21 Giugno 2016

Riesumato l’art.18 Statuto dei Lavoratori per i dipendenti pubblici

di Evangelista Basile

 

Tra pubblico impiego e art.18 dello Statuto dei lavoratori è storia infinita. Una storia che in questi giorni si è arricchita di un nuovo capitolo, che sancisce ancora una volta il legame inscindibile e quasi viscerale che esiste tra il dipendente pubblico e la tutela della reintegra nel posto di lavoro.

Infatti, nell’autunno scorso ci eravamo lasciati con una certezza e un dubbio. A seguito della sentenza della Corte di Cassazione n.24157 del 26 novembre 2015 era stato affermato che il nuovo art.18 St.Lav. – nella formulazione novellata dalla L. n.92/12 (riforma Fornero) – era applicabile anche ai dipendenti pubblici. Questa era la (apparente) certezza. Il dubbio riguardava invece l’applicabilità delle tutele crescenti ai dipendenti pubblici, ossia delle nuove norme sulla tutela dei licenziamenti illegittimi di cui al D.Lgs. n.23/15, perché tale argomento non veniva affrontato dalla pronuncia della Suprema Corte.

Inaspettatamente, il 9 giugno scorso, con la sentenza n.11868/16 la Corte di Cassazione ha compiuto un clamoroso revirement sul tema in esame, affermando il contrario di quanto statuito pochi mesi prima. Infatti, la Suprema Corte – dando correttamente atto del suo stesso precedente giurisprudenziale – ha deciso di disattenderlo, affermando che ai rapporti di pubblico impiego privatizzato non si applicano le modifiche apportate dalla L. n.92/12 all’art.18 St.Lav., per cui in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della predetta riforma la tutela resta quella dell’art.18 nella vecchia formulazione. Il che significa, in soldoni, che a prescindere dal vizio – lieve o grave – del licenziamento, l’eventuale annullabilità, nullità o inefficacia dello stesso comporta sempre e comunque la sanzione della reintegra in servizio del dipendente pubblico, con diritto al pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi dal giorno del recesso fino alla sua effettiva riammissione al lavoro.

Le argomentazioni utilizzate dalla Suprema Corte per disattendere il precedente orientamento possono essere così riassunte:

  1. le finalità della L. n.92/12 terrebbero conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata;
  2. la modulazione delle sanzioni del nuovo art.18 – come novellato dalla riforma – farebbe riferimento a ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si presterebbero ad essere estese all’impiego pubblico;
  3. la nuova normativa sarebbe in particolar modo inconciliabile in relazione al licenziamento intimato senza il rispetto delle garanzie procedimentali, ritenute dal Legislatore inderogabili;
  4. la modulazione di tutele nel pubblico impiego dovrebbe avvenire in modo diverso rispetto al settore privato – sostiene la Suprema Corte – perché nel pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro ha garanzie e limiti che sono posti non tanto nell’interesse del soggetto da espellere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi.

Rispetto alla situazione precedente, a meno di altri clamorosi ribaltoni, adesso possiamo dire di avere due certezze: la prima è che la nuova formulazione dell’art.18 – come novellato dalla c.d. riforma Fornero – non si applica ai licenziamenti dei dipendenti pubblici; la seconda è che, alla luce delle motivazioni che hanno ispirato la Suprema Corte nella sentenza in commento, sicuramente anche le tutele crescenti non saranno ritenute applicabili ai dipendenti pubblici.

In altre parole, mentre nel settore privato il vecchio art.18 St.Lav. è stato dapprima modificato nel 2012 e poi addirittura superato per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 dalle tutele crescenti, nel pubblico impiego siamo ancora fermi alla formulazione dell’art.18 originaria, quella del 1970.

A questo punto, per coloro – come il sottoscritto – che credono fortemente nella necessaria equiparazione di trattamento in questa materia tra dipendenti pubblici e privati, non rimane che sperare nell’“armonizzazione” di cui il Legislatore parla all’art.1, co.7 e 8, L. n.92/12. Nelle disposizioni citate il Legislatore, infatti, si rinvia a un successivo intervento normativo, che demanda al Ministero della Funzione Pubblica – previa consultazione delle organizzazioni sindacali – di assumere le iniziative necessarie per armonizzare la disciplina del pubblico impiego con la nuova normativa. Il rischio è che rimanga solo una vana speranza, perché dopo quattro anni ancora non si è mosso nulla.