9 Luglio 2025

Il licenziamento del dipendente responsabile di molestie sessuali sul luogo di lavoro

di Giulia Ponzo Scarica in PDF

La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 150/2025, ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato a un dipendente responsabile di una condotta configuratasi quali molestie sessuali nei confronti di una collega. Tra gli argomenti affrontati dai giudici di merito vi è quello attinente alla credibilità della testimonianza resa dalla dipendente vittima delle condotte moleste, la quale non può essere destituita di credibilità in ragione del comportamento tenuto dopo l’evento, dovendo, invero, il giudice operare una valutazione complessiva sia alla luce delle altre testimonianze rese nel corso del giudizio sia delle eventuali ragioni che potrebbero aver spinto la vittima a denunciare (falsamente) il collega.

 

Le molestie sessuali nel contesto lavorativo: riferimenti normativi

La Corte d’Appello di Torino ha affrontato un tema sovente che attiene all’ipotesi di licenziamento quale conseguenza di una condotta molesta a sfondo sessuale perpetrata da un dipendente nei confronti di una collega.

Prima di esaminare le argomentazioni affrontate dai giudici di merito, che, come si vedrà nel successivo paragrafo, hanno anche esaminato i criteri di attendibilità dei testi in modo particolare della persona offesa della condotta tenuta dal dipendente, occorre ripercorrere brevemente la normativa che è stata introdotta sul tema, sia a livello nazionale sia comunitario.

Un primo intervento normativo è rinvenibile nella Direttiva 2002/73/CEE[1] che, in tema di discriminazione, diretta e indiretta, per motivi legati al genere, ha introdotto la nozione di “molestie sessuali” definite quali «situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo»[2].

Tale nozione è rinvenibile nel nostro ordinamento interno nel D.Lgs. n. 198/2006, ossia nel Codice delle pari opportunità, che all’art. 26[3], richiamando la medesima nozione di cui sopra, considera le molestie sessuali quali condotte discriminatorie.

Osservando la definizione offerta la Legislatore è quindi possibile richiamare gli elementi essenziali della fattispecie:

  1. la condotta può essere attuata non solo in forma fisica ma anche verbale e non verbale, ciò che rileva è che sia connaturata da un carattere indesiderato verso chi la riceve, non dovendo necessariamente sfociare in effettive aggressioni fisiche. È, quindi, del tutto irrilevante, ai fini della configurazione della fattispecie, che le condotte tenute facciano temere alla persona offesa che le espressioni verbali potrebbero sfociare in effettive aggressioni fisiche;
  2. ciò che rileva è quindi l’oggettività del comportamento tenuto e l’effetto prodotto[4]. Le molestie sessuali sono considerate tali, infatti, già al raggiungimento dell’effetto, quale violazione della dignità della persona, creando un clima degradante, umiliante e offensivo nei suoi confronti[5];
  3. un altro elemento che, invece, esula dalla valutazione è quella che attiene alla sfera soggettiva dell’agente, in altre parole non ha alcuna rilevanza l’intento del molestatore di voler coscientemente tenere un comportamento indesiderato.

Occorre infatti rilevare come la tutela antidiscriminatoria in generale, e quindi anche per ciò che attiene le molestie sessuali, poggi su una valutazione oggettiva della condotta e sull’effetto che questa ha avuto sul soggetto leso – le cui valutazioni sono rimesse ai giudici di merito – senza che a ciò possa rilevare, e quindi neanche minimizzare, le reali intenzioni dell’agente[6].

L’ampio tema di violenze e molestie sul lavoro è stato peraltro affrontato dalla Conferenza del centenario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) che nel 2019 ha approvato la “Convenzione sulla violenza e sulle molestie nel mondo del lavoro”[7] che, nel definire le violenza e le molestie quali «pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere», afferma che tali condotte possono definirsi di “genere” se attuate nei confronti di persone in ragione del loro sesso o genere, o che colpiscono in modo sproporzionato persone di un sesso[8].

La nozione di “molestie sul lavoro” ricomprende, quindi, tutti quei comportamenti indesiderati posti in essere per ragioni connesse anche al sesso e aventi lo scopo, o comunque l’effetto, di violare la dignità di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, degradante o offensivo; diversamente quella di “molestie sessuali” attiene sempre a comportamenti indesiderati a connotazione strettamente sessuale, come sopra detto, sia espressi in forma fisica sia verbale, attuati con lo scopo, o comunque l’effetto, di violare la dignità di una persona[9].

La Convenzione ha anche offerto un’importante previsione normativa in ordine alla “connessione” del compimento dell’attività (sessualmente) molesta nel contesto lavorativo. In particolare, l’art. 3 della Convenzione prevede che la stessa trovi applicazione qualora le molestie si verifichino «in occasione di lavoro», «in connessione con il lavoro» o che comunque «scaturiscano dal lavoro» , fornendo poi un utile elenco a tal fine: sicché devono considerarsi molestie sessuali attuate in costanza del rapporto di lavoro quelle tenute non solo sul posto di lavoro, ma anche ove il lavoratore riceve la retribuzione, ove effettua la pausa pranzo, durante gli spostamenti per recarsi e per tornare dal lavoro, ma anche durante eventi correlati con il lavoro (come, ad esempio, una festa aziendale).

La predetta Convenzione, ratificata dall’Italia il 29 ottobre 2021, prevede un obbligo in capo agli Stati membri di adottare interventi finalizzati a promuovere, rispettare e attuare i principi e le tutele antidiscriminatorie e di parità sul lavoro ed è stata adottata al fine di coadiuvarli e guidarli nell’applicare correttamente gli obblighi ivi previsti.

Per agevolare la corretta applicazione della Convenzione questa è stata accompagnata dalla raccomandazione n. 206 che, pur non avendo contenuto vincolante, invita gli Stati ad adottare strumenti volti a valutare il rischio in materia di violenze e molestie (anche sessuali) nel contesto lavorativo e a migliorare le misure in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro.

Collegati a tale aspetto sono nel nostro ordinamento gli obblighi gravanti sul datore di lavoro di cui all’art. 2087, c.c.[10], norma rubricata “Tutela delle condizioni di lavoro”, che impone all’imprenditore di adottare tutti i provvedimenti utili a salvaguardare l’integrità fisica e morale dei propri dipendenti, quindi anche nei confronti di quelli che subiscono molestie sessuali nel luogo di lavoro, oltre che alla previsione di cui all’art. 2049, c.c.[11], secondo cui i datori di lavoro sono parimenti responsabili per i danni derivanti da fatti illeciti compiuti dai loro dipendenti.

È anche sotto tale profilo di responsabilità del datore di lavoro nei confronti del dipendente vittima di molestie sessuali che deve essere vagliato lo studio della fattispecie del licenziamento per giusta causa nei confronti del lavoratore resosi responsabile delle predette condotte illecite.

 

La giusta causa di licenziamento del dipendente responsabile di molestie sessuali nel luogo di lavoro e l’attendibilità della testimonianza della persona offesa

Richiamata la normativa sul tema, è quindi più agevole comprendere le argomentazioni spese e la conclusione cui è pervenuta la Corte d’Appello di Torino nella sentenza in commento.

La fattispecie sottesa al vaglio dei giudici di merito originava da una contestazione disciplinare, cui seguiva il provvedimento di licenziamento per giusta causa, per avere il dipendente tenuto una condotta configuratasi quale gravissima molestia fisica nei confronti di una collega durante il turno di lavoro, avendola baciata contro la sua volontà e avendo formulato frasi che l’avevano posta di una grave condizione di disagio.

Il giudizio innanzi alla Corte d’Appello veniva incardinato dalla datrice di lavoro che impugnava la sentenza di I grado che aveva ritenuto non provata la giusta causa disciplinare di recesso. Uno dei profili d’impugnazione atteneva proprio alla valutazione circa l’attendibilità delle testimonianze rese nel corso del primo giudizio su cui i giudici di II grado hanno soffermato la loro valutazione, al fine di «porre in esclusivo risalto e di meglio mettere a fuoco l’episodio indubbiamente più serio e più grave, quello, ossia, delle molestie a sfondo sessuale».

L’episodio oggetto di contestazione e poi motivo di licenziamento, era stato, invero, nel corso del giudizio di I grado confermato dalla testimonianza resa proprio della vittima delle molestie subite, collega del dipendente licenziato, ed è proprio con riferimento a tale attendibilità che la Corte d’Appello ha affermato che nel processo civile, a differenza di quello penale, la testimonianza della persona offesa è di per sé sufficiente a provare dell’accadimento storico del fatto.

Proprio con riferimento a tale aspetto la giurisprudenza di legittimità è unanime nel ritenere che, nell’ipotesi di licenziamento del dipendente per aver compiuto molestie sessuali in danno di una collega, «non sussiste incapacità della vittima ancorché a carico di essa possa profilarsi, in relazione all’episodio posto a base del recesso del datore di lavoro»[12] e ciò anche qualora alla persona offesa sia imputabile un illecito penale, ad esempio poiché querelata per calunnia proprio da parte del dipendente accusato di molestie.

Ciò che rileva, ai fini dell’attendibilità della testimonianza sino a essere considerata da sola come fonte di prova, è che, all’esito della valutazione sottesa al giudice competente, risulti essere oggettivamente credibile – ossia precisa e completa – e soggettivamente credibile – in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti, a un eventuale interesse all’esito della lite[13].

Del resto, è sul giudice di merito investito della causa che incombe il compito di valutare l’attendibilità dei testi e la loro credibilità, rinvenendo le dichiarazioni più idonee a sorreggere la motivazione, senza dover necessariamente discutere di ogni singolo elemento o confutare tutte le deduzioni difensive, dovendosi ritenere implicitamente disattesi eventuali rilievi o circostanze logicamente incompatibili con la decisione adottata[14].

Sotto tale profilo un passaggio particolarmente delicato, ma di indubbia rilevanza, attiene alle motivazioni spese dal primo giudice in ordine all’inattendibilità delle dichiarazioni dei fatti rese dalla dipendente che affermava di aver subito molestie; il Tribunale di I grado, infatti, aveva ritenuto che la condotta tenuta dalla dipendente dopo gli eventi, ossia non l’aver chiesto aiuto al personale di sorveglianza, l’essere rimasta sola qualche minuto con il collega ritenuto molestatore, o ancora, l’aver tenuto un comportamento «omissivo e quasi rassegnato», propendeva per la poca credibilità nella narrazione della condotta di molestie sessuali subita.

Di contro, invece, la sentenza in commento, criticando tali conclusioni del Tribunale, ha affermato che il comportamento di una vittima di molestie sessuali tenuta dopo il loro accadimento non può ripercuotersi sulla veridicità dell’evento; diversamente, infatti, le persone interessate subirebbero il pregiudizio di non essere credute. In altre parole, precisa la sentenza in commento, l’atteggiamento tenuto dalla persona offesa dopo l’evento «non interferisce di per sé con la verosimiglianza del fatto che lo precede», poiché ci sono molteplici ragioni che avrebbero potuto spingere la persona interessata a non denunciare immediatamente il fatto o a non agire come «comunemente» ci si aspetterebbe. Di contro occorre, invero, interrogarsi nel senso opposto, ossia chiedersi per quale ragione la persona che afferma di aver subito molestie sessuali dovrebbe accusare (nel caso di specie) un collega sapendolo innocente.

Avendo quindi ritenuto attendibile, poiché oggettivamente e soggettivamente credibile, la testimonianza resa dalla dipendente offesa dalle condotte tenute dal collega, la Corte d’Appello di Torino è passata a esaminare il profilo di legittimità del licenziamento irrogato.

I giudici di merito richiamano in primo luogo la nozione offerta dall’art. 26, comma 2, D.Lgs. n. 198/2006, di molestie sessuali[15], ritendo che la condotta del dipendente che aveva baciato la sua collega contro la sua volontà integrasse la fattispecie prevista dalla norma, e hanno poi concluso che tale condotta leda il rapporto fiduciario con il datore di lavoro.

E, infatti, nel momento in cui il datore di lavoro viene a conoscenza della obiettiva condotta tenuta da un dipendente, condotta connotata dall’elemento dell’offensività data dalla volgarità dei gesti tenuti, contrari peraltro alle basilari norme della civile convivenza e dell’educazione[16], ciò è sufficiente a minare inesorabilmente il vincolo fiduciario tra le parti tanto da impedirne la prosecuzione del rapporto contrattuale[17].

Del resto, il dipendente non solo deve astenersi dal compiere quelle condotte espressamente vietate, ma anche quelle che, in ragione della loro natura e delle conseguenze che potrebbero comportare, contrastano con l’obbligo di inserimento nel contesto aziendale e nell’organizzazione dell’impresa[18], ciò in applicazione dei più ampi principi di correttezza e buona fede[19].

La giurisprudenza, in una fattispecie analoga a quella vagliata dalla Corte d’Appello di Torino, ha affermato che la condotta tenuta dal dipendente che si è reso responsabile di molestie sessuali nei confronti di una collega ha certamente leso il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, avendo violato l’obbligo di diligenza, ex art. 2104, c.c., che ricomprende anche il rispetto degli altri prestatori di lavoro, ciò anche al fine di concorrere al mantenimento di un ambiente di lavoro sereno in cui tutti possano sentirsi a proprio agio[20].

Pertanto, per valutare la giusta causa del licenziamento occorre valutare l’oggettiva condotta sessuale tenuta dal dipendente, fisica o verbale, indesiderata per il collega destinatario e tale da ledere la sua dignità[21], e anche tenendo conto degli obblighi gravanti sul datore di lavoro.

E, infatti, in forza della previsione di cui all’art. 2087, c.c., il datore di lavoro deve adottare tutti i provvedimenti necessari per tutelare l’integrità fisica e mentale dei dipendenti, e, più in particolare, in forza dell’art. 26, comma 2, D.Lgs. n. 198/2006, è parimenti obbligato a prevenire il fenomeno delle molestie sessuali, tanto che, qualora ometta di intervenire di fronte a episodi che siano atti a ledere la dignità di un lavoratore (come appunto le molestie sessuali), lo stesso è chiamato a rispondere del risarcimento del danno eventualmente patito in forza della violazione degli obblighi di cui al predetto art. 2087, c.c.[22]. Peraltro, nel valutare se il provvedimento espulsivo attuato dal datore di lavoro sia legittimo, sotto il profilo della proporzione rispetto alla condotta tenuta dal dipendente, il giudice deve operare una valutazione anche in ordine agli altri provvedimenti che il datore avrebbe potuto adottare, ossia deve interrogarsi sul “disvalore ambientale” che la sanzione potrebbe avere qualora possa fungere da modello diseducativo e disincentivante dal rispetto degli obblighi gravanti su tutti i dipendenti. Sul punto può considerarsi proporzionata la sanzione del licenziamento di un dipendente colpevole di molestie sessuali poiché se tale condotta fosse punita con una sanzione più lieve potrebbe costituire un precedente avendo un effetto diseducativo.

Sotto il profilo dell’onere probatorio, essendo la giusta causa ricollocabile al licenziamento disciplinare, l’onere di provare la condotta contestata dal dipendente ricade sul datore di lavoro[23]. È vero, infatti, che la fattispecie delle molestie sessuali è, sotto alcuni aspetti, equiparata a quella discriminatoria[24], ma ciò non con riferimento all’onere probatorio che solo per le condotte connotate da discriminazione soggiace a un onere c.d. attenuato[25]. Pertanto, nell’ipotesi in cui una lavoratrice denunci di aver subito sul posto di lavoro una discriminazione sotto forma di molestie sessuali potrà limitarsi a fornire elementi indiziari che complessivamente valutati possano far presumere la discriminazione patita, ricadendo poi sul datore l’onere della prova contraria[26]; diversamente, come nel caso affrontato dalla sentenza in commento, se l’oggetto dell’accertamento attiene al licenziamento per giustificato motivo, si applica il generale principio dell’onere probatorio che incombe appunto in capo alla parte datoriale che deve provare le condotte imputate al dipendente.

[1] La Direttiva 2002/73/CEE modificava la Direttiva 76/207/CEE relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.
[2] Art. 2, comma 2, Direttiva 2002/73/CEE.
[3] Si veda in comma 2, art. 26, D.Lgs. n. 198/2006.
[4] Trib. Roma n. 791/2024 e Cass., sent. n. 23295/2023.
[5] Corte d’Appello Firenze n. 21/2020.
[6] Ibidem.
[7] Conv. OIL n. 190/2019.
[8] Art. 1 della Convenzione.
[9] Trib. Roma n. 791/2024.
[10] Art. 2087, c.c.: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
[11] Art. 2049, c.c.: «I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».
[12] Cass. n. 1341/1993; sul punto si ricorda che la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 246, c.p.c., in relazione all’art. 384, comma 2, c.p.c., nella parte in cui non prevede l’incapacità a deporre nel giudizio di chi è imputato di un fatto/reato su circostanze relative o connesse al medesimo fatto (cfr. Corte costituzionale n. 85/1983).
[13] Cass. n. 20272/2009.
[14] Cass. n. 21412/2006.
[15] Si veda il precedente paragrafo sul punto.
[16] Cass. n. 27363/2023.
[17] Corte d’Appello Torino n. 150/2025.
[18] Trib. Roma n. 791/2024, Cass. n. 144/2015 e n. 2550/2015.
[19] Ex artt. 1175 e 1375, c.c.
[20] Trib. Roma n. 490/2024.
[21] Da un punto di vista strettamente processuale, l’accertamento dell’effettiva sussistenza degli elementi di fatto è demandato al giudice di merito, mentre è censurabile in sede di legittimità l’errata applicazione dell’art. 2119, c.c. (cfr. Cass., sent. n. 31790/2023).
[22] Trib. Roma n. 490/2024 e Cass. n. 20272/2009.
[23] Corte d’Appello Firenze n. 21/2020.
[24] L’equiparazione tra discriminazione di genere e molestie sessuali è rinvenibile sia nell’art. 26, comma 2, D.Lgs. n. 198/2006, oltre che dall’art. 2, comma 3, Direttiva 2000/73/CE (cfr. Cass. n. 23286/2016).
[25] Cass. n. 23286/2016.
[26] Corte d’Appello Firenze n. 21/2020. Sul punto i giudici di legittimità hanno affermato che, con riferimento alle molestie sessuali ai danni di lavoratrici donne, il tertium negativo (ossia, il trattamento differenziale) esiste ma è costituito da un trattamento differenziale negativo – quale il non avere i lavoratori uomini patito molestie sessuali – che ha una valenza presuntiva minore (cfr. Cass. n. 23286/2016).

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro”.

Diritto del lavoro