16 Marzo 2022

La contribuzione sulle trasferte: le ricadute sulla futura pensione in caso di condotta illegittima

di Antonello OrlandoMatteo Podda

Il particolare profilo contributivo e fiscale riservato alle indennità di trasferta e ai rimborsi delle spese sostenute potrebbe dar luogo a un utilizzo improprio di tali indennità da parte di datori di lavoro per contenere il costo del lavoro, talvolta persino in presenza di illegittime pattuizioni con il dipendente. La condotta illegittima, che porta a un versamento contributivo inferiore nonché a un danno alla casse erariali, comporta anche delle ricadute sul futuro trattamento pensionistico del lavoratore.

Nel contributo si prenderà in analisi la corretta qualificazione ed esposizione sul LUL di tali somme, per poi illustrare gli effetti sul futuro trattamento pensionistico nei casi di errata qualificazione sotto il profilo contributivo.

 

La trasferta: il quadro normativo

Per prima cosa, va ricordato quando sia possibile utilizzare legittimamente l’istituto della trasferta, nel caso di un rapporto di lavoro subordinato. La trasferta consiste, infatti, nella facoltà del datore di lavoro, nell’ambito del potere direttivo, di far eseguire al dipendente una specifica attività in un luogo differente rispetto a quello della sede di lavoro specificata originariamente nel contratto di assunzione (oppure rispetto a un luogo stabilito successivamente all’assunzione e definito come sede lavorativa).

Sul tema, la Corte di Cassazione[1], in tempi recenti, ha ricordato che nel caso in cui la sede di lavoro indicata nel contratto sia un mero riferimento alla sede legale dell’azienda, lo svolgimento dell’attività lavorativa in un altro luogo di lavoro non fa configurare la prestazione come trasferta.

A differenza del trasferimento, regolato dall’articolo 2103, cod. civ. (che prevede la possibilità del datore di lavoro di modificare permanentemente il luogo di lavoro), la trasferta consente al datore la facoltà di modificare temporaneamente il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa: “Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive …”.

Il discrimine tra i 2 istituti è rappresentato, dunque, dalla durata della prestazione lavorativa in un luogo diverso rispetto a quello abituale; la trasferta, a differenza del trasferimento, prevede il rientro del lavoratore nella propria sede di lavoro e, soprattutto, il mantenimento della connessione fra il lavoratore e la sua originaria struttura organizzativa all’interno dell’unità produttiva di riferimento.

La trasferta, non avendo una vera e propria fonte normativa, deve essere sempre svolta secondo le modalità previste dal contratto collettivo nazionale, da quello di secondo livello e dai regolamenti aziendali, con particolare riferimento anche ai connessi trattamenti di rimborso e indennizzo che non hanno un’effettiva disciplina normativa (fatti salvi i benefici fiscali e contributivi accordati entro i limiti previsti dal Tuir).

 

La trasferta, il dipendente trasfertista e il distacco

Dal punto di vista fiscale e contributivo, un dipendente che, per la propria specifica tipologia di lavoro, effettua giornalmente la propria attività lavorativa in sedi diverse non sta svolgendo l’attività in trasferta, ma è definito un lavoratore “trasfertista”.

Il dipendente trasfertista è colui che, ai sensi dell’articolo 7-quinquies, D.L. 193/2016, ha contestualmente le seguenti condizioni:

a) mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro;

b) svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;

c) corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta”.

La particolarità del dipendente trasfertista è quella di ricevere mensilmente una voce fissa di indennità o di maggiorazione retributiva in relazione alla specificità della propria attività. Egli non ha diritto all’applicazione dell’articolo 51, comma 5, Tuir, bensì ha diritto all’applicazione del successivo comma 6, che recita: “Le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti ai lavoratori tenuti per contratto all’espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità … concorrono a formare il reddito nella misura del 50 per cento del loro ammontare”.

Il dipendente trasfertista, pertanto, non può essere qualificato come un dipendente in trasferta proprio per la peculiare natura del suo lavoro e le dazioni in denaro erogate a questa tipologia di lavoratore hanno sempre natura retributiva, fatte salve le maggiorazioni o specifiche indennità che possono concorrere al 50% alla formazione dell’imponibile fiscale e contributivo.

Il distacco, ex articolo 30, D.Lgs. 276/2003, nonostante sia un istituto che prevede lo svolgimento della prestazione lavorativa in luogo differente rispetto a quello stabilito in sede contrattuale, si differenzia dall’istituto della trasferta in quanto il dipendente esegue la propria prestazione alle direttive di un altro datore di lavoro (definito distaccatario), sebbene lo stesso sia stipendiato dall’azienda distaccante, che, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo 30, D.Lgs. 276/2003, rimane la responsabile del trattamento economico. Alle eventuali indennità percepite dal lavoratore distaccato non si applica la disciplina dell’articolo 51, comma 5, Tuir.

 

Il profilo contributivo e fiscale

In prima battuta preme ricordare che il trattamento contributivo riservato ai redditi di lavoro dipendente, anche in natura, è di norma il medesimo di quello fiscale per effetto dell’armonizzazione delle basi imponibili ai sensi del D. Lgs. 314/1997, salvo rare eccezioni (come, ad esempio, quella delle retribuzioni convenzionali per lavoratori inviati continuativamente all’estero, ex articolo 51, comma 8-bis, Tuir, non sempre applicabili anche sotto il profilo contributivo a seconda dello Stato dove il dipendente è distaccato). Nel caso in cui il dipendente in trasferta percepisca un’indennità correlata allo svolgimento dell’attività lavorativa, si applica il trattamento fiscale di cui all’articolo 51, comma 5, Tuir, che varia a seconda della tipologia di rimborso operata.

Il datore di lavoro, sulla base di un regolamento aziendale o di un accordo con lo stesso lavoratore, può erogare rimborsi di tipo analitico (c.d. a piè di lista), forfetario o misto fra le prime 2 formule.

Nel caso in cui il datore di lavoro prediliga il trattamento analitico delle spese sostenute, i rimborsi delle spese relative a viaggio, trasporto, vitto e alloggio per trasferte fuori dalla sede comunale sono rimborsate al netto (non soggette a contribuzione e tassazione) ed eventuali altre competenze (come ad esempio specifiche diarie previste dai Ccnl), sempre correlate alla trasferta, non concorrono a formare il reddito sino all’importo giornaliero di 15,49 euro (elevato a 25,82 euro se si tratta di trasferta effettuata al di fuori dell’Italia).

In caso di erogazione di un’indennità fissa “forfettaria” e in assenza di ulteriori rimborsi per spese di vitto e/o alloggio, il valore della diaria non concorrerà alla formazione del reddito sino a un importo di 46,48 euro al giorno (elevato a 77,47 euro per la trasferta estera), al netto delle spese di viaggio e trasporto, che sono sempre rimborsate senza alcuna imposizione.

Qualora, invece, il datore di lavoro decida di optare per un rimborso di tipo misto e di pagare direttamente o rimborsare al netto il vitto e/o l’alloggio, l’importo non assoggettabile si riduce di 1/3 (in caso di rimborso o pagamento diretto del solo vitto o del solo alloggio) oppure di 2/3 (in caso di rimborso o pagamento diretto sia del vitto che dell’alloggio).

Tutti gli importi eccedenti le fasce descritte devono essere assoggettati a contribuzione e tassazione e, quindi, considerati alla pari della retribuzione ordinaria.

Si ricorda, inoltre, che in merito ai rimborsi chilometrici erogati per l’espletamento della prestazione lavorativa in un Comune diverso da quello in cui è situata la sede di lavoro, l’esenzione da imposizione fiscale e contributiva è concessa a condizione che i documenti risultino conservati dal datore di lavoro (come indicato nella risoluzione n. 92/E/2015, dell’Agenzia delle entrate) e che l’importo dell’indennità sia calcolato in base alle tabelle ACI, annualmente aggiornate, che determinano la quota esente in base alla percorrenza, al tipo di veicolo utilizzato e al costo chilometrico relativo.

Nel caso in cui la trasferta venga effettuata nello stesso Comune della sede aziendale o, meglio, della sede lavorativa del dipendente, i soli rimborsi esenti ed erogabili al netto sono quelli relativi alle spese di viaggio e di trasporto (ad esempio, spesa sostenuta per il taxi, spese per il carburante oppure il biglietto del mezzo pubblico). Il primo e l’ultimo punto del comma 5, infatti, escludono esplicitamente la possibilità di poter applicare le regole sopra esplicitate in caso di lavoro svolto al di fuori della sede lavorativa, ma all’interno dello stesso Comune: “Le indennità percepite per le trasferte o le missioni fuori del territorio comunale concorrono a formare il reddito … Le indennità o i rimborsi di spese per le trasferte nell’ambito del territorio comunale, tranne i rimborsi di spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore, concorrono a formare il reddito”.

Di seguito una tabella riepilogativa del trattamento fiscale delle indennità di trasferta. Non rientrano in questa tabella tutte le spese documentate sostenute dal dipendente relative a trasporto e viaggio, che sono sempre considerate esenti e rimborsabili al netto:

Modalità di rimborso Soglia giornaliera di esenzione
Indennità a forfait – diaria Esente fino a € 46,48/giorno (€ 77,47 estero)
Indennità con solo rimborso (o pagamento diretto dell’azienda o fornitura gratuita) del vitto o dell’alloggio – sistema misto Esente fino a € 30,99/giorno (€ 51,65 estero) + rimborso netto o pagamento diretto
Indennità con rimborso (o pagamento diretto dell’azienda/fornitura gratuita) del vitto e dell’alloggio – sistema misto Esente fino a € 15,49/giorno (€ 25,82 estero) + rimborso netto e/o pagamento diretto
Rimborso analitico (a piè di lista) di tutte le spese effettuate di vitto, alloggio e spese non documentabili Esente fino a € 15,49/giorno (€ 25,82 estero) per tutte le spese non documentabili
Indennità trasfertisti ex articolo 51, comma 6, Tuir Esenzione del 50% dell’importo

 

Si ricorda che, anche qualora il Ccnl disciplini indennità giornaliere o diarie di maggior valore rispetto a quelle esenti sopra richiamate, i valori eccedenti le soglie statuite per legge saranno completamente imponibili.

Si prenda il caso dei dirigenti del settore industriale, il cui Ccnl, all’articolo 10, comma 1, prevede un importo aggiuntivo giornaliero di 85 euro in cifra fissa per il rimborso di spese non documentabili. Tale cifra sarà esente, al massimo, per i primi 77,47 euro nel caso di trasferte in territorio estero e in assenza di altri rimborsi (di vitto e/o alloggio) analitici.

Sul tema della esposizione di tali cifre sul LUL, la risposta n. 11 contenuta nelle Faq del Vademecum del LUL pubblicato dal Ministero del Lavoro specifica come vadano sempre eseguite le annotazioni relative ai rimborsi spese anche se esenti fiscalmente e previdenzialmente: “L’annotazione può prevedere l’indicazione dei soli importi complessivi specificati, con il sistema del documento o riepilogativo piè di lista approntato a parte, esattamente come ora. La mancata annotazione di importi marginali o non ricorrenti potrà non essere di regola sanzionata se è esclusa qualsiasi incidenza di carattere contributivo e fiscale e con obbligo di dettaglio analitico delle attività aziendali al riguardo”.

 

L’utilizzo improprio delle indennità di trasferta

In molti casi le indennità di trasferta sono utilizzate dai datori di lavoro come “voce retributiva” in luogo dell’ordinaria retribuzione oppure sono utilizzate per erogare somme premiali o per retribuire il lavoro straordinario. Questo utilizzo improprio, oltre che contra legem di una voce esente dal punto di vista fiscale e contributivo, consentirebbe al datore di lavoro di contenere i propri costi e di aumentare il reddito netto del dipendente.

La condotta fraudolenta del datore di lavoro e il mancato assoggettamento di somme erogate comporta:

  • la riduzione dell’imponibile previdenziale e il relativo mancato versamento della contribuzione (Ivs e contribuzioni minori, quali malattia o maternità);
  • un danno pensionistico nei confronti del lavoratore ex articolo 2116, cod. civ. (consolidato nel caso di prescrizione quinquennale del versamento contributivo);
  • la riduzione dell’imponibile fiscale e, di conseguenza, una truffa ai danni dello Stato per mancato introito derivante dalla mancata ritenuta fiscale;
  • ulteriori vantaggi di profilo fiscale ai fini Ires, Irap e Iva di cui può godere l’azienda.

 

Il danno pensionistico ex articolo 2116, comma 2, cod. civ.

Ai sensi dell’articolo 2116, cod. civ., l’utilizzo di voci di indennità di trasferta nel cedolino esenti da contribuzione in luogo di una voce che ordinariamente verrebbe assoggettata comporta anche un danno pensionistico al dipendente: “Nei casi in cui, secondo tali disposizioni, le istituzioni di previdenza e di assistenza, per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute, l’imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro”.

L’omissione contributiva potrebbe danneggiare il futuro assegno pensionistico in differenti modalità, a seconda del metodo di calcolo utilizzato.

Nel caso di un lavoratore con prima contribuzione successiva al 31 dicembre del 1995, al quale si applichi soltanto il metodo contributivo, il mancato versamento contributivo comporterebbe una diminuzione del montante contributivo che annualmente si forma con la contribuzione mensilmente versata nonché con la rivalutazione annua calcolata, applicando al montante dell’anno precedente il tasso di capitalizzazione calcolato dall’Istat e derivante dalla variazione media degli ultimi 5 anni del PIL.

Qualora il dipendente abbia contribuzione prima del 31 dicembre del 1995, ma il suo ingresso a pensione avvenga almeno 10 anni dopo il mancato versamento della contribuzione, il danno che ne deriverebbe sul suo futuro assegno pensionistico risulterebbe pari a quello che avrebbe un futuro pensionato al quale si applichi totalmente il metodo contributivo.

Di impatto superiore sarebbe il danno qualora l’assegno pensionistico del lavoratore venga calcolato con il metodo retributivo e il suo ingresso a pensione sia entro i 10 anni. In questa fattispecie il mancato versamento contributivo comporterebbe sia un danno sulla quota contributiva (montante inferiore e mancata rivalutazione annua) che sulla quota retributiva, poiché comprometterebbe la media retributiva degli ultimi 5 anni utile per il calcolo della Quota A e la media retributiva degli ultimi 10 anni (o più a seconda della anzianità contributiva) per il calcolo della Quota B.

Qualora il periodo di riferimento della contribuzione non sia ancora prescritto, il datore di lavoro, che ha consapevolmente non assoggettato a contribuzione determinate somme, dovrà versare la contribuzione omessa aumentata delle sanzioni per evasione contributiva, calcolate ai sensi dell’articolo 116, comma 8, lettera b), L. 388/2000, e dovrà procedere con la regolarizzazione delle denunce contributive.

Nel caso in cui, invece, il periodo di riferimento risulti ormai prescritto, si dovrà attivare la costituzione di rendita vitalizia che consente all’interessato di poter essere risarcito per il danno permanente subito sul proprio assegno pensionistico. La Suprema Corte di Cassazione Civile, con sentenza n. 26990/2005[2], ha deliberato in merito alla fattispecie dell’omessa contribuzione, specificando che in caso di omissione di contribuzione ormai prescritta si possono distinguere 2 situazioni in base al raggiungimento o meno dell’età pensionabile dell’interessato. Qualora l’età fosse raggiunta, l’omissione dà luogo a un danno pensionistico, mentre nel caso in cui ancora non fosse stata raggiunta, il lavoratore può chiedere una condanna di risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 2116, cod. civ.: “Si tratta non già del danno da perdita della pensione, del quale non è ancora accettabile la sussistenza (cfr. art. 278 cod. proc. civ., comma 1), ma del danno da irregolarità contributiva …”.

Per la quantificazione del danno pensionistico, per ultima si è espressa la circolare Inps n. 78/2019, che ha offerto una nuova e più letterale interpretazione del metodo di calcolo della costituzione di rendita vitalizia in base al periodo di competenza nel quale si collocano i contributi non versati.

In particolare, il paragrafo 7 della circolare citata recita: “L’onere è determinato con le norme che disciplinano la liquidazione della pensione con il sistema retributivo o con quello contributivo, tenuto conto della collocazione temporale dei periodi oggetto di riscatto. Per i periodi che si collocano nel sistema di “calcolo retributivo” l’onere è quantificato in termini di “riserva matematica” determinata in base alla retribuzione effettiva o convenzionale del periodo oggetto di costituzione di rendita vitalizia. Relativamente ai periodi per i quali la relativa quota di pensione andrebbe calcolata con il sistema contributivo, il corrispondente onere è invece determinato, per espressa disposizione di legge, applicando l’aliquota contributiva in vigore alla data di presentazione della domanda di riscatto, nella misura prevista per il versamento della contribuzione obbligatoria dovuta alla gestione pensionistica dove opera il riscatto stesso. Ai fini del calcolo, la retribuzione di riferimento cui va applicata la predetta aliquota contributiva, è quella assoggettata a contribuzione nei dodici mesi meno remoti rispetto alla data della domanda”.

In definitiva, qualora l’omissione contributiva faccia riferimento a periodi calcolati con il metodo di calcolo retributivo (periodi antecedenti il 31 dicembre 1995 per i contribuenti con meno di 18 anni di contribuzione a tale data oppure periodi antecedenti il 31 dicembre 2011 per i contribuenti con almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995), la quantificazione del relativo danno avviene con il metodo della riserva matematica:

(Pensione calcolata considerando la contribuzione omessa – pensione calcolata sulla base di quanto presente in estratto conto contributivo)

*

Coefficiente anagrafico legato all’età dell’assicurato al momento della richiesta e alla Sua condizione di pensionato (D.M. 31.8.2007, Tab. 3 – M).

 

Con riferimento alla fattispecie in analisi si precisa che, ai sensi degli articoli 2 e 4, D.Lgs. 184/1997, per i periodi di omissione contributiva collocati temporalmente dopo il 1995, in vigenza del metodo di calcolo pensionistico misto e contributivo pro rata temporis, risulta di difficile applicazione quanto stabilito nel § 7, terzo periodo, circolare Inps n. 78/2019, in quanto, qualora l’omissione sia riferibile a periodi che si collocano nel sistema contributivo, il calcolo della rendita dovrebbe avvenire applicando le norme del riscatto di laurea con il metodo a percentuale.

In questo caso l’omissione contributiva non riguarda un determinato numero di settimane non presenti in estratto conto contributivo, ma l’utilizzo di un imponibile previdenziale inferiore rispetto a quello spettante e, pertanto, il metodo più efficace di calcolo risulterebbe l’applicazione dell’aliquota Ivs vigente a oggi 33% + eventuale 1% aggiuntivo sulla quota di retribuzione rivalutata non assoggettata a contribuzione a suo tempo.

Un ultimo focus su cui porre l’attenzione è la possibilità che il mancato assoggettamento previdenziale di una determinata parte della retribuzione possa comportare non solo un mancato versamento contributivo, ma anche il mancato raggiungimento del limite annuale per l’accredito delle 52 settimane di contribuzione. Detto parametro, definito annualmente da apposita circolare Inps, che per il 2022, a valle dell’emissione della circolare n. 15/2022, è fissato in 210,15 euro settimanali, corrispondenti a 10.928 euro annui, stabilisce che, qualora la retribuzione annua sia inferiore a tale limite, venga riconosciuto in estratto conto contributivo un numero inferiore di settimane riproporzionato così come segue:

Numero di settimane maturate = Retribuzione / 10.928 * 52

Qualora, ad esempio, la retribuzione imponibile risultasse pari a 9.500 euro, il numero di settimane maturate risulterebbe pari a 45.

[1] Cassazione n. 14047/2020. Cfr. L. Vannoni, Trasferte: una pronuncia poco chiara dalla Cassazione, in “EcLavoro”, 16 luglio 2020.
[2] Per una più analitica disamina delle varie fattispecie giurisprudenziali, cfr. E. Rocchini, Contenzioso previdenziale: il risarcimento da danno pensionistico, in “Guida pratica previdenziale” n. 5/2021, pagg. 23-30.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Guida pratica previdenziale“.

Novità del sistema pensionistico 2023