19 Novembre 2015

Sempre legittimo l’utilizzo personale della posta elettronica o di internet?

di Alessandro Rapisarda

 

A ridare anima al fuoco della discussione sulla modifica apportata all’art.4 dello Statuto dei Lavoratori dal D.Lgs n.151/15, arriva una recentissima sentenza della Cassazione, la n.22353 del 2 novembre 2015. Naturalmente la sentenza non può riguardare la norma novellata, ma reputo che la stessa possa prospettare posizioni future, che i giudici potranno “cavalcare” anche alla stregua di quanto ora risulta in piena vigenza nel nostro ordinamento, in materia di controllo dei lavoratori. Infatti, se da una parte il nuovo art.4 sottrae dalla “procedura preventiva” (accordo sindacale o autorizzazione dell’ispettorato del lavoro) il controllo accidentale del datore di lavoro operato durante l’utilizzo da parte del lavoratore di strumenti di lavoro – e in ogni caso quanto rilevato in sede di controllo potrà essere usato disciplinarmente nei confronti del lavoratore – dall’altra restano immutati i presupposti tipici della disciplinarietà del rapporto di lavoro.

Non a caso questa sentenza della Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento come sanzione disciplinare del lavoratore, che utilizzi per finalità personali internet e posta elettronica messi a disposizione dell’azienda per l’attività lavorativa. L’illegittimità del licenziamento è ricondotta dalla Suprema Corte alla mancanza di proporzionalità della sanzione adottata : si resta comunque perplessi nel rilevare che sono stati considerati del tutto irrilevanti gli inviti formali del datore di lavoro a tutti i dipendenti dell’azienda per un uso più attento della strumentazione aziendale.

Pertanto, una condizione essenziale per considerare legittimo il licenziamento, per gli Ermellini di questa sentenza, è la dimostrazione che l’utilizzo per fini personali della navigazione internet e dell’uso della posta elettronica determini un’effettiva sottrazione del tempo all’attività di lavoro o ne blocchi o danneggi l’attività produttiva.

Da ultimo, sottolinea la Corte, il carattere ingiurioso del licenziamento che, in quanto lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore, dà luogo al risarcimento del danno ulteriore rispetto alle conseguenze previste dall’art.18, L. n.300/70 (Statuto dei Lavoratori) non si identifica con la mancanza di giustificatezza dello stesso, bensì con le particolari forme o modalità offensive del recesso del datore di lavoro. Tali circostanze, tuttavia, devono essere rigorosamente provate da chi le adduce, unitamente al lamentato pregiudizio.

 

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