25 Ottobre 2017

Welfare: le news dell’Agenzia delle entrate

di Luca Caratti

Sempre maggiore è la sensibilità dimostrata da aziende e lavoratori nei confronti del welfare aziendale, vuoi per le recenti campagne dei media vuoi per le esplicite previsioni della contrattazione collettiva nazionale. I datori di lavoro, attraverso piani di welfare, incrementano la soddisfazione dei propri dipendenti e ottimizzano i costi aziendali. Proprio tale diffusione genera però, nell’operatività quotidiana, sempre maggiori dubbi che l’Agenzia delle entrate tenta di fugare attraverso la risposta a interpelli. Qui di seguito si esaminano i più recenti.

 

La diffusione del welfare

Negli ultimi due anni si è assistito a un sempre maggiore interesse dei media sulle tematiche relative al welfare aziendale; tale interesse è dovuto, quantomeno in parte, ai recenti interventi normativi (Legge di Bilancio 2016 e 2017), che hanno favorito lo sviluppo di sistemi incentivanti anche per le piccole e medie imprese. A testimonianza di tale orientamento l’indagine effettuata dalle Assicurazioni generali, che, come ogni anno, misura il livello di welfare nelle imprese. Il Rapporto 2017, condotto su un campione di 3.422 PMI, evidenzia come il 40% di esse sono attive in almeno 4 aree di welfare aziendale, il 58% in 3, e le imprese che attuano iniziative in almeno 6 aree sono il 18,3% del totale. Le aziende intervistate hanno offerto per la maggior parte, quale iniziativa al di fuori degli obblighi del contratto collettivo nazionale, misure di sostegno alla previdenza integrativa (17,1%) e alla sanità integrativa (8,2%).

Eppure vi è da rilevare che oggi, dopo i recenti interventi del Legislatore, disponiamo di un paniere molto ampio di strumenti di welfare aziendale esenti da imponibilità fiscale e contributiva, che, per completezza, ricordiamo sinteticamente:

  • contributi a favore della previdenza complementare (esenti fino a 5.164,57 euro l’anno, ma esenti da limite qualora si convertissero i premi di risultato in contributi previdenziali);
  • contributi di assistenza sanitaria (esenti fino a 3.615,20 euro l’anno, ma senza limite per la conversione dei premi di risultato in contributi sanitari);
  • assicurazioni per la non autosufficienza e per le gravi patologie;
  • somme e prestazioni dirette per servizi di assistenza ai familiari anziani (over 75 anni) o non autosufficienti;
  • somme e prestazioni destinate a servizi di educazione e istruzione anche in età prescolare ai familiari dei dipendenti, compresi i servizi integrativi e di mensa, la frequenza di ludoteche, centri estivi e invernali, borse di studio;
  • opere o servizi aziendali destinati ai dipendenti e ai loro familiari, per le finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria, culto;
  • servizi aziendali di mensa e trasporto;
  • buoni pasto[1];
  • beni e servizi nel limite di non imponibilità annua di 258,23 euro;
  • prestiti (con imponibile pari al 50% delle differenza tra il tasso ufficiale di sconto e il tasso applicato).

Nell’elencazione si è volutamente tralasciato di citare, anche se rivestono straordinaria importanza nel perseguimento del wellbeing (non di solo welfare occorre parlare!) dei lavoratori, tutte quelle forme organizzative del lavoro che tendono a soddisfare le esigenze di conciliazione di tempi di vita e di lavoro dei dipendenti e che dovrebbero essere poste all’apice di ogni piano incentivante.

Tornando alla valutazioni in ordine ai soli flexible benefit, risulta evidente come la maggior sensibilità delle imprese e dei loro consulenti verso tale tematica ha amplificato le necessità formative e di chiarimenti in ordine all’applicazione della normativa e, a tal proposito, nel prosieguo, si evidenzieranno le più recenti interpretazioni offerte dall’Agenzia delle entrate sul tema.

 

Il regolamento aziendale quale strumento di attivazione del welfare

L’introduzione di tali misure è stato, come detto, largamente favorito in primis dalla L. 208/2015, che ha avviato la possibilità di convertire i premi aziendali derivanti dalla c.d. detassazione in servizi per il benessere dei lavoratori e dei loro famigliari, ma, soprattutto, ha previsto la possibilità di offrire welfare equiparando l’iniziativa negoziale dell’impresa con quella unilaterale dell’impresa. Per la verità, ai fini della deducibilità dei costi sostenuti per le suddette misure, non vi è piena equiparazione, infatti i costi sostenuti per le opere e i servizi sono deducibili con un limite del 5 per mille del costo complessivo del lavoro per le prestazioni offerte volontariamente dall’azienda, ma senza limite per le prestazioni stabilite a seguito di contratti o regolamenti aziendali.

Su tale ultimo inciso si è spesso soffermata l’attenzione di molteplici interpreti, poiché, se pareva acclarata la possibilità di riconoscere opere, servizi e prestazioni per le finalità previste dall’articolo 100, Tuir, senza renderle imponibili per il lavoratore sia con atto negoziale o con atto unilaterale, non così pacifica pareva essere la completa deducibilità dei servizi medesimi in caso di riconoscimento tramite regolamento. Chi si espresse ufficialmente per la completa equiparazione tra regolamento e contratto ai fini della deducibilità fu la Fondazione studi dei consulenti del lavoro, che, nella circolare n. 10/2016, affermò: “La deducibilità del costo sostenuto per il piano di welfare, tuttavia, si ritiene possa essere integrale anche in presenza di un regolamento aziendale purché non sia un mero atto unilaterale privo di vincoli specifici all’attuazione del piano”.

Anche l’Agenzia delle entrate, con la circolare n. 28/E/2016, si esprimeva in tal senso, ribadendo che “l’erogazione dei benefits in conformità a disposizioni di contratto, di accordo o di regolamento che configuri l’adempimento di un obbligo negoziale determina la deducibilità integrale dei relativi costi da parte del datore di lavoro ai sensi dell’art. 95 del Tuir, e non nel solo limite del cinque per mille secondo quanto previsto dall’art. 100 del medesimo testo unico. Tale limite di deducibilità continua ad operare, invece, in relazione alle ipotesi in cui le opere ed i servizi siano offerti volontariamente dal datore di lavoro”.

Forse fu proprio l’inciso “adempimento di un obbligo negoziale” che, anziché dirimere una volta per tutte la querelle, contribuì a rendere più incerto il passo di chi voleva introdurre piani welfare, relativamente alla sola lettera f), comma 2, articolo 51 Tuir, esclusivamente attraverso un atto unilaterale, quale il regolamento aziendale, beneficiando altresì della piena deducibilità dai costi.

Prima di soffermarci sulle risposte dell’Agenzia delle entrate agli interpelli presentati dai contribuenti, è opportuno ricordare quanto la giurisprudenza ha sempre affermato in merito all’efficacia di regolamento e usi aziendali. In particolare la Cassazione, con sentenza n. 8342/2010, già affermava che i regolamenti potevano essere annoverati tra le c.d. fonti sociali perché, “pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un’uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda – agisce sul piano dei singoli rapporti individuali alla stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale” (Cass. n. 5768/2016).

In sostanza, pur essendo il regolamento un atto unilaterale del datore di lavoro, poiché contiene un impegno per un determinato arco temporale, esso assume le caratteristiche di un atto vincolante al pari di un contratto.

L’Agenzia delle entrate, Direzione regionale Lombardia, prendendo le mosse dai suesposti consolidati orientamenti giurisprudenziali, risponde agli interpelli n. 954-1417/2016 e del più recente n. 904-603/2017 ammettendo l’integrale deducibilità dei costi relativi al piano welfare introdotto con il regolamento, purché al datore di lavoro non sia concesso di cessare unilateralmente e discrezionalmente l’implementazione e l’efficacia del piano welfare al termine di ciascun anno di riferimento, senza che da questo possa derivare alcun successivo obbligo nei confronti dei collaboratori, né per far sorgere diritti di qualsiasi natura in capo a questi ultimi.

A contrariis, quindi, secondo l’Agenzia delle entrate, l’assenza di qualsiasi arbitraria previsione, all’interno del regolamento, che consenta la revoca dello stesso, in qualunque momento della sua vigenza, da parte del datore di lavoro determina la sua efficacia al pari di un contratto collettivo.

 

La detraibilità dell’Iva sugli acquisti pro-welfare

Con interpello n. 904-603/2017 l’Agenzia delle entrate, Direzione regionale Lombardia, offre un ulteriore chiarimento relativamente alla possibilità di dedurre dal proprio reddito d’impresa i costi che dovrà sostenere (a tale quesito la risposta non può che essere positiva qualora il piano welfare sia regolato da contratto collettivo o regolamento) e, contestualmente, detrarre l’Iva relativa all’acquisto di un bene facente parte del paniere a disposizione dei lavoratori. Sul punto l’Agenzia si esprime ritenendo che, ai fini dell’esercizio della detrazione dell’Iva, occorre valutare, in primo luogo, la sussistenza o meno del requisito dell’inerenza tra l’acquisto dei beni e servizi da parte dell’operatore economico e l’attività da quest’ultimo svolta. In sostanza il datore di lavoro potrà detrarre l’Iva sugli acquisti di beni o servizi, nel caso proposto dall’istante la pay TV, da porre a disposizione dei lavoratori a condizione che:

  • l’acquisto dei beni e dei servizi sia inerente all’attività economica svolta dal soggetto passivo;
  • i beni e i servizi acquistati siano afferenti a operazioni imponibili o ad esse assimilate dalla legge ai fini dell’esercizio della detrazione;
  • sussista un nesso diretto e immediato tra le spese collegate alle prestazioni a monte e il complesso delle attività economiche del soggetto di imposta essendo, la detraibilità, connessa al trattamento delle operazioni a valle a cui gli acquisti si riferiscono.

Da ciò consegue che, nel caso di acquisto ad esempio dell’abbonamento alla pay TV da offrire alla generalità dei lavoratori o a categorie omogenee, l’azienda non sarà legittimata a detrarre l’Iva relativa all’acquisto.

 

Il welfare premiale

Con l´interpello n. 904-791/2017 e la relativa risposta fornita dalla Direzione regionale Lombardia dell’Agenzia delle entrate viene ampliata notevolmente la possibilità per il datore di lavoro di riconoscere flexible benefit attraverso una specifica piattaforma web personalizzabile, mediante un piano welfare a carattere premiale e incentivante.

Il caso proposto dall’interpellante è relativo a un datore di lavoro che, attraverso appunto una piattaforma web, pone a disposizione della generalità dei dipendenti un “credito welfare” pari a 1.500 euro, proporzionalmente ridotto nell’ipotesi di raggiungimento di un risultato inferiore. Nel secondo anno di vigenza l’importo – 1.500 euro – verrà riconosciuto al raggiungimento di un dato obiettivo aziendale e, in caso di mancato raggiungimento, il succitato importo verrebbe rapportato a una determinata percentuale della RAL individuale.

Sul punto l’Agenzia delle entrate, per il tramite della DRE Lombardia, evidenzia come le modalità di utilizzo di un budget figurativo per la fruizione dei servizi del Piano welfare attraverso una piattaforma informatica non contrastano con le finalità della norma, sempreché – e rilevante ai fini dell’operatività è tale precisazione – il budget assegnato, in caso di non utilizzo, non venga convertito in denaro e rimborsato al lavoratore.

L’Amministrazione finanziaria aggiunge poi che non potrà essere riconosciuta l’applicazione delle disposizioni agevolative previste dell’articolo 51, comma 2 e ss., Tuir, ogni qualvolta l’offerta dell’azienda non sia indirizzata alla collettività (generalità o categorie di dipendenti), ma sia rivolta ad personam oppure consenta di trarre vantaggi esclusivamente ad alcuni e ben individuati lavoratori.

È opportuno ricordare sempre che il presupposto ineludibile di ogni piano welfare è quello di rivolgersi alla generalità o a categorie di dipendenti, intendendosi queste ultime come “un gruppo omogeneo di dipendenti (anche se alcuni di questi non fruiscono di fatto delle opere o servizi o delle somme) poiché, invece, qualunque somma riconosciuta ad personam costituisce reddito di lavoro dipendente” (Ministero delle finanze, circolare n. 326/E/1997).

Nella risposta all’interpello i funzionari dell’Agenzia si spingono anche oltre, ovvero parrebbero ammettere la possibilità di strutturare il piano welfare subordinando l’accesso ai vari servizi al raggiungimento di determinati obiettivi di performance aziendale e individuale con espressa indicazione del “credito welfare” attribuibile in funzione del livello di ottenimento di tali obiettivi, ovviamente l’offerta deve riguardare una collettività di lavoratori.

Tale apertura renderebbe di fatto più flessibile e più conveniente la predisposizione di un piano welfare, attraverso un contratto o un regolamento che ne disciplini l’erogazione in funzione del risultato raggiunto, rispetto al classico premio di risultato, introdotto dalla L. 208/2015 e soggetto all’imposta sostitutiva del 10%, il quale consente la detassazione sino a un massimo di 3.000 euro ed è legato a incrementi misurabili e verificabili, ma soprattutto non deve obbligatoriamente passare attraverso le “forche caudine” di una contrattazione collettiva aziendale.

 

Il welfare per gli amministratori

Un’ulteriore questione affrontata dall’Agenzia delle entrate (DRE Lombardia) con interpello n. 954-1417/2016 inerisce la possibilità di offrire, non solo ai dipendenti, ma anche ai componenti del Consiglio di Amministrazione, un piano welfare, in questo caso mediante un regolamento. Preliminarmente occorre osservare come sia necessario, ai fini di poter applicare le disposizioni contenute nell’articolo 51, comma 2 ss., Tuir, che gli amministratori siano percettori di un compenso inquadrabile tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, di cui all’articolo 50, lettera c-bis), Tuir.

Va da sé, quindi, che sono sicuramente esclusi dal beneficio in parola gli amministratori che, in virtù della loro attività di professionisti, vedono attrarre l’emolumento alla categoria di reddito di lavoro autonomo.

È noto, infatti, che secondo la prassi dell’Agenzia delle entrate (circolare n. 105/2001 e risoluzione n. 56/E/2002), il compenso dell’amministratore rientra nell’attività professionale quando l’attività di amministratore può essere considerata oggettivamente connessa alle mansioni tipiche della professione abitualmente esercitata, come, ad esempio, nel caso del dottore commercialista. Dato questo assunto, occorre solo stabilire se gli amministratori possono costituire una categoria destinataria di welfare aziendale.

I tecnici dell’Agenzia, ricordando come gli interventi debbano essere rivolti a generalità o categorie di lavoratori, ammettono la possibilità che una categoria destinataria della forma premiale possa essere individuata negli amministratori, anche sulla base di presupposti diversi di quelli previsti per i lavoratori dipendenti.

A parere di chi scrive, però, non pare essere coerente con il principio di generalità (la generica disponibilità verso un gruppo omogeneo di dipendenti) il riconoscimento di servizi ex articolo 51, comma 2, Tuir, all’amministratore unico.

 

Conclusioni

Il welfare aziendale, anche dalla lettura dei recenti interventi dell’Agenzia delle entrate, pare suscitare un buon interesse tra le aziende, e non solo tra quelle di più grande dimensione, quindi con maggiore disponibilità economica, ma anche tra quelle piccole e medie. Sicuramente tale interesse è frutto dell’apertura alla veicolazione dei piani welfare mediante un atto unilaterale, e non solo negoziale, quale il regolamento aziendale, ma vi è da auspicare che ciò sia frutto anche di una maggiore sensibilità alla valorizzazione delle persone dentro e fuori l’azienda. È cosa nota, infatti, che un sistema di incentivazione, non solo economica, ma pure legato al soddisfacimento delle esigenze di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (flessibilità orario, aiuto alla famiglia, servizi …) potrà tradursi in aumento di produttività per l’azienda, ma anche di redditività reale per i lavoratori stessi, con un miglioramento certo della qualità della vita. È un percorso ancora, forse, lungo, ma l’attenzione di molti player porta a concludere che è certamente un percorso che val la pena intraprendere.

 

[1] Per effetto del D.M. 122/2017 i buoni pasto, nel valore massimo di 5,29 euro giornalieri o 7,5 euro in caso di buoni in formato elettronico, sono oggi cumulabili fino a un massimo di 8.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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