7 Dicembre 2023

Dumping amico

di Riccardo Girotto Scarica in PDF

In data 9 ottobre 2023 è stato convertito il Decreto 104/2023.

Tale previsione normativa all’articolo 8 richiama il recupero delle agevolazioni, verso aziende che intendono delocalizzare attività per le quali hanno ottenuto aiuti di Stato su investimenti effettuati. Il periodo punibile, in virtù della previgente disciplina esteso trasversalmente fino ai 5 anni successivi l’intervento, viene ora raddoppiato a 10 anni per le grandi imprese, mantenendo il corredo di sanzioni e interessi.

La previsione fa il paio con l’articolo 1, comma 224 e ss., Legge di Bilancio per il 2022, addizionato dal carico del D.L. 144/2022 (convertito in L. 175/2022), che si erge a censore della delocalizzazione, ma in realtà vira l’attenzione alla mera chiusura del sito, gravando le aziende di oneri procedurali estremamente rigidi, oltre a confermare il giusto recupero degli aiuti di stato percepiti, ancora, negli ultimi 10 anni.

Il combinato quindi parrebbe voler edificare una diga contro i trasferimenti di sede per mera convenienza.

Eppure, prendiamo atto che spesso aziende, anche di indiscussa fama e radicata identità nel bel Paese, a un certo punto della loro vita optano per lidi esteri, non solo per testare l’ebrezza dell’esotico, bensì per convenienze caratterizzate da incentivi offerti dai nuovi Paesi ospitanti. Paesi non paragonabili come bellezza, ma assai più convenienti. La convenienza che, volente o nolente, nutre il sentimento imprenditoriale da sempre.

Quindi di fronte a una tendenza verso la convenienza che guida le aziende care al mainstream, cosa dovrebbe pensare l’azienda meno mediatica? E l’azienda straniera che pensava invece di trovare l’eldorado in Italia, scontrandosi poi con una realtà lontana dalle aspettative?

Condivido un pensiero, anzi una chiara constatazione: un’azienda quando ha deciso di chiudere chiude, quanto ha deciso di licenziare licenzia, quando ha deciso di cambiare sede cambia. Potranno alzarsi barricate, irrogarsi sanzioni, ma il presupposto base da cui partire è che l’azienda sceglierà sempre la convenienza dell’affare nel suo effetto globale.

Su questa frattura si frappone il quadro normativo citato poc’anzi, dedicato a un obiettivo assolutamente nobile: attenuare l’impatto sociale delle scelte aziendali. Scelga pure l’azienda come gestire il suo futuro, ci mancherebbe aggiungerei, ma paghi il pegno di aver illuso: lavoratori, territorio e stakeholders. Nulla quaestio sul punto dal punto di vista teorico, mentre dal lato pratico la diga difensiva un poco scricchiola.

Scricchiola quando la misura colpisce l’esternalizzazione extracomunitaria, mentre conferma l’esternalizzazione indenne verso qualsiasi stato nel perimetro UE, creando un dumping proprio laddove dovrebbe ergersi maggiore vigilanza;

Scricchiola quando dichiara di colpire l’esternalizzazione, concentrandosi invece sulla chiusura delle unità produttive, indipendentemente dal motivo che integra l’operazione, configurando un gran deterrente all’investimento straniero nel nostro bel Paese (ma anche alla crescita delle minuscole realtà indigene);

Scricchiola quando impone la libera concorrenza in ambito comunitario, demonizzando l’imposizione di regole comuni a tutta l’UE.

Partecipiamo tutti allo stesso gran premio, ma i limiti di cilindrata sono diversi da auto ad auto, (certo non voglio infierire sul fatto che nei gran premi veri e propri i nostri colori soffrano più del dovuto nda), questo non depone certo a favore dell’investimento nel nostro Paese.

Poco male se l’interesse è spostato totalmente verso i lavoratori e la salvaguardia dei loro posti di lavoro, il punto è che i lavoratori di aziende che delocalizzano in Europa, dal quadro normativo ottengono minori tutele rispetto ai lavoratori che hanno la sola colpa di subire una delocalizzazione extracomunitaria. Per contro i lavoratori coinvolti da un licenziamento collettivo di azienda oltre i 250 dipendenti che chiude una sede godono di una tutela ampiamente maggiore rispetto ai dipendenti di azienda dal medesimo o maggiore requisito occupazionale, ma che al licenziamento collettivo non accompagnano alcuna chiusura di sede. Mi rifiuto di credere che queste disparità fossero previste in sede di ideazione delle misure.

Certamente il combinato normativo, dall’intento originario condivisibile, dovrebbe accompagnarsi ad un sistema di incentivazione all’investimento nel nostro Paese, così da mitigarne l’effetto diffidenza.

Non è sicuramente facile definire una regolamentazione di sintesi che coniughi l’argine alle delocalizzazioni tramite tutela del lavoratore e l’argine alla delocalizzazione tramite incentivo a rimanere nel nostro paese, ma è sicuramente doveroso giungere una volta per tutte alla definizione di regole comuni a tutti i players di un mercato comune.

Gestione del rapporto di lavoro dei dirigenti