21 Aprile 2020

La mancata contestazione disciplinare diventa insussistenza del fatto

di Evangelista Basile

Con la sentenza n. 4879 del 24 febbraio 2020, la Corte di Cassazione ha stabilito che anche dopo l’entrata in vigore dell’articolo 4, D.Lgs. 23/2015, ove il licenziamento venga intimato senza la previa contestazione disciplinare della mancanza che poi ha condotto al recesso, lo stesso continua ad essere considerato ingiustificato ed è sanzionato con la reintegrazione sul posto di lavoro (oltre al risarcimento del danno col limite di Legge). La tutela reintegratoria, infatti, è prevista dalla Legge nel solo caso di “insussistenza del fatto contestato”, che implicitamente – sostengono i giudici di legittimità – ricomprende anche l’ipotesi di inesistenza della contestazione, laddove diversamente il datore di lavoro potrebbe allegare per la prima volta in giudizio, e dopo aver letto il ricorso del lavoratore, i fatti posti a base del licenziamento, potendo beneficiare, ove tali fatti siano provati e idonei a configurare un valido motivo di licenziamento, di un regime sanzionatorio contenuto.

In particolare, nel caso di specie, la Corte d’Appello di Ancona ha ritenuto il licenziamento intimato al lavoratore illegittimo perché i fatti riportati nella lettera di contestazione non sarebbero stati corrispondenti a quanto poi era dato leggere nella lettera di licenziamento (in questi casi si dovrebbe più propriamente parlare di un vizio procedurale, relativo al c.d. principio di immodificabilità della contestazione disciplinare). Da tale illegittimità è seguita la condanna del datore di lavoro a reintegrare il lavoratore, in applicazione della tutela reale (attenuata nella quantificazione del danno) prevista in caso di totale insussistenza del fatto contestato.

In altri termini, è come dire: se un fatto realmente accaduto il datore di lavoro non lo contesta prima, non esiste … non è mai accaduto (o comunque non lo si può più provare in giudizio a sostegno del licenziamento intimato).

A conclusione dell’ultimo grado di giudizio, la Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento della Corte territoriale e ha rigettato integralmente il ricorso del datore di lavoro, che aveva tentato di censurare l’arresto del collegio di secondo grado.

È bene ricordare, tuttavia, che nel caso in cui il licenziamento risulti giustificato (ossia il lavoratore ha davvero commesso l’inadempimento), ma sia formalmente viziato per violazione dell’obbligo di motivazione di cui al nuovo testo dell’articolo 2, comma 2, L. 604/1966, della procedura disciplinare di cui all’articolo 7, L. 300/1970, o della nuova procedura di preventiva conciliazione di cui all’articolo 7, L. 604/1966, dovrebbe trovare applicazione la sola sanzione indennitaria (sempre sostitutiva del posto di lavoro) ridotta, perché variabile da un minimo di 6 a un massimo di 12 mensilità, tenuto conto della gravità della violazione formale commessa (articolo 18, comma 6). Oppure, nel caso di tutele crescenti, troverebbe applicazione la sola tutela risarcitoria attenuata prevista dal D.Lgs. 23/2015 per il caso – appunto – del licenziamento viziato solo sul piano formale e/o procedurale.

Ciononostante, secondo la Corte di Cassazione, non si può ricondurre a tale disposizione il caso in cui il licenziamento per motivi disciplinari non sia preceduto da una formale contestazione disciplinare, poiché – a dire della Corte – altrimenti argomentando si renderebbe incoerente il funzionamento del meccanismo sanzionatorio dell’articolo 18 (o delle tutele crescenti), che, come rilevabile dalla complessiva disciplina delle tutele, distribuisce reintegrazione e tutela economica sostituiva del posto di lavoro facendo perno sulla valutazione dei fatti posti alla base del licenziamento: precisamente, sulla valutazione “del fatto contestato“.

In verità, nel caso di specie non vi sarebbe una vera inesistenza formale della contestazione, ma semmai una violazione del principio di immutabilità dei fatti contestati, fra l’altro attenuata da un – seppur generico – riferimento ai fatti poi posti alla base del licenziamento già nella contestazione disciplinare.

Ma se così stanno le cose, l’interpretazione della Corte rischia di violare un altro principio dell’ordinamento, ovvero quello che per cui un vizio di forma non può incorrere in una sanzione più grave rispetto a un vizio di sostanza.

A partire dall’entrata in vigore della L. 92/2012 (disciplina poi – nella sostanza – confermata anche dal D.Lgs. 23/2015 sulle tutele crescenti), i vizi formali e procedurali – anche gravi (si pensi alla totale violazione del requisito motivazionale di cui all’articolo 2, comma 2, L. 604/1966) – danno luogo solo a una tutela indennitaria ridotta, rimanendo residuale la tutela reale nell’unica ipotesi in cui sul piano sostanziale emerga “un difetto di giustificazione del licenziamento“. La ragion d’essere è evidente: lasciare la tutela reintegratoria – più grave – ai soli casi in cui il vizio del licenziamento è altrettanto grave, quindi quando, per esempio, si contesta a un dipendente un fatto che non ha commesso. Se, invece, il dipendente è colpevole, ma il datore di lavoro ha violato le procedure, la sanzione non sarà reintegratoria (perché il vincolo fiduciario è ormai venuto meno), ma solo risarcitoria (si indennizza, cioè, il lavoratore dei vizi procedurali o formali commessi dal datore di lavoro nel corso della procedura).

In tale contesto normativo, la pronuncia della Corte di Cassazione apre uno scenario potenzialmente iniquo e contraddittorio, oltre che – a mio avviso – confliggente col testo delle norme di Legge e con la stessa ratio legis. Infatti, solo per rimanere a qualche esempio, un datore di lavoro potrebbe licenziare senza fornire alcuna motivazione e sarebbe poi comunque libero di dimostrare in giudizio ogni fatto costituente un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Per contro, sul piano disciplinare, il datore di lavoro che ometta la previa contestazione (pur poi motivando nella lettera di licenziamento) oppure indichi nella lettera di contestazione un fatto a suo avviso costituente illecito disciplinare, resterebbe prigioniero di tale difetto procedurale, per cui gli sarebbe poi inibita la facoltà non solo di provare l’esistenza di altri fatti potenzialmente idonei a costituire una giusta causa di recesso, ma anche della possibilità di verbalizzarli nella lettera di licenziamento.

 

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