12 Settembre 2017

Le nuove co.co.co.

di Roberto Lucarini

Sappiamo tutti le novità che il D.Lgs. 81/2015 ha portato sul tema della collaborazioni coordinate e continuative. L’abrogazione del progetto, sezionando appositamente la Legge Biagi, sembrava averci riportato indietro nel tempo. La definizione posta dall’articolo 409 c.p.c., peraltro sempre valida in quanto mai abrogata, tornava al centro dell’attenzione: “rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.

Nel quadro, tuttavia, si inseriva l’articolo 2 del Codice dei contratti (il già citato D.Lgs. 81/2015), il quale proponeva un’ulteriore prescrizione, sul tipo contrattuale, introducendo quella che veniva definita come etero-organizzazione: “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

Per concludere, con un salto all’attualità, tramite la L. 81/2017 (Jobs Act del lavoro autonomo), il Legislatore ha provveduto a “ridipingere” la definizione codicistica, includendovi al termine tali parole: “La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”.

Tutto questo ha comportato parecchio fermento; si sono lette tesi di vario genere, più o meno suffragate da una concreta base teorica. In mezzo a un simile temporale, gli operatori sembrano attendere; non capendo bene, fino in fondo, le implicazioni pratiche, la stipula delle co.co.co. sembra essersi arenata.

E in effetti: come dar loro torto?

Da un lato, come visto, la “storica” definizione dell’articolo 409, implementata adesso da un’indicazione specifica relativa all’autonomo coordinamento. Dall’altra la comparsa dello “spettro” dell’etero-organizzazione. Non bastava già quello dell’etero-direzione? Sembra proprio di no …

Ciò che conta, al di là di ogni disputa teorica, sembra essere la sussistenza di un’effettiva autonomia operativa del collaboratore; l’ingerenza del committente, nella attività del soggetto, deve essere minima. Del resto la maggiore criticità è sempre stata questa.

La norma pone dei paletti: occhio ai tempi di lavoro preordinati e anche all’imposizione del luogo di svolgimento dell’opera (requisiti da sussistere in contemporanea). Attenzione inoltre ai caratteri tipici del lavoro subordinato (ad esempio al compenso fisso).

La base di partenza, insomma, resta sempre l’articolo 409 c.p.c.; lì si riscontra la definizione del tipo contrattuale. Continuitività e coordinamento, oltreché opera svolta personalmente (con tolleranza per eventuali collaboratori), sono alla base della co.co.co.. Ma è proprio sul coordinamento, inteso nel senso di organizzazione del lavoro, che si gioca la delicata partita. Il collaboratore non deve subire eccessivi vincoli esterni e tali vicende organizzative dovranno essere esposte chiaramente nel contratto, con l’avvertenza di non limitare eccessivamente l’autonomia del collaboratore stesso, che resta pur sempre autonomo (o parasubordinato, se vi aggrada di più …).

Muoversi in questo universo non è cosa facile; ancora non abbiamo, per ovvi motivi temporali, una produzione giurisprudenziale a supporto. La prassi esistente, di fatto, è poca cosa, non riscontrandosi prese di posizione rilevanti. Per non parlare della dottrina, spesso volta verso dispute teoriche di non facile traduzione pratica.

Chi si trova, quindi, nella situazione di dover redigere un contratto di co.co.co., dovrà porre molta attenzione, oltreché al dato formale, ossia contrattuale, anche alla situazione fattuale sottostante.

La questione non è agevole: auguri!

 

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