6 Ottobre 2021

Rinuncia all’indennità sostitutiva del preavviso e obblighi contributivi: nota a Cassazione n. 12932/2021

di Giuseppina Mortillaro

La natura retributiva dell’indennità sostitutiva del preavviso comporta il necessario assoggettamento dei corrispondenti importi a contribuzione previdenziale. La rinuncia all’indennità, ancorché pienamente valida ed efficace tra le parti, non esplica però effetti nei confronti dell’ente previdenziale, che ha diritto al versamento della relativa contribuzione, anche qualora il precedente licenziamento sia riqualificato, nell’ambito di un successivo accordo transattivo, alla stregua di risoluzione consensuale con incentivo all’esodo.

 

Il preavviso e l’indennità sostitutiva: un quadro generale

È noto come, laddove da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato una delle parti receda per una ragione diversa dalla giusta causa ai sensi dell’articolo 2119, cod. civ., competa all’altra parte il diritto a un periodo di preavviso.

Secondo la regola generale dell’articolo 2118, cod. civ., ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti “dalle norme corporative” (da leggersi, ovviamente, come riferimento alla contrattazione collettiva), dagli usi o secondo equità.

Qualora il preavviso “lavorato” non abbia corso, la parte che recede è tenuta verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. Indennità, questa, comunemente nota appunto come “indennità sostitutiva del preavviso” o “indennità di mancato preavviso”.

La previsione codicistica dell’articolo 2118, cod. civ., che trattava allo stesso modo licenziamento e dimissioni, va letta, però, in combinato disposto con la normativa limitativa dei licenziamenti e, in particolare, con l’articolo 3, L. 604/1966, secondo cui il licenziamento può essere intimato soltanto in presenza di precise causali, giustificato motivo oggettivo o soggettivo, non trovando spazio nell’ordinamento – e non potrebbe più essere diversamente, anche grazie alla previsione dell’articolo 30, Carta di Nizza, che rende intangibile a opera del Legislatore nazionale il principio di necessaria giustificatezza del licenziamento – un sistema di recesso datoriale affidato soltanto al rispetto del preavviso.

Ne discende, pertanto, che, pur essendo la norma dell’articolo 2118, cod. civ., pienamente vigente nell’ordinamento, essa è destinata ad applicarsi essenzialmente alle dimissioni del lavoratore, in quanto sempre libere senza necessità di alcuna causale, nonché a quei rapporti di lavoro ai quali eccezionalmente non si applica la disciplina limitativa dei licenziamenti, come ad esempio al rapporto di lavoro domestico e al rapporto di lavoro dirigenziale (per il quale lo strumentario di tutele su cui il dirigente può contare si fonda sulla contrattazione collettiva e non sulla legge).

Nelle altre ipotesi di licenziamento invece il diritto al preavviso si accompagna necessariamente alla presenza della causale di legge: licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo (anche in caso di conversione giudiziale del licenziamento da giusta causa in giustificato motivo), licenziamento per superamento del periodo di comporto ai sensi dell’articolo 2110, cod. civ..

L’obbligo del preavviso ricorre, poi, in caso di morte del lavoratore o di dimissioni della lavoratrice madre.

L’obbligo di preavviso non sussiste, invece, quando il licenziamento è intimato per giusta causa, che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro; quando si è in presenza di un esito negativo della prova, sia durante che a termine del periodo di prova; quando cessa il rapporto di lavoro a termine; quando il rapporto di lavoro si risolve consensualmente anche nell’ambito di un accordo ex articolo 7, L. 604/1966; quando il lavoratore non riprende servizio a seguito della reintegrazione.

La durata del preavviso è rimessa generalmente al contratto collettivo; essa, di regola, varia in ragione dell’anzianità di servizio, della categoria legale cui appartiene il lavoratore, dell’inquadramento contrattuale e di eventuali pattuizioni individuali.

Si ammette, infatti, anche la possibilità che il contratto individuale stabilisca una durata maggiore del preavviso sia di licenziamento, trattandosi di una clausola sempre più favorevole al lavoratore, che, a certe condizioni, di dimissioni. In quest’ultima ipotesi, la giurisprudenza ritiene necessario, però, che la facoltà di deroga sia prevista dal contratto collettivo e che il lavoratore riceva, quale corrispettivo per la maggiore durata del periodo di preavviso, un compenso in denaro[1].

 

Efficacia obbligatoria ed efficacia reale del preavviso

Un problema assai dibattuto è stato quello della qualificazione giuridica (efficacia obbligatoria o reale) da assegnare alla regola del preavviso, perché, a seconda dell’opzione interpretativa che si sceglie di seguire, le conseguenze pratiche in ordine al momento di estinzione del rapporto sono molto diverse.

Secondo la tesi dell’efficacia obbligatoria, il mancato godimento del preavviso non influenza l’efficacia estintiva del licenziamento, sicché, ove il datore di lavoro non conceda il preavviso, il licenziamento produrrà ugualmente i propri effetti estintivi, salvo l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere l’indennità sostitutiva secondo la regola dell’articolo 2118, comma 2, cod. civ..

Il datore di lavoro, in altri termini, sceglie se concedere il preavviso, o corrispondere – in alternativa – l’indennità.

Secondo la tesi dell’efficacia reale, durante il periodo di preavviso l’efficacia del recesso è soltanto sospesa. È vero che il datore di lavoro può scegliere liberamente di non far lavorare il dipendente pagando l’indennità sostitutiva, ma il recesso – a meno che non vi sia un consenso del lavoratore ad accettare l’indennità – produce effetti solo quando è decorso il termine del preavviso, sia esso lavorato o meno.

In precedenza, si propendeva per la tesi dell’efficacia reale del preavviso[2]. Più di recente si è affermata la tesi dell’efficacia obbligatoria. Secondo la Corte di Cassazione (n. 20099/2011): “nel contratto a tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale, che comporta, in mancanza di accordo tra le parti circa la cessazione immediata del rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine, ma efficacia obbligatoria, con la conseguenza che nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso”.

In termini analoghi, si possono citare Cassazione, n. 36/2011; Cassazione, n. 22443/2010; Cassazione, n. 21216/2009; Cassazione, n. 13959/2009; Cassazione, n. 15495/2008. E, ancora, Cassazione n. 11740/2007, secondo cui il rapporto si risolve con effetti immediati al momento della ricezione dell’atto di recesso, non facendo riferimento il disposto dell’articolo 2118, cod. civ., alla necessità del consenso della parte non recedente per addivenire alla cessazione del rapporto.

Il preavviso si configura, dunque, come un istituto a efficacia obbligatoria e non reale, per essere volto a stabilire solo l’obbligo della parte recedente di corrispondere in favore dell’altra parte l’indennità sostitutiva.

Ad avallare la tesi dell’efficacia obbligatoria vi è oggi anche il dato normativo, rappresentato dalla L. 92/2012, il cui articolo 1, comma 41, prevede che il licenziamento intimato all’esito del procedimento disciplinare previsto dall’articolo 7, L. 300/1970, oppure all’esito del procedimento di cui all’articolo 7, L. 604/1966, nel testo novellato dalla stessa L. 92/2012, produca effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato, fermo il diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva. Resta fatto salvo soltanto l’evento sospensivo in materia di tutela della maternità e della paternità e l’eventuale infortunio sul lavoro.

Il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato.

Dal momento in cui, per legge, il licenziamento retroagisce all’avvio della procedura – disciplinare o conciliativa – senza che abbiano rilievo gli effetti sospensivi intervenuti medio tempore, si deve giocoforza riconoscere che il preavviso abbia efficacia obbligatoria.
Ovviamente, essendo il diritto al preavviso lavorato o in alternativa il diritto a percepire la relativa indennità diritti di natura disponibile, essi potranno costituire oggetto di rinunce e transazioni.

Il lavoratore, ad esempio, anche nell’ambito di un accordo con il datore di lavoro, potrà rinunciare in tutto o in parte all’indennità sostitutiva del preavviso o al preavviso lavorato; del pari, il datore di lavoro, destinatario di una comunicazione di dimissioni, potrà rinunciare al preavviso dovutogli dal lavoratore. Il tutto in maniera valida ed efficace inter partes.

 

Retribuzione o risarcimento?

Chiarito che il preavviso ha efficacia obbligatoria, con il conseguente prodursi dell’effetto estintivo del rapporto all’atto della comunicazione del recesso, salvo l’obbligo di pagare la corrispondente indennità per il mancato riconoscimento del periodo lavorato, occorre ora mettere un altro tassello nella comprensione dell’istituto, quello, cioè, inerente alla natura retributiva o risarcitoria dell’indennità.

La risposta, per quanto si è già precisato, risulta agevole. Infatti, una volta evidenziato come l’indennità supplisca alle retribuzioni del periodo non lavorato senza che essa assolva a una funzione “ristoratrice” di un recesso illegittimo (si è detto, infatti, che la regola dell’articolo 2118, cod. civ., postula a monte un licenziamento intimato in presenza di una causale di legge, la cui assenza dà luogo non già al preavviso, ma al sistema di tutele contro i licenziamenti illegittimi), deve necessariamente concludersi come all’indennità sia da attribuirsi natura retributiva.

La giurisprudenza, al riguardo, ha avuto modo di rilevare come la regola del preavviso di cui all’articolo 2118, cod. civ., esplichi i propri effetti, per la sua portata generale, in tutti i casi in cui il recesso abbia efficacia estintiva del rapporto di lavoro.

Rimane perciò irrilevante, ai fini della spettanza dell’indennità di mancato preavviso, l’immediato reperimento da parte del lavoratore licenziato di altra occupazione, in forza della natura indennitaria, e quindi retributiva, e non risarcitoria, dell’emolumento in questione[3].

Dalla natura retributiva dell’indennità sostitutiva del preavviso discendono importanti conseguenze anche in ordine ai rapporti con gli enti terzi, sia sotto il profilo fiscale, che sotto l’aspetto previdenziale.

Dal punto di vista fiscale l’indennità è assoggettata alla tassazione ordinaria, alla stessa stregua della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore ove il preavviso fosse stato lavorato.

Dal punto di vista previdenziale, l’indennità è assoggettata – a differenza dell’incentivo all’esodo, che sconta soltanto la tassazione separata con la stessa aliquota del Tfr – a contribuzione previdenziale.

L’assoggettamento dell’indennità alla contribuzione, al di là del rilevare sotto il profilo della debenza della NASpI a decorrere soltanto dal momento successivo allo scadere del preavviso (lavorato o coperto dalla corrispondente indennità), ha dato spesso origine a contenzioso con l’ente previdenziale circa la debenza o meno dei contributi nei casi in cui, nell’ambito di un accordo transattivo, l’indennità sostitutiva del preavviso sia stata oggetto di rinuncia delle parti.

Di recente la Corte di Cassazione ha avuto modo di tornare sul tema, rigettando il ricorso promosso da una banca avverso una sentenza della Corte d’Appello di Firenze.

 

Cassazione n. 12932/2021: la debenza della contribuzione anche sull’indennità di mancato preavviso oggetto di rinuncia

Il caso che ha dato origine alla sentenza n. 12932/2021 ha preso le mosse da una pronuncia della Corte d’Appello di Firenze, che, nel riformare la sentenza di primo grado, aveva rigettato le domande di accertamento negativo proposte, con separati ricorsi poi riuniti, da una banca, affinché fosse accertata e dichiarata la non debenza della contribuzione e di altri importi sull’indennità sostitutiva del preavviso a cui numerosi dirigenti avevano rinunciato nell’ambito di un transazione, successiva ai licenziamenti intimati – licenziamenti nei quali si riconosceva, però, il diritto al preavviso – a fronte di un incentivo all’esodo e della cessazione dal servizio in epoca successiva, con riqualificazione del licenziamento come risoluzione consensuale.

Secondo la Corte d’Appello di Firenze, la contribuzione risultava dovuta in quanto i rapporti di lavoro erano stati risolti con il licenziamento dei dirigenti, con effetto dal ricevimento della lettera di recesso, e con comunicazione a quella data del diritto all’indennità di mancato preavviso.

Il licenziamento, pertanto, aveva prodotto l’effetto estintivo del rapporto all’atto del ricevimento della comunicazione e, in tale momento, era sorto il diritto dei dirigenti a percepire l’indennità di mancato preavviso.

Il fatto che nell’accordo transattivo venisse dopo alcuni giorni concordata, in luogo del licenziamento, una risoluzione consensuale del rapporto diventava, pertanto, irrilevante, sia perché non vi era traccia di una previa revoca del licenziamento, con la conseguenza che, essendo l’effetto estintivo già prodotto, non si poteva risolvere consensualmente un rapporto non più esistente, sia perché comunque alcuni elementi letterali, nel testo dell’accordo transattivo, inducevano a optare per la tesi del licenziamento (si prevedeva, infatti, una rinuncia espressa all’impugnazione del licenziamento e comunque, per quel che qui rileva, una rinuncia a ogni ulteriore pretesa, compresi il preavviso o l’indennità sostitutiva del preavviso).

La banca aveva formulato, poi, una domanda subordinata per decurtare da quanto in ipotesi dovuto la contribuzione già versata tra la data dell’originario licenziamento e la successiva e definitiva cessazione dei rapporti di lavoro.

Avverso la sentenza della Corte territoriale fiorentina la banca ha proposto ricorso per Cassazione, cui l’ente previdenziale ha resistito con controricorso.

Secondo la banca, sarebbe innanzi tutto stato violato il principio di autonomia negoziale e sarebbe stata data della transazione una lettura difforme dai canoni di interpretazione dei contratti.

Sarebbe, poi, stato violato l’articolo 18, comma 10, St. Lav., per non avere la sentenza ritenuto ricavabile dal testo dell’accordo la revoca (sia pure implicita) dei precedenti licenziamenti.

La Corte territoriale avrebbe, infine, anche errato in relazione alla domanda subordinata.

La Corte di Cassazione ha così sintetizzato le argomentazioni svolte dalla banca a sostegno dei motivi di ricorso: “le argomentazioni esposte dalla società, a sostegno dei primi due motivi, possono così sintetizzarsi:

– la Corte di merito ha ritenuto del tutto ininfluente il titolo in forza del quale sono cessati i rapporti di lavoro, da cui discenderebbe l’imposizione dell’obbligo contributivo sull’indennità di preavviso mai corrisposta ai lavoratori;

– la correlazione dell’obbligo contributivo, al dovuto e non al riscosso, e l’autonomia dell’obbligazione previdenziale nulla avrebbero a che fare con la fattispecie, in cui le parti avrebbero dato attuazione alle intese, di cui alla scrittura privata, rispristinando il rapporto di lavoro e sostituendo il licenziamento con una risoluzione consensuale, previa revoca del primo; – non è predicabile una presunta irretrattabilità della scelta di licenziare e l’inopponibilità all’Inps delle scelte successive, in riferimento al titolo di scioglimento del vincolo contrattuale;

– è stata preclusa la valutazione delle intese fra le parti come frutto di una più complessa regolamentazione a carattere novativo;

– la revoca del licenziamento, per fatti concludenti, emergeva dal ripristino del rapporto di lavoro a tutti gli effetti e dalla conseguente scelta delle parti di procedere alla risoluzione consensuale;

– il riferimento allo schema del nuovo istituto, introdotto dal novellato articolo 18, comma 10, St. Lav., si limita a precisare che la revoca produce il solo effetto del diritto alla retribuzione medio tempore maturata senza che possano trovare applicazione i nuovi regimi sanzionatori;

– in definitiva, la mancata corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso non deriva affatto da un atto di rinuncia a tale diritto ma da una diversa scelta delle parti, vale a dire dalla volontà di modificare il titolo della risoluzione del rapporto di lavoro”.

La Corte ha ritenuto di respingere il ricorso muovendo dal presupposto dell’estraneità della transazione al rapporto contributivo, estraneità da apprezzarsi in ragione del fatto che la contribuzione è versata sulla retribuzione dovuta per legge o per contratto individuale o collettivo, e non su quella di fatto corrisposta. Corollario di tale presupposto è quello secondo cui la contribuzione compete ugualmente anche quando il lavoratore abbia ricevuto soltanto una parte del dovuto portato dalla busta paga o, addirittura, vi abbia rinunciato.

Ciò posto è stato escluso – com’era in realtà già pacifico in giurisprudenza – che le parti possano rinunciare all’obbligo contributivo, non potendo l’eventuale accordo né esplicare effetti verso l’Inps, che è comunque terzo rispetto alla transazione, né in ogni caso contenere clausole in deroga all’obbligazione contributiva.

Orbene, secondo la Corte, nella vicenda sottoposta al proprio esame non veniva neppure in rilievo la questione di distinguere, nel novero delle pattuizioni di un accordo transattivo, le poste retributive da quelle non retributive per verificare quali di esse fossero assoggettabili a contribuzione, ma di verificare piuttosto “la causa dell’indennità sostitutiva del preavviso riconosciuta, dalla società, con l’intimazione del licenziamento”.

Come anticipato supra, all’indennità di mancato preavviso va riconosciuta natura retributiva; da qui il pieno assoggettamento della stessa alla contribuzione previdenziale.

Il diritto del lavoratore a percepire detta indennità, e la conseguente obbligazione contributiva, sorge nel momento stesso in cui il licenziamento acquista efficacia, senza che l’eventuale rinuncia successiva del lavoratore – perfettamente valida ed efficace nei confronti del datore di lavoro – possa precludere il diritto dell’ente previdenziale di pretendere la contribuzione.

 

Qualche perplessità rispetto al caso concreto che ha dato origine alla sentenza in commento

Il ragionamento seguito dalla Corte fiorentina e poi dalla Suprema Corte è senz’altro condivisibile nella parte in cui rende insensibile l’obbligazione contributiva alle vicende dispositive che riguardano le parti, e, d’altra parte, l’ente previdenziale è estraneo a tali vicende e, dunque, non potrebbe essere diversamente.

Del pari, è assolutamente corretto l’avere posto l’accento sull’effetto estintivo della comunicazione di recesso all’atto della ricezione della lettera di licenziamento (il che si collega all’efficacia obbligatoria del preavviso di cui si è detto) e del sorgere in quel momento del diritto all’indennità, avente pacificamente natura retributiva.

Tuttavia, dalla stessa lettura della sentenza emerge che la fattispecie sottoposta all’attenzione del Supremo Collegio non era il classico caso di rinuncia al preavviso nell’ambito di un accordo transattivo, ma di un mutamento del titolo estintivo del rapporto: da recesso unilaterale a risoluzione consensuale.

E, se è pur vero che il non avere disposto chiaramente una previa revoca dei licenziamenti ha fatto ritenere preferibile l’opzione interpretativa accolta dalla Corte, è anche vero che – in casi particolari come quello portato attenzione della Corte – anche la tesi della “revoca implicita” del licenziamento, sostenuta dalla difesa della banca, poteva apparire più che plausibile.

Ove nell’accordo transattivo davvero fosse stata ravvisabile una revoca implicita e il rapporto si fosse risolto consensualmente, la questione dell’irrinunciabilità all’obbligazione contributiva non avrebbe avuto ragione di porsi, semplicemente per il fatto che il preavviso non sarebbe spettato al lavoratore e, di conseguenza, alcun obbligo contributivo sarebbe sorto.

[1] In tal senso, si vedano: Cass. n. 4991/2015; Cass. n. 23235/2009; più di recente, sul tema si è pronunciata anche Cass. n. 18122/2016.
[2] In tal senso, si può richiamare tra le tante Cass. n. 13883/2004.
[3] Così, tra le altre, Cass. n. 4192/2013.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

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