10 Gennaio 2018

Procedimento disciplinare e difesa del lavoratore

di Edoardo Frigerio

Il tema della procedura disciplinare ex articolo 7, L. 300/1970, continua ad essere foriero di controversie che attengono alla corretta interpretazione dei passaggi procedurali a cui datore di lavoro e dipendente devono conformarsi al fine del rispetto della norma. In particolare, il problema della sussistenza del diritto del lavoratore a ottenere l’eventuale documentazione attinente agli addebiti contestati è stata oggetto di recente pronuncia della Cassazione. Nell’occasione, si fa luce anche su altri aspetti del procedimento, soffermandosi sul confronto tra obblighi del datore e diritti del lavoratore.

 

L’articolo 7, St. Lav., e la messa a disposizione di documenti nell’ambito della procedura disciplinare

Nonostante lo Statuto dei Lavoratori sia in vigore da quasi un cinquantennio, ancora oggi giungono all’attenzione dei giudici del lavoro questioni attinenti alla correttezza del procedimento disciplinare, come regolato dall’articolo 7, L. 300/1970, che il datore di lavoro deve seguire al fine di poter irrogare al dipendente – resosi colpevole di mancanze – sanzioni disciplinari che possono arrivare, nei casi più gravi, al licenziamento. Tale procedimento, che culmina nella possibilità da parte del lavoratore di rendere le proprie difese, giustificandosi sia per iscritto che oralmente, presenta numerosi aspetti problematici, che non devono essere trascurati dal datore di lavoro.

Al riguardo, una recentissima sentenza della Cassazione, la n. 23408/2017, ha esaminato la procedura delineata dallo Statuto dei Lavoratori, anche nell’ottica di chiarire alcuni aspetti delle modalità di difesa del lavoratore “accusato” di mancanze. In particolare tale sentenza ha affrontato la problematica, che spesso emerge nel corso della procedura di contestazione di addebito, circa il diritto del lavoratore a ottenere a fini difensivi dal datore di lavoro la documentazione su cui si fondano gli addebiti, nel caso ovviamente il dipendente non ne sia in possesso.

La vicenda approdata ai giudici di piazza Cavour traeva origine da una sentenza della Corte d’Appello di Milano, che, confermando la sentenza del giudice di prime cure, aveva respinto l’impugnazione di un lavoratore che, accusato di attività di concorrenza sleale nei confronti del datore di lavoro, era stato licenziato all’esito del conseguente procedimento disciplinare. I giudici d’Appello, in primo luogo, avevano ritenuta corretta la procedura adottata dalla società e contestata dal lavoratore perché la lettera d’addebito – in ossequio al principio di specificità che deve rivestire la lettera di contestazione – conteneva una descrizione delle condotte imputate al lavoratore idonea alla comprensione dei fatti da parte del destinatario e all’esercizio del diritto di difesa. Il testo della missiva, infatti, descriveva in modo specifico e sufficientemente dettagliato le violazioni ascritte al lavoratore, poiché le relative condotte di concorrenza in violazione dell’articolo 2105 cod. civ. risultavano menzionate con indicazione del contenuto, dei prodotti che ne costituivano l’oggetto, nonché delle generalità dei soggetti coinvolti, consentendo quindi al lavoratore l’adeguata individuazione dei fatti in contestazione. In secondo luogo, secondo la Corte d’Appello di Milano, non poteva attribuirsi alcuna rilevanza alla mancata esibizione (da parte della società datrice di lavoro) della documentazione – in particolare dei messaggi di posta elettronica – sulla base dei quali i comportamenti in questione erano stati dalla stessa accertati: infatti, secondo i giudici di secondo grado, l’onere di specifica contestazione di addebiti, se da un lato imponeva al datore di lavoro di disporre in modo dettagliato e comprensibile i fatti oggetto di procedimento disciplinare, d’altro canto non obbligava all’esibizione, nel corso dello stesso, degli elementi di prova in base ai quali essi erano pervenuti a sua conoscenza. Nel merito, poi, il licenziamento appariva del tutto fondato, poiché dalle risultanze istruttorie era emerso in modo chiaro e univoco come il lavoratore avesse esercitato un’attività avente ad oggetto la commercializzazione parallela di prodotti analoghi a quelli del datore di lavoro e a prezzi inferiori, addirittura mediante la stessa rete di agenti che egli coordinava quale dipendente della società.

Non pago degli esiti negativi dei primi 2 gradi di giudizio, il lavoratore si è quindi rivolto alla Suprema Corte, evidenziando che la parte datoriale aveva prodotto soltanto in sede di costituzione in giudizio tutte le e-mail sulle quali si fondava la contestata concorrenza sleale, omettendo quindi di metterle a disposizione in sede di audizione prima del licenziamento. Quindi, secondo il lavoratore ricorrente, vi era stata lesione dei suoi diritti, poiché, in base all’articolo 7, L. 300/1970, il procedimento disciplinare doveva consentire, a suo dire, di venire a conoscenza degli addebiti, di visionare tutti i documenti comprovanti le sue responsabilità e di poter dunque argomentare compiutamente a sua difesa, non potendo pertanto essere riservata solo al giudizio la produzione documentale a sostegno delle ragioni di parte datoriale, ma dovendo il dipendente essere edotto di tutti i documenti a suo carico, specialmente prima dell’audizione difensiva.

Investita della controversia, la Cassazione, con la citata sentenza n. 23408/2017, respingeva il ricorso del lavoratore, precisando che l’articolo 7, St. Lav., “non prevede, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all’esito del procedimento suddetto, l’ordine di esibizione della documentazione stessa” con la precisazione che, sebbene la norma “non preveda un obbligo per il datore di lavoro di mettere spontaneamente a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione, la documentazione su cui essa si basa, egli è però tenuto, in base ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, ad offrire in consultazione i documenti aziendali all’incolpato che ne faccia richiesta, laddove l’esame degli stessi sia necessario per predisporre un’adeguata difesa”.

Nel caso in esame non era viceversa risultato che l’incolpato avesse specificamente e tempestivamente fatto espressa richiesta della documentazione in parola nel corso del procedimento disciplinare e, inoltre, era emerso che nel corso dell’audizione personale, richiesta dal lavoratore, questi era stato reso ampiamente edotto anche delle fonti di accusa a suo carico, potendo quindi lo stesso fornire le proprie giustificazioni in merito con ampia cognizione di causa.

La predetta recente pronunzia della Cassazione si pone nel solco di altri recenti arresti degli Ermellini: nel 2016 si è precisato che la garanzia di difesa, resa possibile dalla conoscenza del contenuto dell’infrazione presente nella contestazione disciplinare, rende superflua la materiale esibizione dei documenti connessi all’infrazione, tanto più che vi è la possibilità del lavoratore di far valere ogni profilo di illegittimità formale o sostanziale delle risultanze documentali in sede giudiziaria. Pochi mesi or sono, la Suprema Corte ha poi ribadito che l’articolo 7, St. Lav., non prevede, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all’esito del procedimento suddetto, l’ordine di esibizione della documentazione stessa; la Corte ha precisato che il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, a offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte un’adeguata difesa. Ciò con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l’onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine.

Quindi: consegna sì oppure consegna no, al lavoratore che ne faccia richiesta, dei documenti aziendali in sede di procedimento disciplinare?

La risposta prudenziale non può che essere positiva, anche in considerazione delle posizioni della giurisprudenza, sopra esaminate, che non paiono peraltro brillare per univocità.

Ciò anche in considerazione del noto dovere di correttezza e buona fede che deve improntare ogni relazione contrattuale, a maggior ragione quella lavorativa. Pertanto si può affermare che la consegna dei documenti “incriminanti”, qualora funzionale alla difesa del lavoratore, sia opportuna da parte del datore di lavoro al fine di non incappare in violazioni del procedimento disciplinare. Del resto, assumendo il procedimento – con la messa a disposizione della documentazione – le vesti di una sorta di “mini-trial” – seppur con il limite che trattasi comunque di un procedimento infraziendale, senza garanzie di terzietà – il datore di lavoro può così già verificare la consistenza dei supporti documentali in suo possesso e saggiare così lo spessore degli addebiti mossi al lavoratore. Dal punto di vista del lavoratore, la richiesta di messa a disposizione di documentazione dovrà essere quanto più precisa e attinente agli addebiti mossi dal datore di lavoro, al fine di non essere tacciata di strumentalità.

Si può comunque affermare che la mancata consegna della documentazione richiesta da parte del datore di lavoro, qualora tali documenti non siano assolutamente imprescindibili per poter rendere compiute difese, si possa comunque risolvere in un “peccato veniale”, potendo l’omissione essere successivamente sanata dalla produzione documentale in occasione dell’eventuale impugnazione giudiziale del licenziamento.

 

L’omissione dell’audizione a difesa del lavoratore

Diverso, e con effetti potenzialmente “letali” per il datore di lavoro, è il caso – che può verificarsi sempre all’interno del procedimento disciplinare ex articolo 7, St. Lav. – di omissione dell’audizione a difesa del lavoratore incolpato, nel caso in cui il dipendente abbia fatto richiesta di essere sentito a difesa, ma abbia comunque già reso giustificazioni scritte.

Può accadere infatti che il lavoratore renda, nel termine a difesa di 5 giorni (o nel più ampio termine talvolta previsto dal Ccnl applicato al rapporto di lavoro), compiute difese scritte, ma chieda comunque di essere sentito a difesa. In tale situazione il datore di lavoro potrebbe essere tentato di non concedere l’audizione, ritenendo che il lavoratore abbia “consumato” il proprio diritto alla difesa a mezzo delle giustificazioni scritte già rese e temendo che la richiesta di audizione possa avere effetti dilatori e magari essere procrastinata da strumentali richieste di rinvio dell’audizione da parte del lavoratore (perché, per ipotesi, ammalato o impossibilitato).

Recente giurisprudenza ha affrontato il caso, partendo ovviamente dall’esame dell’articolo 7, comma 2, L. 300/1970, nella parte che stabilisce come il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del dipendente “senza averlo sentito a difesa”. In particolare recentemente è stato affrontato un caso peculiare, ma non del tutto infrequente nella pratica: una società, previa contestazione disciplinare, aveva licenziato un dipendente a seguito del suo arresto per l’accusa di spaccio di stupefacenti; il recluso, nel corso del procedimento disciplinare, aveva comunque fatto pervenire una lettera di giustificazioni in cui, senza contestare i comportamenti ascritti, aveva inteso esclusivamente sminuirne la rilevanza, sul presupposto della loro estraneità al rapporto di lavoro. In tale lettera, l’accusato aveva richiesto di essere sentito oralmente a difesa, allorquando fosse cessato il suo stato di detenzione, ma tale richiesta non era stata presa in considerazione dal datore di lavoro. Nel conseguente contenzioso giudiziario sia il giudice di primo grado che quello d’Appello confermavano la legittimità del licenziamento per la gravità del reato commesso dal lavoratore e, sulla richiesta di audizione da parte del lavoratore emersa durante il procedimento disciplinare, ritenevano che detta richiesta avesse una finalità meramente dilatoria, con la conseguenza che non poteva dirsi violato l’obbligo stabilito dallo Statuto dei Lavoratori.

Con un dipendente carcerato e reo confesso sembrerebbe effettivamente che la sua richiesta di essere sentito a difesa (addirittura alla fine della detenzione) possa serenamente essere ignorata dal datore di lavoro, a cui non potrebbe certo essere rimproverato il rifiuto di rinviare sine die, a una data futura e incerta, la conclusione del procedimento disciplinare. E invece, colpo di scena, le cose non stanno così.

Piuttosto sorprendentemente, infatti, la Cassazione ribaltava gli esiti dei primi 2 gradi di giudizio, stabilendo che le giustificazioni scritte del lavoratore non avevano esaurito il suo diritto di difesa, avendo egli comunque chiesto espressamente di essere sentito oralmente.

In particolare la Cassazione precisava che:

  • questa specifica garanzia – la previa audizione a difesa stabilita dallo Statuto dei Lavoratori – opera non già indistintamente, ma solo se il lavoratore abbia espressamente chiesto di essere sentito;
  • una volta che tale richiesta sia stata formulata in modo univoco dal lavoratore, la sua previa audizione costituisce in ogni caso indefettibile presupposto procedurale anche nell’ipotesi in cui il lavoratore, contestualmente alla richiesta di audizione a difesa, abbia comunicato al datore di lavoro giustificazioni scritte;
  • le giustificazioni scritte, per il solo fatto che si accompagnino alla richiesta di audizione, sono evidentemente ritenute dal lavoratore stesso non esaustive e destinate a integrarsi con le giustificazioni che il lavoratore stesso eventualmente aggiunga o precisi in sede di audizione.

Pertanto la richiesta di audizione non può essere sindacabile dal datore di lavoro in ordine alla sua effettiva idoneità difensiva, per essere tale esito (garantito dall’articolo 7, comma 2, St. Lav.) non solo conforme alla chiara lettera della norma, ma, ancor prima, funzionale a consentire la piena rispondenza del giudizio disciplinare al principio del contraddittorio fra le parti, e, quindi, alla piena realizzazione del diritto di difesa dell’incolpato, non potendosi certo, secondo la Cassazione, dare “ingresso ad una valutazione di compatibilità della facoltà di audizione esercitata dal lavoratore incolpato alla luce delle difese già svolte e della sua idoneità ad utilmente integrare quest’ultime”.

In tale caso è stato quindi ritenuto dai giudici di legittimità che il datore di lavoro avrebbe potuto senza particolari problemi attendere la fine della detenzione, non considerandosi, quindi, la richiesta del lavoratore di audizione alla fine della carcerazione meramente dilatoria. Ciò anche in considerazione del fatto che, a seguito dell’entrata in vigore della L. 92/2012, l’articolo 1, comma 41, ha stabilito come il licenziamento intimato all’esito del procedimento disciplinare di cui all’articolo 7, L. 300/1970, produca effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato (salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva), considerandosi il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura come preavviso lavorato. Inoltre, nel caso di specie, poiché sussisteva una detenzione che non rendeva possibile la prestazione lavorativa per la sua durata, era comunque applicabile il principio per il quale (fuori dei casi, previsti dalla legge, in cui è accordata al lavoratore una particolare tutela) non è dovuta retribuzione al lavoratore nell’ipotesi di sopravvenuta impossibilità, per factum principis o per altra ragione, di svolgimento delle mansioni a lui assegnate, sicchè a fronte della prestazione lavorativa venuta a mancare non era dovuta la corrispondente retribuzione. Procedura disciplinare ex articolo 7, dunque, invalida.

L’equazione “mancata audizione uguale procedura disciplinare viziata” è stata confermata dall’ancor più recente pronuncia della Cassazione n. 11895/2017, che ha ribadito come il datore di lavoro, il quale intenda adottare una sanzione disciplinare, non possa omettere l’audizione del lavoratore incolpato – ove quest’ultimo ne abbia fatto richiesta espressa contestualmente alla comunicazione di giustificazioni scritte – nel termine di cui all’articolo 7, comma 5, St. Lav., anche se queste siano ampie e potenzialmente esaustive.

Per quanto riguarda l’audizione in sé stessa, non vi sono regole particolari che stabiliscano le modalità della sua effettuazione. È bene, infatti, ricordare nuovamente che trattasi comunque di un procedimento “infraziendale”, non una procedura con caratteristiche di terzietà, in cui le garanzie apprestate a favore del lavoratore sono solamente quelle stabilite dalla legge e dal contratto.

Pertanto, normalmente, a seguito della richiesta del lavoratore di essere sentito a difesa, il datore di lavoro è tenuto a convocare – opportunamente per iscritto – il dipendente in una certa data e orario; il luogo può essere indifferentemente la sede aziendale, lo studio di un consulente o la sede di un’associazione datoriale o altro luogo scelto dal datore di lavoro e dell’intervenuta audizione è opportuno che venga formato verbale scritto.

Il lavoratore, in base all’articolo 7, comma 3, può facoltativamente farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. È esclusa, invece, la necessità della c.d. “assistenza tecnica” da parte di avvocati o consulenti del lavoro o altri professionisti di fiducia, nel senso che il lavoratore non può esigerne la presenza in sede di audizione: nulla impedisce però che il datore di lavoro acconsenta la presenza del professionista, che potrà anche essere opportuna nel caso che, a latere dell’audizione, si vogliano già coltivare delle trattative volte a una soluzione amichevole della vicenda. Attenzione, però, al fatto che, come sottolineato dalla Cassazione, la disposizione dell’articolo 7, St. Lav., circa la richiesta di audizione difensiva, comporta che la circostanza che tale volontà sia dal lavoratore accompagnata dalla richiesta di una garanzia difensiva non consentita (nella specie: assistenza di un legale), non esclude l’obbligo del datore di sentirlo nei limiti e con le garanzie difensive offerte dalla norma di legge, atteso che detto articolo 7 subordina in maniera rigorosa l’irrogazione della sanzione all’audizione, ove richiesta.

Può capitare che il lavoratore chieda che l’audizione venga rinviata poiché caduto in malattia. È opportuno, al riguardo, che il datore di lavoro valuti se effettivamente al lavoratore è preclusa l’audizione, poiché realmente impossibilitato; se, viceversa, la richiesta di rinvio pare meramente dilatoria, la Cassazione n. 5314/2017 sul punto ha recentemente chiarito che: “ai sensi dell’art. 7 l. n. 300 del 1970 il lavoratore ha diritto, qualora ne abbia fatto richiesta, a essere sentito oralmente dal datore di lavoro; tuttavia, ove il datore di lavoro, a seguito di detta richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto a un differimento dell’incontro limitandosi ad addurre un’impossibilità di presenziare, poiché l’obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda a un’effettiva esigenza difensiva non altrimenti tutelabile (nella specie, il lavoratore aveva chiesto il rinvio dell’audizione solo due giorni prima della data fissata; inoltre, era in stato di malattia non transitorio e, da ultimo, il datore di lavoro aveva messo a sua disposizione tutto l’incartamento relativo agli accertamenti effettuati nel corso del procedimento disciplinare)”.

 

Il termine per comminare la sanzione disciplinare

Come noto, l’articolo 7, comma 5, L. 300/1970, prevede che i provvedimenti disciplinari (più gravi del rimprovero erbale) non possono essere applicati prima che siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione. Tale previsione normativa ha dato luogo, negli anni, a rilevanti contrasti giurisprudenziali, controvertendosi sul fatto se la sanzione disciplinare potesse essere comminata o meno – una volta rese le giustificazioni dal lavoratore – prima dello scadere dei 5 giorni dalla contestazione scritta. Sul punto le SS.UU. della Cassazione[7] sono giunte a sanare il contrasto prevedendo come fosse

“legittima la sanzione disciplinare irrogata prima della scadenza del termine di cinque giorni previsto dall’art. 7, comma 5, l. n. 300 del 1970, qualora il lavoratore abbia pienamente esercitato il proprio diritto di difesa, senza manifestare alcuna riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive”.

Tuttavia, più recentemente, la Sezione Lavoro della Cassazione ha evidenziato come l’articolo 7, comma 5, stabilisca che, “in ogni caso“, il datore non possa adottare il provvedimento se non siano trascorsi 5 giorni dalla contestazione, lasciando intendere, in tal modo e in maniera chiara, che il datore di lavoro non ancora possa infliggere sanzioni disciplinari qualora le difese del lavoratore siano state rese in un termine più breve dei 5 giorni, trattandosi quindi di uno spatium deliberandi tassativo e inderogabile, dettato a favore dell’incolpato e destinato a realizzare una ponderata riflessione del datore.

Dal punto di vista pratico, la soluzione più semplice per il datore di lavoro pare essere quindi quella di attendere comunque i canonici 5 giorni per l’irrogazione della sanzione, anche qualora il lavoratore si sia giustificato per iscritto o sia già intervenuta l’audizione a difesa, con ciò evitando problemi circa la sussistenza o meno del predetto spatium deliberandi dei 5 giorni. Qualora poi il lavoratore non si sia difeso nel termine prescritto, chiaramente il datore di lavoro potrà procedere con l’irrogazione della sanzione: con l’avvertenza però che, ancorché il termine di 5 giorni dalla ricezione della contestazione disciplinare – fissato dal datore di lavoro sulla base dell’articolo 7, L. 300/1970, e entro il quale il lavoratore deve manifestare la volontà di essere sentito a sua discolpa – non sia stato rispettato dal lavoratore, tuttavia la sanzione disciplinare è illegittima se, prima della sua inflizione, il datore di lavoro abbia ricevuto la manifestazione di volontà del lavoratore di essere sentito a difesa e l’abbia ignorata.

Da tali arresti giurisprudenziali emerge chiaramente come la prudente condotta del datore di lavoro, nell’ambito dei procedimenti disciplinari, non debba essere improntata a un’eccessiva precipitazione nell’irrogazione dell’eventuale sanzione disciplinare rispetto ai termini approntati dalla legge o dalla contrattazione collettiva. D’altra parte, però, il datore deve anche tenere presente che diversi Ccnl adottano anche dei termini di decadenza entro i quali la sanzione disciplinare deve essere adottata. Ad esempio, il Ccnl Commercio prevede che l’eventuale adozione del provvedimento disciplinare deve essere comunicata al lavoratore entro 15 giorni (estensibili a 30 giorni nel caso di situazioni complesse) dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore stesso per presentare le sue controdeduzioni; il Ccnl Metalmeccanica industria, prevede invece che se il provvedimento disciplinare non viene comminato entro i 6 giorni successivi alle giustificazioni (o al termine per renderle), queste si ritengono accolte.

È chiaro, dalla disamina dei casi giurisprudenziali esaminati, come il datore di lavoro debba correttamente cadenzare i passaggi della procedura disciplinare ex articolo 7, L. 300/1970, e il lavoratore abbia il diritto di poter rendere le proprie difese, siano esse scritte o orali, al fine di ottenere l’“assoluzione” rispetto agli addebiti a lui mossi; il tutto sempre nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede che devono improntare ogni rapporto contrattuale.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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