5 Marzo 2020

Quel che resta del trattamento di fine rapporto

di Riccardo Girotto

All’inizio dell’anno 2007 per il Tfr si è verificata una rivoluzione epocale. Questo titolo, già di per sé unico nel suo genere, ha visto mutare la propria natura, che alla mera funzione compensatrice ha visto aggiungersi funzioni di welfare, di investimento e anche di pura assistenza previdenziale.

Contemporaneamente alla spinta legislativa, poco convinta nel lungo periodo, verso la valorizzazione della previdenza complementare, è nato il Fondo tesoreria, un ibrido dall’aspetto insicuro che coinvolgeva aziende con specifico requisito occupazionale, raggiungibile solamente a una specifica data.

L’effetto di questo dato temporale tuonava come sentenza inappellabile, dentro o fuori. Ogni azienda doveva contare sic et simpliciter i propri dipendenti e l’entrata nel sistema tesoreria sarebbe stata per sempre.

Per sempre sarebbe dovuta essere anche la scelta verso la previdenza complementare. L’impianto legislativo, infatti, non permetteva la revoca rispetto all’opzione operata da ogni lavoratore, così da avvalorare con maggiore pregnanza l’effetto di una costruzione previdenziale aggiuntiva, che, a contrario, in caso di conferimento “tratteggiato”, non avrebbe permesso di realizzare il diritto a una rendita apprezzabile.

Ma a fronte di questi effetti eterogenei tendenti a mutare le logiche di accantonamento, l’impatto nei confronti dell’azienda si è dimostrato da subito dirompente. L’azienda coinvolta dal requisito occupazionale, o semplicemente sollecitata dalla scelta del dipendente, non aveva più la possibilità di accantonare un mero dato contabile, bensì doveva attingere alla cassa per versare effettivamente quanto maturato ogni mese. Questo passaggio non è risultato affatto indolore, letto in combinato con una crisi folle, che da lì a poco avrebbe asfaltato gran parte dell’economia del nostro Paese.

Il vero tema da trattare è stato, quindi, la fase patologica creata da queste innovazioni, non tanto l’effetto del versamento ai Fondi, piuttosto il rischio del mancato versamento agli stessi, stanti le difficoltà emerse proprio a causa delle novelle sul Tfr.

In realtà, già la L. 296/2006 qualificava il Tfr a tesoreria come un obbligo naturalmente previdenziale, segnando fin da subito le caratteristiche che ne avrebbero contraddistinto il percorso naturale: recupero coattivo di quanto non incassato, automaticità delle prestazioni. Il problema è che ogni contributo non è uguale di fronte alla Legge, e il recupero, pur coattivo, sconta precise priorità ben riassunte dall’articolo 2778, cod. civ.. In questo caso la natura del Tfr muta solamente nella relazione tra azienda e Fondo, mentre resta l’origine retributiva del rapporto tra aziende e dipendente. Così, per complicare le cose.

Dal canto suo la commistione pubblico/privato che qualifica i conferimenti al Fondo di previdenza complementare non può certamente affidare agli stessi valore meramente previdenziale (per lo meno non di previdenza obbligatoria, trattandosi di libera scelta), ma trattandosi di opzione irrevocabile, muta ancora una volta il titolo e lo fa in via definitiva. Il lavoratore aderente non avrà più diritto a un Tfr, bensì a una rendita. La storia, francamente, ha alleggerito queste posizioni tramite le possibilità di riscatto e il leggero monitoraggio della fase patologica. Il recupero verso l’azienda morosa dovrà avvenire solo a favore del Fondo, il lavoratore che ha rinunciato al Tfr l’avrà fatto per sempre, si aspetti quindi solo una rendita, nella speranza che l’azione civilistica di recupero attuata dal Fondo possa andare a buon fine.

Su questi temi, triti, ritriti, ma ancora incerti nella loro completa regolazione, si incardinano 2 note di prassi molto recenti che, in parte, confermano il taglio estremamente sui generis che qualifica il Tfr destinato fuori dall’area aziendale, in parte lasciano aperti spunti per disquisizioni machiavelliche.

In prima battuta l’Inps, con messaggio n. 413/2020, commentata prontamente e con condivisibile senso critico dalla Fondazione studi consulenti del lavoro tramite approfondimento del 14 febbraio 2020, ribadendo la qualificazione previdenziale del Tfr al tesoreria pone un tema delicato di interconnessione con l’opzione di versamento alla previdenza complementare. Il versamento al Fondo privato, aperto o chiuso che sia, deve concentrarsi sulle quote in maturazione, per quanto riguarda la quota accantonata pregressa, invece, potrà conferirla solo qualora l’azienda non rientri nel campo di applicazione del tesoreria, in quanto in quest’ultimo caso deve considerarsi la natura previdenziale del titolo.

Pare, quindi, regni una gran confusione nella prassi dell’Istituto, che dimentica, volutamente, che la relazione previdenziale vige tra azienda e Fondo e non tra azienda e lavoratore. Quest’ultimo potrà, infatti, disporre del proprio Tfr a piacimento, anche conferendone parte pregressa alla previdenza complementare. Questo grave pregiudizio creato dall’Inps tende a solcare un importante squilibrio previdenziale tra lavoratori che, loro malgrado, risultano assunti presso aziende in tesoreria rispetto a quelli che risultano assunti presso aziende escluse dal Fondo.

Sempre in tema di previdenza complementare si esprime l’lNL in replica all’ITL di Milano Lodi con nota n. 1436/2020, ribadendo che la scelta irrevocabile di rinunciare a un titolo retributivo in maturazione per conferire a una forma pensionistica privata, attiva una relazione debitoria tra Fondo e datore di lavoro, alla quale risulta estraneo il lavoratore. La sottile, ma non indolore, conseguenza di questa relazione è che il datore di lavoro gode delle misure compensative che lo esonerano, non detenendo più la quota Tfr in maturazione dal versamento del contributo al Fondo di garanzia, ex articolo 2, L. 297/1982.

Proprio quest’ultimo vantaggio deve considerarsi annullato nel caso di mancato conferimento al Fondo da parte dell’azienda morosa, tanto da generare un vero e proprio debito previdenziale. Non versi al Fondo, non puoi ritenerti favorito dalle misure compensative: deduzione molto semplice.

Senza voler approfondire troppo il mio personalissimo parere sulle posizioni espresse dagli enti, che comunque tende a sostenere la tesi dell’INL, ma contemporaneamente a condannare quella dell’Istituto, devono evidenziarsi le pericolose conseguenze che queste generano. Il recupero del Tfr accantonato alla tesoreria, ma dovrebbe in realtà considerarsi Tfr versato, per conferirlo alla previdenza complementare, così come l’insistenza sulle misure esonerative in caso di omesso o tardivo versamento al Fondo di previdenza complementare, provocheranno una vera e propria irregolarità contributiva.

Si prepari, quindi, il datore di lavoro a salutare tutte le agevolazioni fruite, che verranno recuperate in entrambe i casi descritti senza remore, e, trattandosi di violazioni previdenziali, senza limiti, con buona pace delle sparute sentenze calmieratrici. Ad majora.

 

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