19 Aprile 2016

La (auspicabile) riforma della contrattazione collettiva: sarà la volta buona?

di Marco Frisoni

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Ancora una volta si torna a discutere, in maniera più o meno accesa, di contrattazione collettiva e, in particolare, di efficacia (soggettiva, ma, perché no, anche oggettiva) ed esigibilità della stessa, nonché, ovviamente, del scivoloso rapporto fra i diversi livelli di negoziazione (in buona sostanza, chi “comanda” in un immaginifico organigramma dei contratti collettivi) in uno con il ruolo che dovrebbe (il condizionale, come si usa dire, è d’obbligo) assumere il contratto aziendale, con il permesso, s’intende, del contratto collettivo nazionale (o interconfederale) di lavoro.

Lo spunto viene dalle notizie che, forse maliziosamente, trapelano dai mezzi di stampa e che rappresentano l’attuale Esecutivo intento ad imboccare con decisione un percorso legislativo finalizzato a garantire regole certe e stabili per legge in materia di contrattazione collettiva, guardando con notevole simpatia al livello aziendale di negoziazione e, quindi, a discapito del ruolo da sempre centrale svolto dal contratto collettivo nazionale.

In effetti, da una lettura a volo d’uccello della bozza ufficiosa del documento di economia e finanza 2016 in discussione, si riscontra l’impegno del Governo a promulgare una riforma di legge tesa a conferire la piena esigibilità (e, quindi, efficacia) alla contrattazione collettiva stipulata in azienda, con possibilità di prevalenza della stessa nei confronti del livello nazionale nelle materie legate all’organizzazione del lavoro e della produzione (non sfugga la portata notevolissima di simili competenze e l’indubbia rilevanza sul piano della gestione dei rapporti di lavoro).

In buona sostanza, il Governo in carica, che, per la verità, non sembra manifestare particolare empatia per le dinamiche sindacali che contraddistinguono il nostro sistema di relazioni industriali, con modalità decisamente ruvide (il Jobs Act, attuato a colpi di decreti a prescindere dalle criticità sollevate dalle parti sociali, serve da monito ed esempio), preso atto dell’incapacità dei soggetti sindacali medesimi di individuare regole reciprocamente vincolanti, è intenzionato a procedere alla definizione di parametri legali di misurazione della rappresentatività sindacale e di efficacia erga omnes della contrattazione collettiva, andando tuttavia ad intaccare un ulteriore caposaldo dell’ordinamento intersindacale, costituito dalla supremazia del contratto nazionale di lavoro (quale strumento di tutela minima inderogabile ed universale sul piano economico e normativo del lavoratore) sui livelli secondari di contrattazione (territoriale e aziendale).

Per la verità, le organizzazioni sindacali dei lavoratori (temendo probabilmente lo spiccato interventismo del Governo), ritrovando, almeno su questa tematica, la perduta unitarietà, il 14 gennaio 2016 rendono pubblico un documento (a firma Cgil, Cisl e Uil) dedicato al sistema di relazioni industriali, per un modello di sviluppo fondato sull’innovazione e qualità del lavoro.

L’elaborato in parola, certamente apprezzabile, pur dimostrando l’antico vizio del mondo sindacale nostrano, costituito da una ridondanza di autoreferenzialità, continua a porre al centro del sistema delle relazioni industriali il contratto collettivo nazionale di lavoro, che dovrà conservare la sua funzione di primaria fonte normativa e di centro regolatore dei rapporti di lavoro, comune per tutti i lavoratori del settore di riferimento, rafforzato nel suo ruolo di governante delle relazioni industriali.

A valle di tutto ciò, viene collocata la contrattazione di secondo livello (aziendale, territoriale, di distretto/sito/filiera) che, sebbene meno ristretta rispetto ai vigenti accordi interconfederali, appare sempre troppo confinata e nel cono d’ombra dispiegato dall’ingombrante prevalenza del contratto nazionale.

Fra gli elementi di novità, si individua una palese disponibilità della associazioni sindacali a una regolamentazione dei co.2 ss., art.39, Carta costituzionale, soprattutto per consolidare l’esigibilità universale dei minimi salariali.

Va da sé che, nell’impianto auspicato da Cgil, Cisl e Uil, la soglia retributiva in analisi discende dalla contrattazione nazionale, ivi per cui, nei fatti, l’attuazione del dettato a suo tempo voluto dall’Assemblea costituente servirebbe a corroborare stabilmente la preminenza della stessa a discapito dei livelli inferiori di negoziazione.

Al contrario, l’obiettivo dichiarato dal Governo si muove su direttive che metterebbero in evidente stato di precarietà una simile impostazione, forse sempre partendo dal completamento della norma costituzionale, ivi per cui è facile immaginare un nuovo terreno di scontro politico e sindacale.