabilità e validità, non così l’accordo per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, non rientrando la risoluzione consensuale tra i diritti previsti da norme inderogabili di Legge e, quindi, non essendo soggetta al regime di invalidità di cui all’articolo 2113, cod. civ.; ciò, è ovvio, salvo che il consenso del lavoratore sia viziato da errore, violenza o dolo, essendo in quel caso l’atto del lavoratore sempre annullabile. Nel caso, poi, il datore di lavoro, nel contesto degli accordi ex articolo 14, Decreto Agosto e articolo 12, Decreto Ristori, abbia comunque irrogato un licenziamento – seppur la norma in esame non lo contempli – l’accordo individuale in sede protetta si renderà quanto mai opportuno al fine delle necessarie rinunce del lavoratore all’impugnazione del recesso, richiamando nelle stesse, altresì, le rinunce ad avvalersi del divieto di licenziamento come apprestato dalle normative emergenziali.

[1] Il Governo, per la verità, ha già anticipato ai mass media una probabile ulteriore proroga del divieto al 31 marzo 2021.
[2] Si veda R. Girotto, Il divieto certo pascola nell’incertezza dei suoi confini, in “Strumenti di Lavoro” nn. 8-9/2020, in cui l’autore ha rilevato, in primo luogo, che gli accordi di esodo di matrice sindacale in esame si sostituiscano di fatto, pur nel periodo emergenziale, alle procedure di licenziamento collettivo, procedure rodate da ormai un trentennio. In secondo luogo, si evidenzia come la norma metta in discussione il concetto di rappresentanza sindacale aziendale, poiché gli interlocutori della trattativa sindacale non possono essere le rappresentanze aziendali, bensì quelle comprese in un più generico concetto di organizzazioni sindacali rispettose del principio di comparazione, con l’esclusione, quindi, dell’unica controparte veramente rappresentativa in seno all’azienda. Infine, l’autore evidenzia che, con la necessaria adesione all’accordo collettivo da parte del lavoratore, si ottiene una situazione del tutto sovrapponibile a quella di un recesso frutto di un mero accordo individuale: il caso perseguito dalla norma in commento, ovvero la necessità di doppio accordo collettivo-individuale, sarebbe quella di garantire la NASpI al lavoratore receduto, che, in caso di accordo individuale, verrebbe garantita comunque, ma in virtù di una procedura “spuria”, ovvero quella di un licenziamento di fatto concordato prima che esprima i suoi effetti e finalizzato alla fruizione dell’ammortizzatore
[3] La circolare Inps n. 111/2020 prevede che i lavoratori siano tenuti, in sede di presentazione della domanda di indennità NASpI, ad allegare l’accordo collettivo aziendale e la documentazione attestante l’adesione al predetto accordo da parte del lavoratore interessato, al fine di potere accedere alla prestazione di disoccupazione.
[4] L’Inps ha, però, chiarito, con messaggio n. 2261/2020, che la NASpI spetta sempre anche in caso di licenziamento in violazione dell’attuale divieto, quindi nullo per violazione di norma imperativa, salvo ripetizione a favore dell’Istituto del trattamento di disoccupazione in caso di reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro.
[5] Secondo L. Vannoni, La proroga del divieto di licenziamento nel Decreto Agosto, in “Strumenti di Lavoro” n. 10/2020, poiché la norma si limita a individuare, come controparte sindacale, le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, ciò, oltre a imporre la presenza delle OO.SS. sindacali territoriali, stante l’utilizzo del termine “delle” in luogo di “di”, di tutte e non solo di alcune, rende così la procedura di difficile percorribilità, tenuto conto, poi, delle incertezze nel misurare la rappresentatività.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

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