15 Aprile 2020

Socio lavoratore di cooperativa: regime sanzionatorio per il licenziamento illegittimo

di Francesco Natalini

La sentenza della Corte di Cassazione n. 707/2020 interviene per rimediare a uno “svarione” della Corte d’Appello di Bologna, che, decidendo sul regime sanzionatorio da applicare ad un caso di illegittimità di un licenziamento (con contestuale esclusione) di una lavoratrice socia di cooperativa, aveva applicato quello previsto dal “vecchio” comma 4 dell’articolo 18, L. 300/1970, nel testo ante Legge Fornero, anziché quello post riforma, il quale prevede che il risarcimento, per la parte retributiva da riconoscere medio tempore al lavoratore illegittimamente licenziato, non possa comunque superare le 12 mensilità.

 

Premessa

Il caso sottoposto all’attenzione della Corte di Cassazione, che è poi sfociato nella sentenza n. 707/2020 – oggetto del presente commento – è quello di una socia lavoratrice di cooperativa sociale, licenziata per motivi disciplinari, e, contestualmente, anche esclusa ex articolo 2533, cod. civ., dalla compagine sociale.

Fermo restando che in primo grado il giudice del lavoro aveva parzialmente accolto il ricorso della cooperativa, in appello la Corte territoriale di Bologna aveva, invece, riformato la sentenza, disponendo per l’illegittimità del recesso, nonché, conseguentemente, anche del provvedimento di esclusione (in quanto fondato sulle stesse ragioni del licenziamento), condannando la società al risarcimento nei confronti della stessa socia-lavoratrice determinato in base al disposto dell’articolo 18, comma 4, St. Lav..

Il regime sanzionatorio, discendente dal citato comma 4, individuato, o, per meglio dire, applicato dalla Corte d’Appello non è stato, però, quello ivi previsto all’epoca del licenziamento (che è poi lo stesso attualmente in vigore), bensì quello previgente rispetto alla L. 92/2012 (c.d. Legge Fornero), riformatrice della disposizione statutaria.

Come si ricorderà, la versione ante Legge Fornero del comma 4 (dell’articolo 18), disponeva, per tutti i casi di licenziamento illegittimo disposti da datori di lavoro rientranti nei limiti di applicabilità della c.d. tutela reale, il pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, sicché applicando (erroneamente, secondo la Suprema Corte) tale previsione al caso di specie, la Corte d’Appello ha condannato la cooperativa al pagamento di 33 mensilità complessive, a cui si è aggiunta anche l’indennità sostitutiva della reintegrazione, pari a ulteriori 15 mensilità, visto che (come spesso avviene, quando il predetto lasso temporale assume una certa rilevanza) la lavoratrice non aveva manifestato interesse a rientrare sul posto di lavoro.

Ma, come si diceva, la riforma introdotta dalla L. 92/2012 è intervenuta in modo significativo sull’articolo 18, L. 300/1970, di talché il vecchio regime sanzionatorio, cioè quello che prevedeva, in caso di recesso illegittimo (per qualsiasi motivazione: formale o sostanziale che fosse), la ricostruzione integrale della retribuzione maturata nel periodo intermedio (regime definito anche con la locuzione di “tutela reintegratoria forte”), oggi si applica solo ai casi di licenziamenti nulli, discriminatori, ovvero determinati da motivo illecito ex articolo 1345, cod. civ., ivi compresi quelli “ritorsivi” (articolo 18, commi 1 e 2).

Per tutti gli altri casi di illegittimità “sostanziale”, caratterizzati dalla mancanza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, generati da:

  1. insussistenza del fatto materiale posto a base del provvedimento;
  2. ovvero da sproporzione, tra infrazione e sanzione (espulsiva);

il regime attualmente applicabile è quello che viene definito di “tutela reintegratoria attenuata”, atteso che l’indennità da riconoscere al dipendente nel periodo medio tempore (cioè tra la data di licenziamento e quella della reintegrazione) non può essere superiore a 12 mensilità, fermo restando, invece, l’integrale ricostruzione del periodo intermedio sotto il profilo contributivo (che non risente di limitazioni).

È appena il caso di ricordare che lo stesso regime (tutela reintegratoria attenuata) si applica, per i licenziamenti non disciplinari, anche a quelli in cui viene accertata:

  • la manifesta insussistenza del fatto posto a base di un licenziamento “economico”, ex articolo 3, L. 604/1966;
  • l’insussistenza della condizione di inidoneità psico-fisica alla mansione;
  • l’errato calcolo del periodo di comporto;
  • l’errata valutazione di criteri di scelta per i licenziamenti collettivi ex articoli 4 e 24, L. 223/1991.

Con le ipotesi sopra richiamate si esaurisce l’ambito della tutela reintegratoria (forte o attenuata che sia) e inizia il regime delle tutele meramente indennitarie (senza cioè diritto alla reintegrazione), anche in questo caso distinguendosi tra “tutela indennitaria forte” (da 12 a 24 mensilità), in ipotesi di licenziamento determinato da “altre cause”, e “attenuata” (da 6 a 12 mensilità) in presenza di meri vizi formali e/o procedurali.

Chi scrive, prescindendo dall’essere o meno d’accordo sulla misura delle indennità, ha condiviso il metodo adottato dal Legislatore della Riforma Fornero, nel momento in cui ha distinto le varie ipotesi di illegittimità, stratificando le rispettive tutele da accordare, ritenendo che, ad esempio, una mera violazione formale/procedurale commessa nella gestione del licenziamento (in un’ipotesi in cui non si metta in dubbio la sussistenza della giusta causa e/o del giustificato motivo) non meritasse la tutela “piena”, da riconoscere, invece, ai casi di assenza totale di ragioni giustificatrici, se non addirittura ai licenziamenti generati da intenti discriminatori o, comunque, da motivi illeciti.

È appena il caso di ricordare che le cose sono poi cambiate ulteriormente dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015 (c.d. contratto e tutele crescenti, applicabile a tutti coloro che sono stati assunti dal 7 marzo 2015), nell’ambito del c.d. Jobs Act (norma che, però, non va a incidere direttamente sul testo dell’articolo 18, L. 300/1970, muovendosi invece su un piano parallelo), nel senso che, fermo restando il regime di tutela reintegratoria forte per i medesimi casi sopra ricordati (licenziamenti nulli, discriminatori, per motivo illecito, et.), ha mantenuto la tutela reintegratoria attenuata (cioè con limite massimo di 12 mensilità di retribuzione riconoscibili nel periodo intermedio) solo per i licenziamenti disciplinari in cui il fatto materiale generatore “non sussiste”, escludendolo nei casi di mera “sproporzione” tra fatto e sanzione espulsiva, oltre che per tutti i casi di illegittimità conseguente a licenziamenti di tipo “economico” (cioè per giustificato motivo oggettivo o collettivi).

Sia la riforma dell’articolo 18, introdotta dalla Legge Fornero, che quella introdotta dal c.d. Jobs Act, hanno suscitato molte critiche in dottrina e la stessa giurisprudenza è apparsa oscillante, sia sul concetto di:

  • vizio formale/procedurale” (articolo 18, comma 6): ritenendo, ad esempio, che non configuri un vizio formale la comminazione del licenziamento dopo il termine ultimo assegnato dal Ccnl per l’irrogazione del provvedimento, ritenendo che in tali casi si venga a determinare la condizione di accettazione delle giustificazioni addotte dal lavoratore (Cassazione n. 21569/2018);
  • altre ipotesi” (articolo 18, comma 5): da intendersi ad esempio, per quelli disciplinari, le ipotesi di recesso non tipizzate dalla contrattazione collettiva o dai codici disciplinari, contrarie agli obblighi del rapporto di lavoro, ma in concreto non così gravi da giustificare una sanzione espulsiva (Cassazione n. 13178/2017);
  • sproporzione” (articolo 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015): da non interpretarsi in senso lato, bensì solo quella emergente da un licenziamento comminato per un fatto commesso dal lavoratore, che, comunque, andrebbe a integrare un illecito disciplinare, ancorché espressamente punibile con una mera sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva (Cassazione n. 12174/2019).

 

La relazione: licenziamento-esclusione ed esclusione-estinzione (automatica).

Un accenno va, infine, fatto nei confronti della relazione esistente tra licenziamento ed esclusione del socio e viceversa, contenuto nella L. 142/2001.

Il citato articolo 2, L. 142/2001, stabilisce che “Ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la legge 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell’articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”.

Da una lettura testuale della norma si deduce che se il lavoratore licenziato è stato anche, contestualmente, escluso dalla compagine sociale, non sarebbe possibile applicare la disposizione dello statuto (sempreché, beninteso, la cooperativa integri i limiti dimensionali previsti), sostituita, secondo quanto sostenuto in giurisprudenza, dalla tutela “obbligatoria” ex L. 604/1966.

Al contrario, l’articolo 5, comma 2, L. 142/2001, dispone che se si percorre la strada “inversa”, partendo cioè dall’esclusione ex articolo 2533, cod. civ., si viene a determinare l’estinzione “automatica” del rapporto di lavoro (non potendosi esercitare una diversa opzione). A tal riguardo, però, va ricordato che la giurisprudenza ha interpretato tale disposizione in un modo “sostanziale”, discostandosi dal mero dato letterale, nel senso che se l’esclusione è motivata da ragioni disciplinari conseguenti al rapporto di lavoro, l’estinzione del rapporto si assimila comunque a un licenziamento, con tutte le tutele per esso previste, sicché, a prescindere da quale sia stato il percorso adottato dalla cooperativa per estromettere il socio lavoratore, “nel caso di accertata illegittimità del provvedimento espulsivo del socio – cui consegue automaticamente la cessazione del rapporto di lavoro – che si fondi esclusivamente su ragioni disciplinari trova applicazione, in forza del rinvio operato dall’art. 2 della legge 3 aprile 2001, n. 142, l’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, con ripristino sia del rapporto associativo che di quello lavorativo” (Cassazione n. 1259/2015).

In concreto, la Suprema Corte ha ritenuto applicabile la tutela reale anche nel caso in cui sia stata l’esclusione dalla società a determinare il licenziamento, e non viceversa, attribuendo efficacia dirimente alle ragioni disciplinari poste a fondamento dell’estromissione ed escludendo l’applicazione dell’articolo 18, L. 300/1970, per le ragioni attinenti esclusivamente al rapporto societario.

Va, però, tenuto conto che se è indubbio che da qualunque parte il provvedimento espulsivo sia stato attivato – licenziamento con contestuale esclusione, ovvero esclusione con automatica estinzione – la delibera di esclusione ex articolo 2533, cod. civ., va sempre opposta (giudizialmente) nei termini di 60 giorni, non essendo sufficiente la sola impugnativa del licenziamento (da rendersi sempre entro 60 giorni).

Infatti, sul tema sono intervenute in modo tranchant le SS.UU., con sentenza n. 27436/2017 (a cui si sono conformate alcune pronunce successive), le quali hanno affermato il seguente principio di diritto: “In tema di tutela del socio lavoratore di cooperativa, in caso di impugnazione, da parte del socio, del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria non è inibita dall’omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni, afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria”.

In buona sostanza, qualora per le medesime ragioni afferenti al rapporto lavorativo siano stati contestualmente emanati la delibera di esclusione e il licenziamento, l’omessa impugnativa della delibera non preclude la tutela “risarcitoria” contemplata dall’articolo 8, L. 604/1966, mentre esclude quella “restitutoria” della qualità di lavoratore.

 

La sentenza (cassata) della Corte d’Appello di Bologna

Tornando alla sentenza della Corte territoriale, la quale, come si diceva, ha ritenuto di applicare la tutela “piena”, invocando l’articolo 18, comma 4, nella versione ante Legge Fornero (tutela che oggi è contemplata al comma 2), anziché nella versione attuale, va affermato che trattasi di una decisione oggettivamente errata, che si pone in palese contrasto con le attuali regole che presidiano l’applicazione della disposizione statutaria.

È pur vero che l’articolo 2, L. 142/2001, che ha riformato la figura del socio-lavoratore di cooperativa, in caso di licenziamento senza esclusione (vedi anche infra), cita sic et simpliciter, l’articolo 18, L. 300/1970, ma sarebbe alquanto ardito sostenere che la ratio legis non sia quella di ancorare il rinvio alla citata norma nella sua attuale versione (con le varie declinazioni sopra evidenziate a seconda del tipo di illegittimità accertata riguardo al licenziamento), bensì a quella previgente., essendo evidente, sostiene la Suprema Corte, “che il rinvio operato alla normativa dello statuto dei lavoratori (e, in parte qua, dell’art. 18 cit.) non può essere considerato un rinvio materiale, poichè in caso di modifica della normativa dello statuto dei lavoratori, rispetto a quella vigente all’epoca di entrata in vigore della norma di rinvio (l’art. 2 cit.), ciò introdurrebbe un ingiustificato elemento di disparità di trattamento tra tutti i lavoratori, assoggettati alla disciplina dell’art. 18 di volta in volta ratione temporis applicabile, ed i lavoratori di società cooperative, rispetto a quali si dovrebbe cristallizzare il testo dell’art. 18 vigente nell’anno 2001”.

Quindi, al lavoratore spettavano solamente 12 mensilità di retribuzione, anziché 33 (numero di mesi pari, come si è detto, al tempo intercorso tra la data del licenziamento e quella dell’effettiva reintegrazione), mentre resta integrale la copertura sotto il profilo contributivo.

 

Conclusioni

Restando sulla pronuncia della Cassazione n. 707/2020, oggetto del presente commento, la conclusione che si ricava, al di là del giudicato sul caso di specie, incentrato sulla censura posta nei confronti della Corte territoriale, che ha accordato al lavoratore una tutela eccessiva, oggettivamente contra legem (ovviamente a discapito della cooperativa datrice di lavoro), è che la Suprema Corte ha di fatto declinato un semplice quanto significativo principio di diritto: cioè che se una legge richiama un’altra normativa, il rinvio non può essere di tipo “materiale”, bensì va considerato di tipo “dinamico”, nel momento in cui esso deve conformarsi al testo e alle evoluzioni che la norma richiamata può aver assunto nel corso degli anni a venire.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

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