23 Marzo 2021

Licenziamenti ostaggio di un sillogismo di troppo

di Riccardo Girotto

Il dato è tratto. Siamo al cospetto della stressante proroga di un vincolo ai licenziamenti economici che ha colmato oramai ogni misura, non a causa della sua funzione, piuttosto per l’impossibilità di giustificarne l’estensione e la totale assenza di ipotesi concrete di superamento.

Un blocco che crea assuefazione, tanto da distogliere l’attenzione dal vigore con cui la giurisprudenza sta destrutturando la certezza del diritto sulla gestione degli esodi. Ciò che si può chiedere a una normativa dai riflessi economici e sociali spiccati come quella dei licenziamenti, è la possibilità di poterne prevedere compiutamente le conseguenze, così da poter premiare le organizzazioni virtuose e sopprimere quelle spurie. In Italia non si può certo ambire a un diritto del lavoro governato dalla deep simplicity, ma lo snellimento degli aspetti ove il valore interpretativo è determinante dovrebbe ritenersi sacrosanto, tanto più in un momento storico come questo.

La normativa sui licenziamenti nel nostro Paese ha sempre osteggiato visioni prospettiche, ma ciò che più disturba su questo punto è che l’incertezza caratterizzante la materia è voluta, non incidentale. Che sia fortemente voluta lo si desume dal recente linguaggio della magistratura, oltre che da posizioni sindacali, molto più prevedibili, che in questa emergenza hanno raggiunto forme di forzatura estrema.

Un pregevole passo verso una certezza mai realmente avvicinata era stato iniettato dal combinato L. 92/2012-D.Lgs. 23/2015; a partire dall’inserimento dell’obbligo di motivazione fino alla sanatoria procedurale dei licenziamenti collettivi, dall’ammorbidimento dell’articolo 18, St. Lav., fino alle innominabili tutele crescenti. Prima ancora del possibile apprezzamento delle rivoluzionarie novelle, sono emersi dubbi, arresti e censure da parte di quei giudici che un tempo lamentavano un carico di contenzioso eccessivo, salvo non accettare poi le misure di deflazione per non risultare estromessi dalla contesa.

Da quel momento, una rapida discesa verso il baratro: requisito di anzianità non più dirimente[1], rischio massimo, of course, esteso a 36 mensilità sempre e comunque.

Gli operatori del diritto non hanno nemmeno fatto avuto il tempo di interrogarsi sulla bontà della normativa né di censirne l’efficacia; si è trattato di un lampo, una suggestione. Qualcuno giura di aver visto le tutele crescenti, racconti epici sulla possibilità di prospettare il costo di una riorganizzazione, tutto fumo.

Potrebbe finire qui, ma non finisce qui. Più in fondo al baratro c’è l’ambizione dei Tribunali che puntano all’incertezza come dogma, cavalcando l’estensione della tutela reale (forte) erga omnes, superando “discriminatori” requisiti occupazionali, promuovendo l’assimilazione della manifesta insussistenza economica a quella disciplinare. Il fine unico è ancora la massima incertezza, ogni operazione aziendale in preda solo ed esclusivamente all’alea.

Il blocco dei licenziamenti potrebbe, quindi, sembrare l’unica triste certezza. Eppure, il recente assorbimento del licenziamento dei dirigenti tra le ipotesi di gmo, pur confermando che il licenziamento ad nutum è un istituto di mera funzione accademica, nutre ancor più il mostro del dubbio.

Correva la seconda metà del 1700, Cesare Beccaria sapientemente ammoniva: “Quando il giudice sia costretto, o voglia, fare anche due soli sillogismi, si apre la porta dell’incertezza”[2], facendo eco a Francesco Bacone “ottima è la legge che lascia minimo spazio all’arbitrio del giudice, ottimo quel giudice che lascia il minimo spazio a se stesso”[3]: quanta saggezza sprecata, quanto tempo buttato.

[1] Così da marcare una distanza abissale con l’Europa, tanto che la CGE, nella causa C-652/19, conferma la legittimità delle tutele crescenti di derivazione unionale.
[2] C. Beccaria, “Dei delitti e delle pene”.
[3] Influenza della dottrina baconiana in Verri, in particolare F. Bacone – ediz. 1763 – Augmentis scientiarum VIII, 46, 592.

 

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