16 Novembre 2016

Le incertezze applicative delle nuove disposizioni contro il caporalato

di Fabio Pontrandolfi

 

Premessa: il lavoro nella Costituzione e la tutela dallo sfruttamento

Il lavoro cui fa riferimento la Carta costituzionale non può che essere quello dignitoso, quello che consente la realizzazione della persona, come individuo e nella collettività, quello che viene svolto in sicurezza e con la giusta retribuzione, quello regolato dalle tutelanti disposizioni dei contratti collettivi.

Da sempre, lo sfruttamento del lavoro e dei lavoratori ha rappresentato una piaga, sociale prima che giuridica o economica. L’asservimento della persona agli interessi, la negazione di diritti e aspettative nella logica del profitto, la violazione dei più elementari diritti costituzionali e sociali in vista del profitto sono profondamente contrari a una vera logica imprenditoriale, quella libera per Costituzione, ma altrettanto giustamente condizionata al rispetto della dignità dell’uomo.

La L. 199/2016, pubblicata nella G.U. n. 257/2016, che introduce nuove disposizioni contro il c.d. caporalato, mira – nell’intenzione del Legislatore – a garantire una complessiva e maggiore efficacia dell’azione di contrasto, partendo dall’attenzione al versante dell’illecita accumulazione di ricchezza da parte di chi sfrutta i lavoratori all’evidente fine di profitto, in violazione delle più elementari norme poste a presidio della sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché dei diritti fondamentali della persona.

Con il D.L. 138/2011 (convertito dalla L. 148/2011) era già stato introdotto il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (articoli 603-bis e 603-ter c.p.).

 

La L. 199/2016

La nuova normativa modifica sostanzialmente queste disposizioni.

Il primo aspetto da analizzare è l’ambito applicativo della normativa: a dispetto del titolo (Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo) in nessuna parte la norma limita i propri effetti al settore agricolo (né lo faceva la disposizione introdotta nel 2011).

Soggetto attivo è chiunque, tutelati sono i lavoratori indistintamente, né gli indici di sfruttamento né le circostanze aggravanti e attenuanti descrivono l’ambito applicativo della norma (si fa riferimento all’azienda, senza alcuna qualificazione ulteriore).

La condotta punita differisce sostanzialmente da quella presa in considerazione dalla precedente disposizione. In precedenza, oggetto di sanzione era lo svolgimento di un’attività organizzata di intermediazione (intesa come reclutamento di manodopera o organizzazione della relativa attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento), mediante violenza, minaccia o intimidazione e approfittando dello stato di bisogno o di necessità.

Oggi le condotte vietate sono, da un lato, il reclutamento di manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori e, dall’altro, l’utilizzo, assunzione o impiego di manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

Non è più contemplato l’approfittamento dello stato di necessità.

Non sono necessarie, per configurare il reato, la violenza o la minaccia: l’illiceità è nello sfruttamento e nell’approfittamento dello stato di bisogno.

L’uso di violenza e minaccia costituiscono ora semplici aggravanti. L’intimidazione non è più contemplata come elemento costitutivo o aggravante dei due reati.

Perché utilizzo, assunzione o impiego in condizioni di sfruttamento e con approfittamento dello stato di bisogno costituiscano reato non è necessario il previo ricorso all’intermediazione illecita (la norma infatti prevede tale azione come eventuale). In precedenza non era prevista una specifica responsabilizzazione del datore di lavoro, oggi viene invece individuato come chiunque utilizzi, assuma o impieghi manodopera, quindi secondo criteri sia fattuali che giuridici.

La misura sanzionatoria è stata ridotta: dalla reclusione da 5 a 8 anni e multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato alla reclusione da 1 a 6 anni e multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Dovrebbe ritenersi che il riferimento al lavoratore “reclutato” riguardi anche quelli utilizzati, assunti o impiegati, anche se non reclutati attraverso l’intermediazione illecita. Diversamente opinando (ossia se si ritiene che il reato si riferisce al reclutamento e non all’impiego), il datore di lavoro che non abbia fatto ricorso all’intermediazione illecita non sarebbe sanzionabile con la sanzione pecuniaria della multa (e non sarebbero applicabili le aggravanti specifiche).

 

Gli indici dello sfruttamento

Ciò che lascia fortemente perplessi è l’individuazione degli indici di sfruttamento.

Innanzitutto vale evidenziare che il reato sussiste in presenza anche di uno solo degli indici. Una sanzione penale così grave avrebbe forse richiesto la concorrenza di due o più indici.

In precedenza, un indice era la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato. Oggi l’indice è la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato.

La violazione non è dunque più necessariamente sistematica, ma solo reiterata: non essendo indicato un parametro di riferimento, basta la ripetizione per 2 volte dell’inadempimento contrattuale per configurare il reato. Poteva qui essere il caso di fare riferimento a parametri che evidenziassero la gravità della condotta.

Rilevava, poi, la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie. Oggi basta la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie. Vale – oltre alla specifica osservazione relativa all’introduzione espressa dei periodi di riposo (materia che dovrebbe ritenersi ricompresa nella normativa sull’orario di lavoro) – l’analoga osservazione fatta a proposito della retribuzione.

Rilevava, ancora, quale indice di illegalità la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale. Oggi è sufficiente la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro. Ancora una volta, la normativa sulla sicurezza viene correttamente richiamata a valorizzare comportamenti illeciti. Tuttavia, in precedenza occorreva che le violazioni fossero tali da esporre il lavoratore a pericolo. Il venir meno di tale ultima condizione produce l’effetto che qualsiasi violazione (a prescindere dalla sanzione connessa) è di per se sufficiente a fondare gli estremi del reato. Quindi, ad esempio, sono indice dello sfruttamento anche violazioni meramente formali o che comunque non espongono il lavoratore ad alcun pericolo.

A questo proposito, rispetto agli indici ora evidenziati (retribuzione, orario e sicurezza), basta prendere a parametro, ad esempio, la norma relativa alla sospensione dell’attività lavorativa prevista dall’articolo 14, D.Lgs. 81/2008, che ha l’analogo fine di contrastare il fenomeno del lavoro sommerso e irregolare: per sospendere l’attività lavorativa (provvedimento notevolmente meno grave dell’illecito in esame) occorre che il personale ispettivo riscontri l’impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro, nonché in caso di gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. La disposizione definisce sia le violazioni che giustificano l’intervento sanzionatorio sia cosa deve intendersi per reiterazione .

Evidente la sproporzione tra le due fattispecie: occorreva, anche in quest’ipotesi, definire quali sono le violazioni, sostanziali, che indicano non già un mero illecito, ma un inadempimento tale da porre in pericolo la salute e la sicurezza dei lavoratori e il fatto che non fosse casuale, ma ripetuto, tale, cioè, da qualificare l’indole del contravventore.

Inoltre, al di là delle valutazioni nel corso dell’esame parlamentare, si dirà che, se la volontà del Legislatore fosse stata realmente quella di colpire esclusivamente una violazione sistematica delle regole, lo avrebbe dovuto indicare, come era nel testo precedente. L’interpretazione porterà, quindi, a rilevare che la differenza del tenore letterale tra le due norme indica una precisa volontà del Legislatore di escludere quel requisito, cosa che vale anche per l’assenza della limitazione delle violazioni rilevanti a quelle che mettono in pericolo la salute e sicurezza.

Dimostrazione dell’incoerenza sanzionatoria è che l’esposizione a situazioni di grave pericolo costituisca aggravante e non condizione della sussistenza del reato.

 

Le gravi conseguenze del testo di legge

La conseguenza dell’assenza di queste condizioni fa sì che un lavoratore, regolarmente assunto e retribuito, in presenza di una qualsiasi violazione in materia di sicurezza, è da considerarsi in via presuntiva “sfruttato” (se i lavoratori regolarmente assunti sono più di 3, scatta addirittura l’aggravante). Al datore di lavoro non resta che provare l’assenza di approfittamento dello stato di bisogno.

Lo stato di bisogno è caratterizzato dalla mancanza di mezzi diretti a sopperire esigenze primarie. Ai fini dell’integrazione dello stato di bisogno – insegna la Cassazione – non è richiesta una necessità tale da annientare in modo assoluto la libertà di scelta del soggetto passivo, anche se si deve fare pur sempre riferimento a una situazione che limiti la volontà negoziale del medesimo soggetto, il quale si determina a contrarre in condizioni di inferiorità psichica che viziano il suo consenso. Dunque, non la riduzione in schiavitù, ma semplicemente la condizione di chi si induce a contrarre in una situazione di inferiorità psichica tale da alterare il consenso.

È evidente che la mancanza di lavoro, l’esigenza di far fronte ai bisogni propri e della propria famiglia, l’indisponibilità di un alloggio, la necessità di lavorare per avere il permesso di soggiorno, la scarsa conoscenza della lingua e l’assenza di altri mezzi di sostentamento inducono in una situazione di fragilità sociale e culturale e di inferiorità tale da legittimare pressoché sempre l’integrazione di una situazione di bisogno.

 

Gli obiettivi che dovevano essere perseguiti

Occorreva, dunque, chiarire meglio la voluntas legis, orientandola alle situazioni (purtroppo ancora tante) in cui c’è un vero sfruttamento, da ricondurre ai parametri della sistematicità, del carattere delittuoso dell’organizzazione volta a gestire il sistema dello sfruttamento e con indici gravi e reiterati nel tempo, da cumularsi tra di loro.

Poiché lo sfruttamento del lavoro nero e l’intermediazione illecita si muovono prevalentemente nel mondo della criminalità e della delinquenza organizzata, forse – se si fosse ben identificato normativamente il vero fenomeno dello sfruttamento – avrebbe potuto trovare luogo anche l’estensione a questo fenomeno delle diposizioni penali inerenti le criminalità organizzata. Non certo alle attuali condizioni, nelle quali è sufficiente avere alle proprie dipendenze, regolarmente assunto e retribuito, un lavoratore extracomunitario e trovarsi nell’impossibilità, anche per una sola volta, di mettere a disposizione, ad esempio, un bagno chimico.

C’era il modo per fare chiarezza (risulta chiaramente dalla discussione parlamentare e dagli emendamenti presentati), c’era l’alternativa per introdurre disposizioni che colpissero veramente ed efficacemente lo sfruttamento, e anche con sanzioni ben più incisive e gravi. Ad esempio, si pensi allo strumento ispettivo: nulla si dice in materia. Fanno riflettere le indagini sul caporalato, non solo per le storie che fanno venire tristemente alla luce, ma anche perché mettono in luce situazioni di sfruttamento talmente evidenti da non lasciare spazio a fantasie ricostruttive: nelle grandi piantagioni presenti in tutta Italia, ove manchino attrezzature o locali per la raccolta, laddove non trovi spazio la vera attività industriale o agricola, è pressoché automatico ipotizzare la presenza – in precisi periodi del giorno o della notte e dell’anno e ripetutamente di anno in anno – di grandi numeri di lavoratori. Dare strumenti adeguati all’ispezione avrebbe sicuramente costituito un baluardo a favore delle tante imprese in regola (che evidentemente soffrono il dumping dell’illiceità) e contro lo sfruttamento.

Qualche perplessità destano le previsioni inerenti il controllo giudiziario dell’azienda, la rimozione delle condizioni di sfruttamento e l’estensione a questo reato del meccanismo sanzionatorio diretto a punire la persona giuridica (D.Lgs. 231/2001). Non certo per le finalità, ovviamente, ma per gli strumenti prescelti e gli automatismi collegati con i presupposti del reato.

Si prevede, infatti, che, nelle ipotesi in cui si può disporre il sequestro preventivo, il giudice “dispone” (e non “può disporre”) il controllo giudiziario. Questo non sempre, però, ma solamente “quando l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale”.

L’amministratore affianca l’imprenditore nella gestione dell’azienda e autorizza lo svolgimento degli atti di amministrazione utili all’impresa, controlla il rispetto delle norme e delle condizioni lavorative la cui violazione costituisce indice di sfruttamento lavorativo, procede alla regolarizzazione dei lavoratori, adotta adeguate misure anche in difformità da quelle proposte dall’imprenditore o dal gestore.

Sembra emergere, ancora una volta, il contrasto tra realtà differenti, tra le quali il Legislatore non ha voluto o saputo orientarsi: da un lato impianti delinquenziali volti al sistematico e organizzato sfruttamento della manodopera e, dall’altro, situazioni di sostanziale regolarità con presenza di poche violazioni formali e non sistematiche. La nomina dell’amministratore e i poteri/doveri a lui assegnati sembrano incoerenti con entrambe le situazioni: nel primo caso, normalmente si dovrebbe disporre la confisca delle proprietà, e poi, semmai, la gestione per salvare l’occupazione; nel secondo caso, difficilmente l’imprenditore che ha commesso qualche minima violazione non si orienta verso l’immediata regolarizzazione, in luogo della presenza di un amministratore che lo sostituisce. Dunque una norma “spauracchio”, destinata a non operare quasi mai, quindi inutile.

Anche la responsabilità delle persone giuridiche risente di questa criticità: un sistema delittuoso e non imprenditoriale non viene raggiunto dalla misura perché non esiste in realtà un sistema imprenditoriale; una situazione in cui siano presenti piccole violazioni formali non riesce a sopportare il peso della grave sanzione comminata e chiude l’attività. In nessuno dei due casi sembra colto l’obiettivo di prevenire reati della specie di quello introdotto.

 

Gli elementi potenzialmente positivi e le prospettive

La previsione di circostanze attenuanti, così come il sostegno alla rete del lavoro agricolo, le disposizioni per il supporto dei lavoratori che svolgono attività lavorativa stagionale di raccolta dei prodotti agricoli e il sostegno al riallineamento retributivo potrebbero rappresentare in astratto elementi positivi, in vista di una progressiva emersione del lavoro nero e la riduzione (e auspicabile cessazione) del fenomeno del caporalato.

La formula dubitativa è dovuta alla convinzione che la lotta al caporalato – quello vero e non quello genericamente disegnato dal Legislatore nella legge in esame – avrà successo se si incide sulle sacche di inefficienza che favoriscono il deprecabile fenomeno: carenza di servizi credibili di intermediazione lecita nel settore, assenza di servizi di trasporto pubblico nelle aree rurali, lacune nella gestione dell’immigrazione, controlli ispettivi organizzati e dotati di adeguati strumenti, mirati e selettivi.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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