13 Luglio 2023

L’indeterminatezza dei contratti a termine

di Evangelista Basile Scarica in PDF

Lo scorso 3 luglio 2023 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge n. 85 di conversione del D.L. 48/2023, il cd. “Decreto Lavoro”.

Oltre all’introduzione dell’assegno di inclusione, restyling del vecchio reddito di cittadinanza e l’introduzione o conferma di alcuni incentivi in tema di assunzioni, lavoratori svantaggiati e welfare, il decreto si è occupato – come è ormai consuetudine ad ogni cambio governo – della disciplina dei contratti a tempo determinato.

Si badi, non che non ce ne fosse ancora bisogno, visto il ritorno alle vecchie causali ad opera del Decreto Dignità che, fra le altre cose, aveva ricondotto il dibattito ai vecchi temi di discussione su cosa le causali effettivamente significassero e come avrebbero dovuto (o potuto) superare il vaglio dei Tribunali.

Il Decreto Lavoro si pone l’obiettivo (spoiler: non raggiunto) di “razionalizzare” le causali – così il sito del Ministero –.

Ma partiamo innanzitutto da quello che non cambia: la acausalità fino a dodici mesi; la durata massima di 24 mesi presso lo stesso datore di lavoro; proroghe ammesse per 4 volte nei 24 mesi.

Cambiano invece le causali, che si riducono ad una delega quasi “in bianco” alla contrattazione collettiva (il richiamo è sempre all’art. 51 del D.Lgs. 81/2015) e ai motivi sostitutivi. Rimane poi una causale “provvisoria” entro il 30 aprile 2024, che richiama le vecchie esigenze di natura organizzativa e produttiva che sembrerebbero poter essere stabilite non solo dalla contrattazione aziendale ma anche da quella individuale. Questa previsione è ovviamente quella più insidiosa, perché innanzitutto le causali vanno sempre declinate in concreto, devono avere effettivo carattere temporaneo e rispondere alla reale esigenza indicata non potendosi concretizzare in mera riproposizione della norma (anche collettiva), il che potrebbe condurre – seppure solo per un periodo di tempo limitato – a causali facilmente impugnabili per eccessiva genericità o per mancata rappresentatività dei sottoscrittori del contratto collettivo (che in questo caso non richiama l’art. 51 cit.).

Dopo le modifiche al Senato, inoltre, a partire dall’entrata in vigore della Legge, anche i rinnovi, e non solo le proroghe, saranno senza causali fino a 12 mesi.

Sul punto, peraltro, la nuova legge non è affatto chiara e c’è chi sostiene che si tratti di un vero e proprio azzeramento dei contatori per i “nuovi” contratti, posto che l’art. 24, al comma 1ter, stabilisce: “Ai fini del computo del termine di dodici mesi previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, del decreto legislativo n. 81 del 2015, come modificati dai commi 1 e 1-bis del presente articolo, si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Ma cosa si intende per “contratto stipulato”?

La locuzione non può, infatti, ricondursi ai soli primi contratti tra le parti ma strizza evidentemente l’occhio anche all’annosa differenza fra “proroga” e “rinnovo” che lungi da essere ormai solo un esercizio intellettuale è da anni divenuta fondamentale per interpretare la disciplina dei contratti a tempo determinato. Il rinnovo è senz’altro un nuovo contratto per definizione e, fermo lo stop and go, comunque confermato nella nuova disciplina, per questi vi sarebbe quindi azzeramento del contatore e si ripartirebbe con il computo dei 12 mesi.

C’è da dire poi che anche la proroga è potenzialmente “un contratto stipulato”, sebbene si tratti però di mero accordo di prosecuzione del vecchio contratto senza soluzione di continuità. Tale interpretazione però sembra un po’ azzardata e almeno in attesa di chiarimenti da parte del Ministero sarebbe prudenziale non azzerare anche le proroghe.

Insomma, come direbbe Nanni Moretti, anche questa volta “le parole sono importanti” e spesso il Legislatore se ne dimentica.

Il Consulente del Lavoro 4.0