16 Novembre 2017

E il lavoro agile disse: “Io speriamo che me la cavo (nonostante tutto)!!” 

di Marco Frisoni

Non è infrequente reperire, all’interno del variegato panorama giuslavoristico, vicende che, a ben vedere, manifestano tratti a dir poco paradossali e, talvolta, addirittura paradigmatici e, in effetti, le recenti avventurose peripezie in ordine alla fattispecie del “lavoro agile” sembrano confermare pienamente (purtroppo) il summenzionato antefatto.

Va da sé che il precipuo riferimento si intende alla recente L. 81/2017 (anche nota come presunto Statuto del lavoro autonomo), la quale, al proprio interno (capo II, articoli 18-24), si preoccupa di disciplinare, per l’appunto, la tematica del lavoro agile, con esiti che, a una visione attuale, ancorché a volo d’uccello, appaiono quanto meno altalenanti.

Il tutto, in verità appare surreale, poiché, a ben vedere, il Legislatore, nel tentativo di offrire un metodo flessibile di esecuzione dell’attività lavorativa (nel caso, nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, ex articolo 2094 cod. civ.), potrebbe avere raggiunto l’esito opposto.

In altre parole, a mente del dettato normativo in esame, da più parti si evidenzia come l’eccessiva pignoleria nella regolamentazione di taluni aspetti del lavoro agile (si pensi alla tematica dell’igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro, ai vincoli di natura formale, etc.) e la ridondanza (perniciosamente intesa) di formule definitorie, risulterebbero elementi forieri di diffidenza per i datori di lavoro (anche a danno dei lavoratori potenzialmente interessati), scoraggiati dagli eccessivi (e, in questa fase, oscuri) orpelli che ammantano la fattispecie stessa.

Si pensi all’articolo 18, comma 1, ove si richiama il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa; la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Orbene, ictu oculi, emerge prepotente l’eccessiva generosità profusa dal Legislatore nel definire il lavoro agile (non scevra da perplessità anche la denominazione adottata, che, in una sorta di pedissequa e dozzinale delibazione dall’inglese smart working, in antitesi con la scelta, inversa, fatta con il Jobs Act, invita a pensare più a una prestazione sportiva che di lavoro), alla fine senza censirne con precisione i confini e aprendo nebbiosi scenari interpretativi, che, con un maggiore tasso di incisività, si sarebbero potuti senza dubbio scansare.

Peraltro, si deve registrare (ed è un atto obiettivamente positivo, poiché risolve alcuni versanti operativi particolarmente critici) l’intervento, per la parte di propria competenza, dell’Inail, a mezzo della circolare n. 48/2017, che, in realtà, trascende equilibrio nell’illustrazione degli obblighi a cui sono chiamati i datori di lavoro che intendano accedere alle forme di lavoro agile, al fine di evitare ulteriori legacci che, a questo punto, pregiudicherebbero e svilirebbero le finalità percorse dalla L. 81/2015.

Certamente, sulla tematica medesima, in considerazione delle innumerevoli sfaccettature che ne derivano, sarebbe auspicabile un intervento del Ministero del lavoro e delle politiche sociali (ovvero, dell’INL, per i risvolti di carattere ispettivo), atto a fornire a tutti i soggetti che animano quotidianamente il mondo del lavoro (datori di lavoro, lavoratori, organizzazioni sindacali, consulenti del lavoro, servizi per l’impiego privati e pubblici,etc.) indicazioni, orientamenti e prassi munite di solida e stabile (anche temporalmente parlando) certezza, con l’obiettivo di favorire un “concetto” di lavoro che, effettivamente, può divenire una formidabile occasione di innalzamento qualitativo (e, perché no, quantitativo) dei livelli occupazionali.

Insomma, parafrasando l’omonima pellicola del 1992, diretta da Lina Wertmuller e interpretata dal (mai) troppo compianto Paolo Villaggio (il cui travet Fantozzi, nella relativa saga cinematografica, rappresenta, ancora oggi, un capolavoro inarrivato di disincantata fotografia delle dinamiche avariate del mondo del lavoro e un vero e proprio trattato di sociologia del lavoro), è immaginabile sentire proferire, da una simbolica e antropomorfa incarnazione del lavoro agile: “Io speriamo che me la cavo (nonostante tutto)”!!

 

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