17 Maggio 2018

Presunzione o buon senso?

di Elena Valcarenghi

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 4535/2018, ha rigettato il ricorso del titolare di un’impresa individuale di commercio di fiori e piante avverso sentenza della Corte d’Appello di Torino, conforme a quanto già deciso dal Tribunale, che, previo riconoscimento della natura subordinata del rapporto lavorativo con la sorella del ricorrente, lo aveva condannato al pagamento delle differenze retributive maturate a favore della congiunta. La Cassazione conferma i criteri adottati dalla Corte territoriale sulla sussistenza della subordinazione: presenza costante, osservanza di un orario coincidente con l’apertura al pubblico dell’attività commerciale, corresponsione di un compenso a scadenze fisse. Tali modalità, secondo la Cassazione, indicano il programmatico valersi da parte del titolare, ai fini dell’organizzazione della sua attività, dell’apporto della prestazione resa dalla sorella, che, peraltro, percepiva somme con cadenze fisse, tanto da essere più simili a un corrispettivo della prestazione che non a un supporto per contingenti e variabili esigenze di vita.

Ciò su cui pare più interessante riflettere è, però, il rapporto di parentela che lega gli attori della vicenda. La Corte non riconduce alla relazione tra i 2 soggetti alcuna preclusione rispetto alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ma chi pratica la materia ben sa che l’Inps, nella circolare n. 179/1989, non ha espresso una posizione così pacifica, orientando il proprio agire secondo criteri che hanno determinato la necessità non infrequente di doversi opporre con alterne fortune a provvedimenti che disconoscono la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in virtù dei legami familiari. In particolare:

  • nei casi di imprese individuali o studi professionali e di soggetti conviventi del datore di lavoro, il rapporto è presunto gratuito e, quindi, escluso dall’obbligo assicurativo, senza necessità di accertamenti da parte dell’Istituto, se le parti non forniscono prove “rigorose” dell’onerosità del rapporto stesso e della sua natura subordinata; qualora non sussista convivenza né comunione di interessi, il rapporto si presume oneroso e quindi, soggetto all’obbligo assicurativo, salva la facoltà dell’Istituto di procedere ad accertamenti;
  • nei casi di convivenza tra il lavoratore e uno dei soci di società di fatto o di persone, l’elemento della subordinazione non può essere escluso nei confronti degli altri soci, pertanto bisogna conoscere l’apporto di capitali dei vari soci per stabilire se quello legato al lavoratore da vincoli familiari sia di maggioranza o amministratore unico della società, perché in quel caso il rapporto di lavoro può ritenersi prestato a titolo gratuito e, quindi, non assicurabile;
  • per i familiari assicurati come dipendenti da aziende soggette all’obbligo assicurativo nelle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, occorre verificare caso per caso, non potendosi escludere l’esistenza delle condizioni per la convalida di un rapporto di lavoro subordinato (utili elementi di valutazione possono essere, ad esempio, l’iscrizione di familiare in concomitanza con periodi di astensione obbligatoria per maternità; il rapporto tra contribuzione versata e conguagli passivi per l’Istituto, etc.);
  • nelle società di capitali, in via generale, il rapporto di lavoro può essere convalidato in quanto intercorrente con le società e non con i singoli soci, ma occorre verificare caso per caso se sussistano le condizioni di subordinazione (ad esempio se vi siano 2 soli soci, entrambi parenti conviventi, o se il parente convivente del lavoratore sia titolare di tutti i poteri sociali o abbia la maggioranza delle azioni e delle quote sociali, il rapporto non è convalidabile).

L’Inps, insomma, ha una sorta di sospetto di fregatura nei confronti di tali tipologie di rapporti di lavoro, che immagina tesi a offrire indebite prestazioni in assenza di effettiva prestazione e ha costruito la propria posizione, partendo proprio da pronunce della Suprema Corte, non tanto sulla ricerca degli indici di subordinazione, ma sulla presunzione di gratuità “affettiva” del lavoro, quasi dimenticandosi che il principio in materia di rapporto di lavoro è quello dell’onerosità, applicando presunzioni che, per quanto non assolute, talvolta paiono anacronistiche in un mutato contesto sociale. Per amor di verità, è bene ammettere che qualche furbetto ha in effetti simulato strategicamente rapporti di lavoro con familiari, con ciò peraltro obbligandosi a versare i dovuti contributi.

Perché deve essermi impedito di far lavorare un familiare? Come spiego al mio cliente fiorista, sopravvissuto alla globalizzazione e alla crisi, che ha un figlio disoccupato e perciò convivente, non il mammone da barzelletta, che è meglio che assuma uno sconosciuto o che lo inquadri diversamente perché l’Inps potrebbe disconoscere il rapporto di lavoro?

Di solito fornisco copia della circolare, ma credo che aggiungerò in futuro anche copia dell’ordinanza, ricordando di essere sul luogo di lavoro un titolare giusto ma inflessibile e non un padre, così che il figlio, all’Inps piacendo, possa un giorno essere indipendente grazie al suo lavoro.

 

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