2 Novembre 2023

È sufficiente l’apposizione di una frase in calce alla lettera di intimazione per impugnare un licenziamento?

di Carlotta Favretto Scarica in PDF

La Cassazione ha ritenuto che la frase apposta in calce alla lettera di licenziamento, con cui il lavoratore aveva affermato di non condividerne la forma né il contenuto, fosse idonea a manifestare regolarmente la volontà di impugnazione del licenziamento medesimo.

 

La fattispecie oggetto dell’ordinanza

La fattispecie oggetto della decisione in commento riguarda un licenziamento intimato da un’azienda sanitaria nei confronti di un proprio dipendente. In particolare, il datore di lavoro valutava il lavoratore inidoneo allo svolgimento delle mansioni del profilo per il quale era stato assunto, ma proficuamente impiegabile in attività a limitato impegno psicofisico. L’azienda, dunque, intimava il licenziamento al dipendente invitandolo, al contempo, a comunicare l’eventuale accettazione di un mutamento del profilo e a precisare le mansioni cui sarebbe stato disponibile.

Il dipendente, alla consegna della missiva contente il provvedimento espulsivo, la sottoscriveva apponendovi in calce la dicitura: “prendo solo per ricevuta visione della lettera non condividendo né la forma né il contenuto”.

Successivamente, il lavoratore ricorreva in giudizio contro l’azienda sanitaria rivendicando l’illegittimità del licenziamento e chiedendo la relativa declaratoria di illegittimità.

Il Tribunale di Imperia, con decisione poi confermata dalla Corte d’Appello di Genova, rigettava la domanda proposta dal ricorrente avendo valutato che la manifestazione di dissenso espressa dal dipendente in calce alla comunicazione di licenziamento non potesse ritenersi espressiva della volontà di impugnarlo e fosse, pertanto, inidonea a tal fine, con conseguente decadenza dall’azione.

Il lavoratore ricorreva dunque in Cassazione affidando l’impugnazione a 2 motivi.

Con il primo motivo denunciava la violazione e falsa applicazione dell’articolo 6, comma 1, L. 604/1966 sostenendo che, ai sensi di legge e in base al principio della libertà della forma degli atti, sia sufficiente – per esprimere la volontà di impugnare un licenziamento – qualsiasi atto scritto che valga a manifestare al datore la volontà di contestare la validità ed efficacia del licenziamento.

Con il secondo motivo, il lavoratore denunciava l’omessa pronuncia della Corte d’Appello in ordine ai motivi di illegittimità del recesso dedotti negli atti del giudizio di secondo grado.

 

I principi di diritto in materia di forma: il licenziamento e l’impugnazione dello stesso

La forma del licenziamento

In deroga al principio generale della libertà di forma del recesso dal contratto, per il recesso dal rapporto di lavoro l’ordinamento italiano impone al datore di lavoro una serie di obblighi di tipo formale-procedurale e sostanziale. Il licenziamento, si prevede, deve essere comunicato per iscritto e la comunicazione deve contenere la specificazione dei relativi motivi. Ciò è prescritto dall’articolo 2, L. 604/1966, come modificata nel 1990 e dalla c.d. Legge Fornero nel 2012.

La normativa, tuttavia, non richiede che si utilizzi una forma rituale fissata (ad esempio, una specifica formula), purché la volontà risulti comunque chiara e univoca (Cassazione n. 12722/2006, n. 13375/2003 e n. 3869/2001).

Il requisito della forma scritta del licenziamento è stato introdotto per rispondere a esigenze di tutela del lavoratore, riconosciute dalla Corte Costituzionale in una nota sentenza del 1986, che ha così avvalorato la tesi della non neutralità delle forme legali, sancendo la funzione fortemente garantista della forma, che si esprime integrandosi con i limiti variamente prefigurati al potere di recesso dell’imprenditore (Corte Costituzionale del 7 luglio 1986). Inoltre, obbligare le parti alla predisposizione di una specifica documentazione vale anche a richiamare l’attenzione delle parti sull’importanza degli atti che intendono compiere e dei relativi effetti, nonché a rendere certa l’esistenza dell’atto e la sua collocazione temporale.

Emerge allora la peculiarità giuslavoristica, tale per cui, nel diritto del lavoro: “al tradizionale binomio forma scritta/certezza dei rapporti si affianca quello, tutto giuslavoristico, minore tutela sostanziale/maggiore tutela formale-procedurale”.

La legge nulla specifica invece in merito alle modalità di comunicazione del licenziamento. Ne è derivato il problema della rilevanza delle forme alternative, utilizzate in sostituzione della specifica dichiarazione indirizzata al dipendente.

La questione è stata affrontata più volte dalla giurisprudenza con esiti vari.

Al proposito essa ha ritenuto che l’atto scritto di licenziamento non potesse essere surrogato dal deposito in giudizio di un atto difensivo, che, sebbene idoneo a evidenziare una persistente volontà di estromissione del lavoratore stesso dall’azienda, non è specificamente diretto al lavoratore (Cassazione n. 6144/1993). In senso analogo, è stato ritenuto che la riconsegna dei documenti di lavoro al lavoratore o l’esibizione di una lettera comprovante la sua conoscenza del licenziamento non valessero a compensare la mancanza della dichiarazione scritta (Tribunale di Napoli 13 dicembre 1989). In altra occasione la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire come non potessero considerarsi equivalenti all’atto di licenziamento neanche atti prodromici o preparatori della definitiva risoluzione del rapporto (Cassazione n. 1757/1999), atti che per loro natura e ratio hanno la funzione di precedere, non di integrare, l’atto finale di licenziamento (Cassazione n. 2835/1997). È inidonea a realizzare la comunicazione, secondo i requisiti di legge, anche la lettura da parte del lavoratore della missiva da recapitare all’ufficio del lavoro contenente la manifestazione di volontà del datore di lavoro di intimare il licenziamento (Cassazione n. 519/1985).

Accanto a tale filone giurisprudenziale, è emersa poi un’altra corrente giurisprudenziale, meno rigida circa il requisito di forma, attributiva di maggiore rilevanza alla conoscenza che il lavoratore abbia comunque avuto del licenziamento, anche per effetto di atti a lui non direttamente destinati.

Secondo tale impostazione, cioè, la certezza della conoscenza del licenziamento da parte del lavoratore, costituirebbe la precipua finalità della normativa e prevarrebbe dunque sulla sussistenza di eventuali vizi formali.

Questa lettura è stata utilizzata per la prima volta nel 1995 dalla Cassazione, quando essa ha stabilito che il licenziamento può essere comunicato anche in una forma indiretta, purché chiara (Cassazione n. 6900/1995). In forza di tale impostazione, la Corte ha ritenuto che: “la liquidazione per iscritto delle spettanze di fine rapporto, quando il rapporto sia stato troncato in fatto, contiene in sé la chiara manifestazione di volontà di risolvere il rapporto medesimo” (Cassazione n. 6900/1995).

Sempre nel solco di tale lettura “ammorbidita”, la giurisprudenza ha ammesso che il requisito formale potesse ritenersi integrato anche nell’ipotesi in cui il datore di lavoro invii al lavoratore la sola comunicazione scritta del preavviso (Cassazione n. 9116/1991) o la copia della comunicazione di licenziamento inoltrata all’ufficio provinciale del lavoro (Cassazione n. 12722/2006).

La dottrina ha tuttavia messo in dubbio la compatibilità di tale seconda corrente interpretativa con le esigenze di tutela del lavoratore e con il requisito della forma scritta, che, secondo i principi generali, non ammetterebbe la possibilità del datore di provare la conoscenza indiretta della volontà e della motivazione del licenziamento.

Altri autori hanno comunque notato che l’orientamento più “flessibile” della giurisprudenza – quello per cui la certezza della conoscenza del licenziamento da parte del lavoratore prevarrebbe sull’eventuale vizio formale del licenziamento – sarebbe funzionale al contenimento dell’incertezza, in quanto la ritenuta insussistenza del licenziamento (per vizio formale) determinerebbe la mancata decorrenza del normale termine di decadenza e impedirebbe, dunque, la definitiva stabilizzazione dei rapporti giuridici anche per molti anni.

La forma del licenziamento, infatti, incide anche sull’impugnazione dello stesso, in quanto la valida costituzione dell’atto di licenziamento determina il momento per la decorrenza del termine di impugnazione.

 

L’impugnazione del licenziamento e la sua forma

Ai sensi dell’articolo 6, L. 604/1966, infatti, il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero, ove non contestuale, dalla comunicazione dei motivi (anch’essa in forma scritta).

Il licenziamento, in particolare, può essere impugnato: “con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso”.

Inoltre, il comma 2 del medesimo articolo prevede che l’impugnazione risulta inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni, dal deposito del ricorso in Tribunale o dalla richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.

La citata normativa configura una fattispecie decadenziale costruita su una serie successiva di oneri di impugnazione strutturalmente concatenati tra loro; si tratta, in sostanza, di un’unica fattispecie impugnatoria a formazione progressiva.

Ossia, come ben espresso dal Tribunale di Modena: “In caso di licenziamento, il lavoratore deve proporre a pena di decadenza l’impugnativa stragiudiziale nei 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento e deve poi proporre, a pena di inefficacia della precedente impugnativa, il ricorso in giudizio entro il più lungo termine di 180 giorni; la violazione del primo rende vano il rispetto del secondo e la mancanza del secondo rende inefficace il primo, sicché́ le vicende dell’uno sono ontologicamente correlate alle vicende dell’altro” (Tribunale di Modena n. 39/2022).

Peraltro, il lavoratore decaduto dall’impugnazione del licenziamento non può neppure esercitare, in un secondo momento, azioni connesse all’illegittimità del recesso: “Se il lavoratore non impugna tempestivamente il licenziamento intimatogli, non può chiedere l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e, conseguentemente, la tutela risarcitoria, né il giudice può accertare l’illegittimità del licenziamento ed accordargli la tutela risarcitoria in quanto l’ordinamento prevede per la risoluzione del rapporto di lavoro una disciplina speciale con un termine breve di decadenza con l’evidente finalità di dare certezza ai rapporti giuridici” (Corte d’Appello di Torino n. 44/2023).

Al proposito va tuttavia considerato che, ove il lavoratore rinunci volontariamente all’impugnazione del licenziamento, ciò non comporta anche la rinuncia a diritti risarcitori futuri. La giurisprudenza ha infatti chiarito che la rinuncia all’impugnazione: “non comporta la rinuncia a diritti risarcitori futuri, non essendovi alcuna certezza, al momento dell’accordo, sulla illegittimità del licenziamento e sulla sussistenza del diritto del lavoratore al risarcimento del danno. Anzi, la sottoscrizione del verbale di conciliazione mira proprio ad evitare l’incertezza del giudizio ed a garantire la definizione della lite preventivamente mediante reciproche concessioni” (Corte d’Appello di Brescia n. 321/2023).

L’impugnazione del licenziamento, in effetti, è rimessa – secondo la concorde giurisprudenza, alla libera volontà delle parti: “il lavoratore può disporre liberamente del diritto di impugnare il licenziamento, facendone oggetto di rinunce o transazioni, che sono sottratte alla disciplina dell’art. 2113 c.c., che considera invalidi e perciò impugnabili i soli atti abdicativi di diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi, posto che il suo interesse alla prosecuzione del rapporto di lavoro rientra nell’area della libera disponibilità, desumibile dalla facoltà di recesso ad nutum di cui il medesimo dispone, dall’ammissibilità di risoluzioni consensuali del contratto di lavoro e dalla possibilità di consolidamento degli effetti di un licenziamento illegittimo per mancanza di una tempestiva impugnazione” (Cassazione n. 22158/2022).

Ma ciò che più rileva, in relazione al caso di specie, è che l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento non è soggetta a formalità: “Ai fini dell’impugnazione extragiudiziale del licenziamento, ai sensi dell’art. 6 della l. 15 luglio 1966 n. 604, è sufficiente ogni atto scritto con cui il lavoratore manifesti al datore di lavoro, con qualsiasi termine, anche non tecnico, e senza formule prestabilite, la volontà di contestare la validità e l’efficacia del provvedimento, essendo in detta manifestazione di volontà implicita la riserva di tutela dei propri diritti davanti all’autorità giudiziaria” (Cassazione n. 7405/1994).

Tale orientamento è tanto costante quanto risalente, già nel 1982, infatti, la Corte di Cassazione chiariva, in merito all’impugnazione, che: “tale manifestazione di volontà (…) può provenire anche da una comunicazione spedita da un legale, ancorché non munito di procura scritta da parte del lavoratore rilasciata prima del compimento dell’atto, in quanto la forma scritta necessaria per l’impugnazione del licenziamento non è prescritta anche per la procura conferita al fine di porre in essere la peculiare impugnazione stragiudiziale in questione, non operando il principio fissato dal combinato disposto degli art. 1324 e 1392 c.c., che si applica agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale e non anche agli atti giuridici in senso stretto tra i quali va ricompresa l’accennata manifestazione di volontà” (Cassazione n. 4750/1982).

Più di recente, in una delle molte occasioni in cui la giurisprudenza si è pronunciata sull’applicazione di tale requisito formale, essa ha ad esempio statuito che l’impugnativa per iscritto del licenziamento può essere realizzata anche mediante telegramma purché l’invio avvenga su mandato e a nome del lavoratore: “l’impugnativa per iscritto del licenziamento, a norma dell’art. 6 l. n. 604 del 1966, può essere realizzata, in base alla disciplina di cui all’art. 2705 c.c., anche mediante telegramma inoltrato tramite l’apposito servizio di dettatura telefonica, sempreché́ l’invio del telegramma, anche se effettuato materialmente da parte di un altro soggetto e da un’utenza telefonica non appartenente al lavoratore, avvenga su mandato e a nome di quest’ultimo, che appaia come autore della dichiarazione; in caso di contestazione in giudizio, l’interessato è onerato della prova di tale incarico, che può essere fornita anche a mezzo di testimoni e per presunzioni)” (Cassazione n. 7451/2023).

Si consideri poi che, secondo la giurisprudenza, anche il licenziamento durante il periodo di prova va impugnato nei modi previsti dall’articolo 6, L. 604/1966: “la risoluzione del rapporto di lavoro durante il periodo di prova è un licenziamento a tutti gli effetti che, come tale, soggiace alle modalità di impugnazione previste dall’art. 32 della l. n. 183 del 2010, che ha modificato l’art. 6 della l. n. 604 del 1966 e che prescrive delle specifiche tempistiche per l’impugnazione del licenziamento” (tribunale di Venezia n. 196/2022).

 

La decisione della Corte di Cassazione

Nella fattispecie oggetto della decisione in commento, la Cassazione non si è discostata dai principi che la precedente giurisprudenza – appena richiamata – aveva già enucleato, dandone specifica attuazione anche nel caso in questione.

La Suprema Corte ha esaminato congiuntamente i motivi di ricorso, giudicandoli strettamente connessi, giungendo ad accoglierli entrambi. In particolare, richiamando i propri precedenti (in particolare Cassazione n. 7405/1994 e n. 4750/1982), i giudici hanno evidenziato che: “ai fini dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento ai sensi dell’art. 6, L. n. 604 del 1966, è sufficiente ogni atto scritto con cui il lavoratore manifesti al datore di lavoro, con qualsiasi termine, anche non tecnico, e senza formule prestabilite, la volontà di contestare la validità e l’efficacia del provvedimento, essendo in detta manifestazione di volontà implicita la riserva di tutela dei propri diritti davanti all’autorità giudiziaria”.

Sulla base di tale considerazione, anche la mera specificazione: “prendo solo per ricevuta visione della lettera non condividendo né la forma né il contenuto” apposta in calce alla lettera di licenziamento vale, secondo la Suprema Corte, quale impugnazione.

La Corte accoglieva dunque il ricorso e cassava la sentenza impugnata rinviando alla Corte d’Appello di Genova, in diversa composizione, per una nuova pronuncia in conformità al principio esposto.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.