Comportamenti extralavorativi e licenziamento: un rebus per nulla chiaro
di Roberta Zanino Scarica in PDF
Il lavoratore rischia il licenziamento se pone in essere condotte che costituiscono reato al di fuori del rapporto di lavoro. Vi è il rischio del licenziamento sia ove il fatto costituente reato sia stato commesso anteriormente all’avvio del rapporto di lavoro, sia ove sia stato commesso in costanza del rapporto. Soltanto nel primo caso si è in presenza di un illecito disciplinare, ma il rischio licenziamento è presente in entrambe le ipotesi.
Premessa: reato e rapporto di lavoro
Il lavoratore, oltre a eseguire correttamente la prestazione, è tenuto, anche al di fuori dell’orario lavorativo, a tenere comportamenti che non ledano gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario (artt. 2104 e 2105, c.c.).
La commissione di un reato da parte del lavoratore, benché commesso fuori dell’orario lavorativo e non in connessione con l’attività lavorativa, può legittimare il licenziamento per giusta causa, ex art. 2119, c.c., qualora faccia venire meno il rapporto fiduciario intercorrente con il datore di lavoro.
Al proposito è rilevante sottolineare l’autonomia che sussiste tra il giudizio penale e il procedimento disciplinare.
Il datore di lavoro, infatti, non può giustificare il licenziamento per giusta causa con il solo richiamo per relationem alla condotta delittuosa addebitata al lavoratore, né un eventuale accertamento definitivo della colpevolezza del dipendente può di per sé giustificare l’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa.
Il datore di lavoro è tenuto a valutare se il comportamento illecito extralavorativo posto in essere dal dipendente sia di una tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità del rapporto di lavoro, facendo venire meno il rapporto fiduciario.
Per contro, è anche possibile che un’eventuale assoluzione in sede penale non impedisca al datore di lavoro di licenziare legittimamente il lavoratore, ove i fatti risultino comunque comprovati e siano tali da incidere sul lavoro stesso.
La verifica del carattere di “fatto illecito” va rapportata non alla responsabilità disciplinare, bensì al disvalore sociale oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda, attesa la non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare, ciò al fine di evitare che ogni condotta, comunque accertata come reato, si traduca sempre in un illecito disciplinare e, quindi, idoneo a giustificare un licenziamento.
Così, la Cassazione[1] ha ritenuto legittimo un licenziamento intimato nei confronti di un dipendente accusato del reato di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, anche in assenza dell’esito del giudizio penale.
In sede disciplinare, prima, e in sede di giudizio di merito, dopo, era emersa la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, in quanto i fatti contestati (e ritenuti dimostrati ai fini disciplinari) rivestivano un forte allarme sociale, sia per l’oggettiva gravità della condotta che per l’intensità del dolo, desumibile dalla molteplicità degli episodi di spaccio e dall’inserimento del dipendente all’interno di un’articolata rete di traffico di stupefacenti, con stabili collegamenti con soggetti pregiudicati: tali fatti rilevavano sul rapporto di lavoro perché integravano appunto un comportamento odioso, che minava le basi della convivenza civile e perché erano significativi di un organico collegamento del lavoratore con ambienti malavitosi, a prescindere dalle mansioni in concreto svolte.
Parimenti legittimo è stato ritenuto il licenziamento per giusta causa posto in essere nei confronti di un dipendente appartenente a una tifoseria calcistica, condannato per avere pronunciato frasi ingiuriose nei confronti delle forze di Polizia. Infatti, in tal caso il reato commesso dal lavoratore è stato ritenuto non conforme ai valori dell’ordinamento e di natura tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro nel corretto espletamento del rapporto, avuto riguardo alle modalità concrete dei fatti, all’elemento intenzionale e alla reiterazione dell’incitazione a condotte violente in danno delle forze di Polizia, come tali incompatibili con lo svolgimento di prestazioni lavorative (di operaio) da svolgere non in un contesto isolato, ma in diretta collaborazione con gli altri dipendenti dell’azienda[2].
Le mansioni svolte dal lavoratore e l’attività svolta dall’azienda come fattori rilevanti
Nell’effettuare la valutazione relativa alla lesione del vincolo di fiducia causata dal comportamento delittuoso del dipendente, occorre tenere conto delle mansioni in concreto espletate dal lavoratore e dell’ambito lavorativo aziendale.
È, quindi, possibile che uno stesso comportamento illecito tenuto da 2 lavoratori ricoprenti mansioni diverse e operanti in aziende diverse, in un caso giustifichi il licenziamento e in un altro non lo legittimi.
In un caso all’esame della Corte di Cassazione[3] il datore di lavoro aveva licenziato un dipendente accusato di maltrattamenti nei confronti della convivente.
La Corte d’Appello dichiarava illegittimo il licenziamento, benché la condotta violenta nei confronti della convivente non fosse posta in dubbio.
A parere della Corte, infatti, il timore che il lavoratore avrebbe potuto tenere comportamenti analoghi anche all’interno dello stabilimento, considerata la sua indole minacciosa e violenta soprattutto nei confronti di persone di sesso femminile, non era sufficiente a giustificare il licenziamento.
Risultava, infatti, incontestato che il lavoratore non aveva mai tenuto sul luogo di lavoro comportamenti aggressivi e violenti, né la società aveva dimostrato quale possibile lesione di immagine avrebbe potuto causarle il comportamento extralavorativo tenuto dal dipendente, tenuto anche conto del ruolo meramente esecutivo del lavoratore nell’organizzazione aziendale.
La Cassazione ha confermato la sentenza di merito, posto che la condotta del dipendente non era in grado di influire sul rapporto di lavoro neppure sul piano del clamore mediatico.
Ben diverso il caso in cui il dipendente, conducente di autobus, era stato condannato per il reato di violenza sessuale e continuati maltrattamenti nei confronti della moglie.
Nel caso di specie la Cassazione[4] ha confermato la legittimità del licenziamento, sostenendo che una condotta extralavorativa caratterizzata, sia pure nell’ambito di rapporti familiari, dal mancato rispetto dell’altrui dignità e da forme di violenza abituali, può costituire giusta causa di licenziamento «specie ove le mansioni del lavoratore, incaricato di pubblico servizio come il conducente di autobus, comportino costante contatto col pubblico ed esigano rigoroso rispetto verso gli utenti e capacità di autocontrollo».
Parimenti, la Cassazione[5] ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente, collaboratore tecnico scolastico e autista di scuolabus, condannato in via definitiva per aver procurato volontariamente l’interruzione di gravidanza della propria compagna, confermando come corretta la lettura del giudice di merito che aveva valorizzato sia la gravità della condotta, sia l’idoneità della stessa a far venire meno la fiducia datoriale in un soggetto che avrebbe dovuto lavorare in ambito educativo e a contatto con persone minori, sia l’oggettiva lesione dell’immagine aziendale derivata dalla risonanza mediatica della vicenda.
Risulta, quindi, chiaro che reati analoghi (es. maltrattamenti nei confronti di familiari) possono legittimare o meno il licenziamento a seconda delle mansioni svolte dal lavoratore e dell’attività dell’azienda di appartenenza, a prescindere dai comportamenti pregressi tenuti dal lavoratore sul luogo di lavoro.
La legittimità del licenziamento non è neppure collegata alla gravità del reato contestato.
Infatti, mentre nel caso del reato per maltrattamenti sopra esaminato (Cass. n. 22077/2023), il licenziamento è stato ritenuto illegittimo, il licenziamento è stato confermato in un caso in cui il lavoratore era stato accusato di furto.
In quest’ultimo caso, un operatore ecologico, prima di iniziare il turno di lavoro, era stato sorpreso, con indosso la divisa di lavoro, intento nell’opera di asportazione, previo smontaggio, del sedile anteriore di un’autovettura.
La Corte d’Appello di Bari[6] ha confermato la sentenza che aveva dichiarato legittimo il licenziamento, sul presupposto che il comportamento del dipendente costituiva grave illecito disciplinare, tenuto conto delle peculiari modalità e delle circostanze concrete della condotta attribuita al lavoratore, che denotavano notevole disaffezione rispetto al credito e alla reputazione aziendale, ovverosia l’avere consumato il furto aggravato, usando violenza sulle cose, su beni esposti alla pubblica fede, appena mezz’ora prima dell’inizio del proprio turno di servizio, con indosso la divisa di lavoro. Inoltre, la notizia uscita sui giornali gettava discredito sull’azienda della nettezza urbana, che, invece, aveva necessità di risultare affidabile per accedere e continuare a gestire l’appalto del servizio pubblico del Comune.
La natura pubblica del datore di lavoro e lo svolgimento di un servizio pubblico hanno particolare rilievo al fine di valutare l’idoneità del comportamento tenuto dal dipendente a giustificare il licenziamento.
La Corte di Cassazione ha più volte sottolineato che l’integrità morale e la trasparenza dell’ente pubblico sono valori essenziali, la cui violazione compromette non solo il rapporto fiduciario con il dipendente, ma anche la percezione dell’affidabilità dell’Amministrazione da parte della collettività.
Così, ad esempio, è stato ritenuto legittimo il licenziamento irrogato nei confronti di un portalettere condannato per reati di truffa e falso, per aver predisposto falsa documentazione medica finalizzata a ottenere la percezione di emolumenti di pensione non dovuti.
Poste Italiane aveva giustificato la propria decisione sostenendo che i reati commessi, pur non afferendo l’attività di portalettere, tuttavia, riverberavano effetti negativi direttamente nell’ambito lavorativo, posto che compromettevano irrimediabilmente l’elemento fiduciario insito nel rapporto di lavoro in virtù non solo del servizio di pubblica rilevanza svolto dall’azienda, ma anche del grado di affidamento richiesto dalle mansioni di portalettere, incaricato di pubblico servizio.
La Cassazione[7] ha considerato legittimo il licenziamento, ritenendo che comportamenti illeciti del lavoratore possono essere ritenuti più o meno idonei a rompere il legame fiduciario a seconda che l’azienda svolga un’attività puramente privatistica o svolga un servizio pubblico, posto che l’impegno di capitale pubblico e la pubblicità del fine perseguito, che sottomettono l’attività svolta ai principi di imparzialità e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97, Cost., non è senza riflesso nei doveri gravanti sui lavoratori dipendenti, che debbono assicurare affidabilità, nei confronti del datore di lavoro e dell’utenza, anche nella condotta extralavorativa.
La legittimità del licenziamento del dipendente cha abbia commesso un reato al di fuori del rapporto lavorativo non è collegata alla gravità di per sé del reato, ma alle conseguenze che il comportamento costituente reato può avere sul rapporto di lavoro e sul rapporto di fiducia che collega il dipendente al datore di lavoro. Inoltre, reati simili possono giustificare o meno il licenziamento a seconda delle mansioni rivestite dal lavoratore e dalla sfera di attività del datore di lavoro.
E se il reato è commesso prima?
Il lavoratore può essere licenziato per giusta causa anche qualora il reato sia stato commesso quando ancora non svolgeva l’attività lavorativa.
L’obbligo di diligenza e fedeltà da parte del dipendente sussiste soltanto ove il rapporto di lavoro sia in corso, con il che la mancanza del rapporto impedisce la violazione di tale obbligo e l’applicazione delle sanzioni disciplinari ai sensi dell’art. 2106, c.c.
Tuttavia, la giurisprudenza ritiene che per giusta causa, ai sensi degli artt. 2119, c.c., e 1, Legge n. 604/1966, non si intende unicamente la condotta ontologicamente disciplinare, ma anche quella che, pur non essendo stata posta in essere in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e verificata anteriormente ad esso, nondimeno si riveli ugualmente incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza e sempre che sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto.
Nella sentenza già sopra esaminata[8] i reati commessi dal portalettere erano stati posti in essere quando ancora non svolgeva l’attività lavorativa presso Poste Italiane S.p.a.
Ciò, malgrado Poste Italiane avesse ritenuto che i reati commessi riverberavano effetti negativi direttamente nell’ambito lavorativo, compromettendo l’elemento fiduciario e la Corte di Cassazione aveva confermato la legittimità del licenziamento.
La differenza tra reato commesso in costanza di rapporto di lavoro e reato commesso prima consiste nel fatto che nel primo caso si è in presenza di illecito disciplinare.
Pertanto, il giudice dovrà accertare il rispetto della procedura di cui all’art. 7, Statuto dei lavoratori.
Per contro, l’inclusione o meno della fattispecie tra i casi che giustificano il licenziamento nel contratto collettivo non vincola il giudice. Le previsioni del CCNL sono un riferimento importante, ma non esauriscono le ipotesi di giusta causa. Ciò significa che non precludono al giudice una valutazione autonoma sulla gravità di un comportamento.
Il parametro di riferimento rimane la clausola generale della “giusta causa”, di cui all’art. 2119, c.c., ovvero una condotta talmente grave da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario e non consentire la prosecuzione, nemmeno temporanea, del rapporto. La scala di valori del CCNL è uno degli elementi di cui il giudice tiene conto, ma non l’unico né il decisivo.
In caso di reato commesso prima dell’instaurazione del rapporto lavorativo, invece, non si sarà in presenza di illecito disciplinare e, pertanto, non vi saranno termini procedurali da rispettare, con il che il giudice dovrà limitarsi ad accertare se la condotta extralavorativa sia in grado di menomare il rapporto fiduciario. In altri termini, il giudice dovrà valutare la rilevanza giuridica che il comportamento del lavoratore può rivestire, con riguardo al disvalore sociale oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda.
Seppure la giurisprudenza sia dell’avviso che condotte costituenti reato possono integrare giusta causa di licenziamento, sebbene realizzate prima dell’instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza, tuttavia il solo fatto che anche la sentenza sia passata in giudicato prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro non è di per sé ostativa a ritenere legittimo il licenziamento.
A tal proposito si richiama un precedente in cui la Cassazione [9] ha ritenuto illegittimo il licenziamento a prescindere dalla circostanza che sia il reato sia il passaggio in giudicato della sentenza fossero avvenuti prima dell’assunzione in servizio.
La Cassazione sul presupposto che il giudicato risaliva al 2009 e il licenziamento era stato posto in essere nel 2019, ha osservato che la condanna, pur essendo teoricamente infamante (associazione di tipo mafioso), non aveva però inciso sul rapporto di lavoro in atto, né messo in pericolo il corretto adempimento delle prestazioni future, né compromesso l’affidamento del datore di lavoro sui futuri adempimenti. Infatti, il dipendente, addetto alla raccolta dei rifiuti del Comune, non aveva potere gerarchico su altri soggetti, così da immaginare un potere di influenzare altri soggetti, né potere decisionale nell’ambito della società, così da poter intravedere un rischio di infiltrazioni mafiose nella società, né aveva posto in essere atteggiamenti mafiosi tali da incidere sul rapporto di fiducia con il datore di lavoro.
In una fattispecie in cui il datore di lavoro aveva licenziato il dipendente dopo essere venuto a conoscenza di una sentenza passata in giudicato per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti riportata dal lavoratore prima dell’assunzione, la Cassazione ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, in quanto la società non aveva specificamente indicato l’incidenza negativa di fatti così risalenti sulla funzionalità del rapporto e, quindi, il riflesso attuale sulla concretezza del rapporto, limitandosi a prospettare un mero rischio ancorato a fatti accertati o commessi anteriormente all’instaurazione del rapporto di lavoro[10].
In entrambe le sentenze la Cassazione non ha ritenuto in radice illegittimo il licenziamento, in quanto anche il passaggio in giudicato della sentenza era precedente all’assunzione, ma soltanto in quanto il reato non aveva inciso sul rapporto fiduciario.
Se, quindi, anche condanne riportate con passaggio in giudicato della sentenza anteriormente all’instaurazione del rapporto di lavoro possono essere valutate ai fini del licenziamento per giusta causa, di fatto può risultare particolarmente complesso in questi casi, per il datore di lavoro, giustificare il licenziamento.
Termini del procedimento
La tempestività della contestazione di cui all’art. 7, comma 2, Legge n. 300/1970, va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione, ma quando l’illecito viene conosciuto in termini circostanziati, sì da consentire l’avvio del procedimento.
La giurisprudenza ritiene, infatti, che il prudente indugio del datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe altrimenti colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro.
Non è stato ritenuto tardivo l’avvio di un procedimento nel 2016 per fatti avvenuti nel 2010 e sentenza passata in giudicato nel 2012. Infatti, il datore di lavoro, a fronte delle difese del lavoratore, aveva sospeso ogni valutazione disciplinare, rinviandola all’esito del procedimento penale e invitando formalmente il lavoratore a tenerlo aggiornato dello stato del procedimento. Il datore di lavoro era informato della sentenza soltanto nel 2016 e, quindi, soltanto da tale data era messo a conoscenza dei fatti contestati[11].
Così, non è sufficiente la generica notizia che il dipendente è coinvolto in un procedimento penale, notizia appresa, ad esempio, a seguito di una perquisizione subita sul luogo di lavoro, in quanto in quel momento non sono delineati gli elementi necessari per comprendere quale fatto reato sia contestato al lavoratore e per valutarne la relativa responsabilità, tanto più tenuto conto che il fatto è avvenuto al di fuori del luogo di lavoro.
Parimenti, non è sufficiente a far decorrere i termini per il procedimento la mera conoscenza della condanna del dipendente in virtù di notizie di stampa, occorrendo, invece, la piena conoscenza dei fatti contestati. In tal senso la giurisprudenza non ha ravvisato alcuna tardività nell’avvio del procedimento disciplinare soltanto al momento in cui il datore di lavoro ha disposto della sentenza integrale, posto che quest’ultimo si era attivato richiedendo copia della sentenza al lavoratore, che, peraltro, aveva fornito soltanto un estratto privo della specifica indicazione del capo di imputazione, che non consentiva affatto di ricavare quali fossero i fatti al medesimo ascritti[12].
Conclusioni
La valutazione da parte del datore di lavoro di un comportamento extralavorativo del dipendente che è sfociato in un reato ai fini di un eventuale licenziamento è particolarmente complessa e anche la giurisprudenza, al di là delle enunciazioni di principio, non sempre ha una linea del tutto univoca.
È, pertanto, consigliabile alle aziende una linea di prudenza, fermo restando che, ovviamente, ove il rapporto fiduciario sia irrimediabilmente leso, non si potrà che arrivare al licenziamento, ma il datore di lavoro, verosimilmente, dovrà prepararsi a una controversia giudiziale: come sempre, ma ancor di più in casi così delicati, è consigliabile una attenta sinergia fra datore di lavoro e professionisti che lo seguono dal punto di vista lavoristico e legale per evitare errori (anche procedurali) e tutelare al meglio gli interessi aziendali.
[1] Cass. civ., Sez. lav., n. 10612/2025.
[2] Cass. civ., Sez. lav., n. 24100/2025.
[3] Cass. civ., Sez. lav., n. 22077/2023.
[4] Cass. civ., Sez. lav., n. 31866/2024.
[5] Cass. civ., Sez. lav., n. 8728/2024.
[6] Corte Appello Bari, Sez. lav., n. 1154/2022.
[7] Cass. civ., Sez. lav., n. 32136/2024.
[8] Cass. civ., Sez. lav., n. 32136/2024.
[9] Cass. civ., Sez. lav., n. 44581/2024.
[10] Cass. civ., Sez. lav., n. 8899/2024.
[11] Cass. civ., Sez. lav., n. 24100/2025.
[12] Corte di Appello di Cagliari, Sez. lav., 4 aprile 2025, n. 58.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro”.



