19 Dicembre 2025

Assenza ingiustificata e dimissioni per fatti concludenti: il Tribunale di Ravenna n. 441/2025

di Luca Vannoni Scarica in PDF

Con la sentenza n. 441 dell’11 dicembre 2025, il Tribunale di Ravenna, Sezione Lavoro, ha affrontato una delle prime applicazioni giurisprudenziali dell’art. 26, comma 7-bis, D.Lgs. n. 151/2015, come modificato dall’art. 19, Legge n. 203/2024, chiarendo la portata e i limiti della nuova fattispecie di risoluzione del rapporto di lavoro per assenza ingiustificata protratta.

La controversia trae origine da un rapporto di lavoro iniziato il 1° aprile 2023 e interrotto, secondo la tesi datoriale, per effetto della procedura prevista dal citato comma 7-bis, a seguito di un’assenza ingiustificata del lavoratore protrattasi dal 23 aprile al 6 maggio 2025. Il datore di lavoro, ritenendo integrata la fattispecie normativa, aveva comunicato all’ITL di Ravenna-Ferrara la risoluzione del rapporto per assenza ingiustificata, qualificando l’interruzione come effetto della volontà del lavoratore.

Il lavoratore ha impugnato tale ricostruzione, chiedendo l’accertamento della continuità del rapporto e la reintegrazione, con corresponsione delle retribuzioni maturate dal momento dell’estromissione sino all’effettivo ripristino del rapporto. La causa è stata decisa sulla base di fatti pacifici, senza assunzione di mezzi istruttori.

Il giudice ravennate ricostruisce preliminarmente il quadro normativo di riferimento, evidenziando come l’art. 26, comma 7-bis, introduca una presunzione legale di volontà dimissionaria solo al ricorrere di condizioni rigorose. In particolare, la norma prevede che, in caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal CCNL applicato al rapporto, ovvero, in mancanza di previsione contrattuale, oltre 15 giorni, il datore di lavoro possa darne comunicazione all’INL, con conseguente risoluzione del rapporto per volontà del lavoratore.

Secondo il Tribunale, la disposizione non può essere interpretata come una presunzione assoluta e automatica di dimissioni, fondata su qualsiasi comportamento di assenza, né come una scorciatoia alternativa alla procedura disciplinare. La sentenza sottolinea che il legislatore del 2024 ha inteso individuare un termine minimo di assenza idoneo a fungere da presupposto fattuale per una presunzione legale, ma non ha attribuito rilievo dirimente ai termini ordinariamente previsti dai contratti collettivi per l’attivazione del licenziamento disciplinare.

In tale prospettiva, il giudice chiarisce che i termini contrattuali generalmente utilizzati per procedere alla contestazione disciplinare risultano, di regola, troppo brevi per fondare una presunzione legale di volontà dimissionaria. Ne consegue che, ai fini dell’applicazione dell’art. 26, comma 7-bis, assumono rilievo solo eventuali termini ad hoc previsti dalla contrattazione collettiva, espressamente calibrati sulla nuova fattispecie, ovvero, in assenza, il termine legale di 15 giorni.

La sentenza opera, quindi, una distinzione netta tra l’illecito disciplinare dell’assenza ingiustificata e la manifestazione di una volontà di dimettersi desumibile dal comportamento concludente del lavoratore. Secondo il Tribunale, si tratta di concetti giuridicamente diversi, che non possono essere sovrapposti senza violare i principi di ragionevolezza e di tutela della volontà negoziale del lavoratore.

Nel caso di specie, l’assenza protrattasi per 4 giorni consecutivi oltre il termine contrattuale non è stata ritenuta idonea a integrare una volontà dimissionaria certa, univoca e irreversibile. Il giudice evidenzia come una simile interpretazione condurrebbe a una presunzione iuris et de iure, fondata su un dato temporale insufficiente, con il rischio di trasformare un comportamento disciplinarmente rilevante in una risoluzione automatica del rapporto imputabile al lavoratore.

La decisione esclude, inoltre, l’applicabilità della disciplina sui licenziamenti, osservando che il datore di lavoro non ha manifestato la volontà di procedere a un recesso datoriale, ma ha attivato una procedura risolutiva fondata sull’altrui recesso. Da ciò discende l’inapplicabilità delle tutele proprie del licenziamento e, al contempo, l’impossibilità di qualificare la fattispecie come risoluzione consensuale o dimissioni valide.

Accertata l’insussistenza dei presupposti per l’operatività dell’art. 26, comma 7-bis, il Tribunale dichiara la permanenza del rapporto di lavoro, con conseguente condanna del datore alla corresponsione delle retribuzioni maturate nel periodo di illegittima interruzione, quantificate in 2.389,93 euro mensili, comprensive dei ratei di 13ª e 14ª mensilità, con esclusione del TFR, trattandosi di rapporto mai cessato. Le spese di lite sono poste a carico della parte datoriale.

La pronuncia si colloca nel solco di un’interpretazione restrittiva della nuova fattispecie normativa, valorizzando l’esigenza di evitare automatismi risolutivi fondati su presunzioni non sorrette da elementi oggettivamente idonei a dimostrare una volontà dimissionaria del lavoratore. La sentenza fornisce così indicazioni rilevanti sul corretto coordinamento tra disciplina delle dimissioni per fatti concludenti, procedimento disciplinare e nuovo meccanismo introdotto dal legislatore nel 2024.

Effetti giuslavoristici nelle operazioni straordinarie