7 Maggio 2020

Di processi, sacralità e pandemie: ogni Foro è un’isola

di Evangelista Basile

Con l’articolo 83, D.L. 18/2020, il c.d. Cura Italia, il Governo è intervenuto anche in tema di decadenze e prescrizioni, stabilendo la sospensione del “decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali”. La norma afferma, infatti, che “si intendono pertanto sospesi, per la stessa durata, i termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali. Ove il decorso del termine abbia inizio durante il periodo di sospensione, l’inizio stesso è differito alla fine di detto periodo. Quando il termine è computato a ritroso e ricade in tutto o in parte nel periodo di sospensione, è differita l’udienza o l’attività da cui decorre il termine in modo da consentirne il rispetto”.

Tale periodo di sospensione era previsto fino allo scorso 15 aprile ed è ad oggi previsto fino all’11 maggio p.v. (così il c.d. Decreto Liquidità, D.L. 23/2020) ma, al comma 6 del citato articolo, è stato comunque affermato che fino al 30 giugno 2020 siano i capi degli uffici giudiziari ad adottare le misure organizzative che ritengono maggiormente atte a contrastare il contagio da COVID-19.

Cosa ne è (e cosa ne sarà), dunque, dell’attività giudiziaria? Ebbene, in primo luogo, il Decreto Cura Italia ha previsto l’esclusione di alcune materie dalla sospensione (ad esempio quelle relative ai procedimenti d’urgenza, alle convalide d’arresto, alcune casistiche afferenti il Tribunale per i minorenni). Fermo restando un incomprensibile silenzio del Legislatore sulle cause di lavoro (da sempre, fra l’altro, oggetto di riforme proprio per accelerarne le tempistiche, vista l’importanza degli interessi in ballo), l’idea di fondo è che nelle materie considerate improcrastinabili, la giustizia non possa fermarsi. In realtà, fortunatamente, non si è del tutto fermata neanche nei procedimenti “sospesi”, lasciando ai Presidenti dei vari Tribunali (nonché al singolo giudice) la possibilità di portare avanti le udienze attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici che permettano lo svolgimento delle udienze da remoto o per il tramite di scritti difensivi che sostituiscano la trattazione orale delle cause.

Si sono avuti, quindi, diversi provvedimenti negli scorsi due mesi, si pensi al “Nessun si muova” del Tribunale di Torino (che aveva addirittura caldamente invitato gli avvocati ad astenersi dal deposito degli atti, di modo da non sovraccaricare le Cancellerie scarne di personale) o ai primi provvedimenti della Sezione Lavoro del Tribunale di Milano per la fissazione di udienze online o a trattazione scritta.

Certamente lasciare al singolo giudice la valutazione dell’“urgenza” o meno della causa rischia di creare confusione non solo in capo agli utenti, ma anche agli esperti del settore: ogni Tribunale sta, infatti, implementando le proprie prassi e ogni giudice ne sta attuando una diversa sulla base delle proprie personali valutazioni. Il rischio è, ovviamente, quello di perdersi in nuovi (e confusi, perché stabiliti caso per caso) termini processuali, quali ad esempio il deposito delle “note di trattazione scritta” o la preventive comunicazioni formali dei recapiti telematici dei difensori.

Agli albori della “Fase 2” è del tutto necessario iniziare a riformulare l’organizzazione della giustizia, per trovarci pronti a quella che – in tutta probabilità – rischia di diventare una nuova “normalità” (oltre al fatto che rimane saldo il principio di chiovendiana memoria, per cui la lunghezza del processo non può andare a danno di chi ha ragione). Sarebbe il caso, dunque, che si intervenisse in maniera sistematica e generalizzata, in modo da “riscrivere” il processo telematico e adattarlo al “nuovo mondo”, evitando che ogni Tribunale abbia le proprie regole.

Da più parti, in seguito alle introduzioni di queste norme, si sono sollevati dubbi sulla compatibilità di queste nuove misure ai principi che sorreggono il processo, alla “sacralità” dello stesso e alla presunta messa a repentaglio del principio di oralità.

Forse è il caso che, in una situazione come quella in cui ci troviamo, prevalga, quantomeno temporaneamente, un po’ di sano pragmatismo, per evitare di fermare una giustizia che già aveva degli enormi problemi quanto a celerità. Fermare i Tribunali, infatti, vuol dire in primo luogo danneggiare i cittadini che – a maggior ragione in un momento simile – hanno necessità di tutela dei propri diritti.

Ciò che è poi auspicabile è che, anche a costo di “desacralizzare” appena le aule di giustizia, al termine di questa emergenza, alcune misure possano continuare a esistere al fine di rendere più efficiente il sistema e favorire così la giustizia, nel “senso” più profondo della parola – questo sì – più sacro possibile.

 

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