13 Aprile 2016

Il contratto aziendale in deroga

di Riccardo Del Punta

 

Dopo aver brevemente inquadrato il fenomeno della contrattazione in deroga e le ragioni strutturali che lo determinano, l’autore ne riepiloga la disciplina giuridica, che si colloca sui due piani, distinti ma interconnessi, dell’efficacia soggettiva del contratto aziendale e della possibilità e validità delle deroghe. Egli osserva, al riguardo, che mentre il tema dell’efficacia del contratto appare in via di assestamento attorno al criterio maggioritario, sulle deroghe la situazione normativa è leggermente più confusa, pur nell’evidenza della tendenza all’incremento, anche in virtù del recente D.Lgs. n.81/15, delle ipotesi di contrattazione aziendale in deroga.

 

Il fenomeno

Il fenomeno della contrattazione aziendale in deroga riveste una crescente importanza, nell’ambito della generale (su scala europea) tendenza al decentramento dei sistemi di contrattazione collettiva.

La ragione di fondo di questa tendenza risiede semplicemente nel fatto che nell’attuale contesto economico globalizzato, e per questo altamente competitivo, la contrattazione collettiva nazionale, con la sua pretesa di unificare a livello di settore produttivo i parametri di costo del lavoro, non appare più uno strumento idoneo.

O meglio, essa può fungere da base dei trattamenti (in questo senso avendo una funzione benefica anche in termini di riduzione dei costi di transazione), ma occorre poi consentire alle imprese, previo confronto con la controparte sindacale, di discostarsene per adattare la disciplina del Ccnl alle specifiche situazioni e per impostare programmi non soltanto di gestione di crisi (difensivi), ma anche di riorganizzazione e di rilancio produttivo (propulsivi).

Non va dimenticato, peraltro, che la contrattazione aziendale riguarda soltanto una parte del sistema produttivo italiano, e precisamente le imprese di dimensioni medio-grandi. Per le piccole imprese un’eventuale contrattazione derogatoria, o di adattamento, potrà svilupparsi, nella migliore delle ipotesi, a livello territoriale o di distretto.

Ciò detto, anche se le coordinate giuridiche dell’istituto in esame non possono ancora dirsi definitivamente stabilizzate, vi sono oggi molte più certezze rispetto al pur recente passato. Su queste, e sui residui aspetti di incertezza, ci soffermeremo nei paragrafi che seguono.

 

I punti giuridici

Quando si parla di contratto aziendale in deroga si evocano, in realtà, due problemi giuridici distinti, anche se strettamente interconnessi.

Da un lato, il problema dell’efficacia soggettiva del contratto aziendale, cioè delle condizioni in presenza delle quali tale contratto può ritenersi efficace, e quindi vincolante, nei confronti di tutti i lavoratori dell’azienda. Questo problema riguarda tutti i contratti aziendali, anche non in deroga, ma è evidente che esso ha implicazioni particolarmente delicate proprio in presenza di una contrattazione in deroga, nella misura in cui i lavoratori possono avere un interesse a sottrarsi da essa reclamando l’applicazione del Ccnl.

Dall’altro lato, il problema, più specifico rispetto al tema, della legittimità delle deroghe: cioè se la clausola aziendale che prevede un trattamento derogatorio, ovviamente in peius, rispetto a quello del Ccnl, possa considerarsi valida, e quindi, di nuovo, giuridicamente vincolante per i lavoratori che ne sono destinatari.

Ma se questa, del confronto e dell’eventuale conflitto tra contratto collettivo nazionale e aziendale, è la dimensione più nota del tema in esame, ad essa si accosta quella delle eventuali deroghe concordate a livello aziendale rispetto a trattamenti di fonte legale. Anche qui occorre chiarire se e entro quali limiti tali deroghe, in qualche misura controintuitive (come può, il “piccolo” contratto aziendale, derogare addirittura alla legge?), sono invece consentite (e vedremo che spesso lo sono) sulla base della recente legislazione.

Dopo di che, come si accennava, c’è una forte interconnessione tra le due tematiche qui sollevate, e ciò sia sul piano sindacale che su quello giuridico.

Per il primo, basti pensare alla vicenda della contrattazione aziendale Fiat, dall’accordo di Pomigliano in avanti, nella quale sono stati anche i fattori di incertezza giuridica a determinare la decisione di Fiat di uscire da Federmeccanica.

Ma la connessione è anche giuridica, nel senso che, a prescindere dal tema della validità in sé delle clausole derogatorie (che è meno critico, forse, di quanto di solito si pensi: v. infra), una vera presa (o, per usare un termine più tecnico, effettività) delle medesime può essere garantita soltanto dalla stabilizzazione giuridica del regime dell’efficacia soggettiva. Questo, in particolare, avviene nei casi in cui il contratto aziendale in deroga o non venga sottoscritto tout court dalle associazioni sindacali, bensì soltanto da Rsu o Rsa, oppure venga sottoscritto soltanto da alcune tra le sigle sindacali firmatarie del Ccnl.

Occorre mettere a fuoco, dunque, entrambi gli aspetti.

 

L’efficacia soggettiva del contratto aziendale

A questo proposito, come è noto, il sistema sindacale si è mosso con decisione verso l’adozione del criterio maggioritario (il peggiore tra i criteri, eccettuati tutti gli altri …), forte del fatto che esso è di agevole applicazione nell’ambito, se non ristretto comunque circoscritto, della singola azienda.

Ben più arduo, per inciso, è applicare il medesimo criterio nell’ambito delle varie categorie a livello nazionale, in quanto ciò presuppone l’implementazione di un complesso sistema di misurazione della rappresentatività, fondato sulla rilevazione dei dati sulla consistenza associativa dei vari sindacati, misurata attraverso le deleghe sindacali, e di quelli del consenso conseguito nelle elezioni delle Rsu. Un sistema lanciato, nell’Industria, dal T.U. Rappresentanza del 10 gennaio 2014, e in via di (faticosa) implementazione, ma non ancora operativo.

Tornando al contratto aziendale, la regola maggioritaria è stata stabilita, per la prima volta, dall’Accordo interconfederale Industria del 28 giugno 2011, poi ripreso dal T.U. Rappresentanza del 2014, poc’anzi citato. Il modello Industria è stato recepito, sia pure con varianti, anche in altri settori: meritano una citazione l’Accordo del 24 ottobre 2011 per il Credito e l’Accordo del 26 novembre 2015 per il Commercio.

Nel prototipo Industria, i soggetti legittimati a stipulare il contratto aziendale dotato di efficacia generale sono fondamentalmente la Rsu e la/e Rsa. Nel caso della Rsu, che è un organo collegiale, il criterio decisionale della maggioranza è di facile applicazione. Nel caso della/e Rsa, si vanno a contare le deleghe sindacali del/i sindacato/i di riferimento, ma con la facoltà di promuovere un referendum abrogativo del contratto aziendale, da parte di una sigla sindacale dissenziente o del 30% dei lavoratori.

Il che non esclude che al contratto aziendale possano partecipare anche le istanze territoriali delle associazioni sindacali, come spesso nella tradizione del nostro sistema. Quella che però rileva, ai fini dell’efficacia generale, è la presenza tra i firmatari delle rappresentanze sindacali d’azienda.

Resta possibile, peraltro, che un contratto aziendale venga sottoscritto soltanto da associazioni sindacali, ma in tale caso è sottoposto alle regole preesistenti agli accordi di ultima generazione, le quali, se a certe condizioni possono portare lo stesso al risultato dell’erga omnes (attraverso percorsi nei quali non vale la pena di inoltrarsi), non garantiscono però certezze a tale riguardo (a maggior ragione oggi, che il sistema ha puntato decisamente su Rsu e Rsa).

Ciò detto, a complicare ulteriormente la tematica giunge la circostanza che le regole di cui sopra valgono sul piano contrattuale, e quindi non hanno una vera forza giuridica erga omnes, giacché si applicano soltanto ai lavoratori aderenti alle organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto gli accordi interconfederali sopra menzionati o che hanno formalmente aderito ad essi (configurandosi tali accordi, infatti, come aperti).

Quelle regole non vincolano, invece, i lavoratori aderenti ai sindacati, che sono soliti, un po’ per emarginazione da parte degli altri un po’ per missione, restare fuori dal sistema contrattuale. Il che rappresenta un fattore di incertezza.

Dopo di che, onde rimediare almeno in parte a tale incertezza, nonché nell’ambito della disciplina di specifici istituti, incentrata sulle deleghe alla contrattazione collettiva anche di 2° livello (deleghe sempre più portatrici, come vedremo nel prossimo paragrafo, di possibili deroghe), la legge ha cominciato ad ingerirsi, in misura via via crescente, nel regime di efficacia del contratto aziendale.

E lo ha fatto, indirettamente attraverso la selezione dei soggetti sindacali ritenuti abilitati a stipulare i contratti aziendali oggetto di clausole legali di rinvio, e in un caso direttamente, con la previsione di una norma esplicita (l’art.8 su cui infra) in tema di efficacia.

Il fenomeno della contrattazione aziendale di rinvio, e sovente anche derogatoria, è in verità assai risalente, e registra i primi esempi nella c.d. contrattazione della crisi.

Si possono citare, al riguardo, due norme dei primi anni ’90 (ma vi erano già dei precedenti):

  • l’art.47, co.5, L. n.428/90, che rende possibile, nell’ambito della procedura di informazione e consultazione sindacale prevista quando si procede a un trasferimento di un’azienda in crisi conclamata, la stipulazione di accordi aziendali in deroga all’art.2112 cod.civ., onde favorire le operazioni di salvataggio;
  • l’art.4, co.12, L. n.223/91, che consente, nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo, la stipulazione di accordi aziendali in deroga all’art.2103 cod.civ., onde consentire il riassorbimento dei lavoratori ritenuti eccedenti.

Nell’ambito di tale legislazione, e anche se con varianti da norma a norma, è risultata sempre più evidente la tendenza a riservare la facoltà di stipulazione di accordi aziendali del tipo esaminato agli organismi di rappresentanza sindacale in azienda e/o alle associazioni sindacali maggiormente, anzi oggi comparativamente più rappresentative.

Il decennio successivo ha visto un’ulteriore accentuazione della tendenza a promuovere il decentramento contrattuale, ancora con preferenza per una contrattazione “sindacale” garantita dal crisma della maggiore rappresentatività: si possono menzionare, come emblematici del periodo, il D.Lgs. n.66/03, in tema di orario di lavoro e riposi, ove tutto o quasi è disciplinabile (spesso anche in deroga) pure a livello aziendale, e naturalmente il D.Lgs. n.276/03 (decreto Biagi).

Dopo di che, un salto di qualità nella medesima direzione è stato realizzato dal discusso art.8, L. n.148/11, che oltre ad abilitare come non mai la contrattazione aziendale in deroga (v. infra), vi ha esplicitamente agganciato la possibilità di conseguire l’efficacia generale di tale contrattazione (e, derivando da una legge e non da un accordo sindacale, questa efficacia è veramente erga omnes), poi detta “di prossimità”, a condizione che vengano rispettate le procedure maggioritarie previste dall’allora appena stipulato Accordo Industria del 28 giugno 2011 (richiamo da riferire, adesso, al T.U. Rappresentanza del 10 gennaio 2014) o da accordi consimili.

È questa, a mio giudizio, la parte migliore e propulsiva della norma, per altri aspetti discutibile: la legge recepisce, in tal modo, e anche se limitatamente ai contratti aziendali ivi presi in considerazione (v. infra), il criterio maggioritario già indicato dalle parti sociali, e ne stabilizza gli esiti giuridici sul piano dell’ordinamento generale.

La pur rapida analisi qui proposta non può non concludersi con il recente D.Lgs. n.81/15, emanato nell’ambito del Jobs Act, e contenente novità come la riscrittura della disciplina delle mansioni e il riordino della normativa in tema di contratti non standard, il quale contiene una norma, quella di cui all’art.51, che ha subito rivelato tutto il suo peso sistematico.

Essa prevede, infatti, che a tutti i fini di cui al decreto, e salvo che sia diversamente disposto, le norme di rinvio ai contratti collettivi debbono essere lette come riferite ai contratti di qualunque livello, purché stipulati, i contratti nazionali territoriali o aziendali, da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e quelli aziendali anche dalle Rsu o dalle Rsa riconducibili alle predette associazioni sindacali (ove la selezione, tra le Rsa legittimate, è stata resa opportuna dal fatto che l’art.19, L. n.300/70, non contempla più da tempo, come criterio di individuazione dei sindacati nel cui ambito possono essere costituite Rsa, requisiti di rappresentatività, per tacere dell’ulteriore ampliamento del novero dei sindacati legittimati operato da Corte Cost. n.231/13).

La norma è importante, oltre che per la conferma dei requisiti di rappresentatività che debbono avere le associazioni sindacali o gli organismi di rappresentanza dei lavoratori per poter aspirare ad attuare i rinvii legislativi, per l’equiparazione integrale, ai fini dei medesimi, della contrattazione territoriale e soprattutto di quella aziendale a quella nazionale.

Il che consolida le tendenze al decentramento dei poteri normativi demandati alla contrattazione collettiva, emerse nella legislazione di ultima generazione dal decreto Biagi in avanti.

La norma, invero, non si pronuncia direttamente sull’efficacia erga omnes dei contratti collettivi ivi considerati, ma il salto per giungere a tale ulteriore meta non pare impossibile.

E già vi sono segni (ad esempio nell’imminente decreto Produttività, attuativo della detassazione 2016) di come l’art.51 riesca a proporsi con un certo successo come modello generale di norma disciplinante, sotto il profilo della selezione dei soggetti sindacali, i dispositivi legali di rinvio alla contrattazione collettiva.

 

Il sistema delle deroghe

Anche a proposito delle deroghe si registra un intreccio, non sempre ben gestibile, tra dati di provenienza contrattuale e legislativa.

Cominciando dai primi, è con l’Accordo (separato) del 22 gennaio 2009 che il sistema della contrattazione collettiva ha cominciato ad aprirsi in modo ufficiale nei confronti della possibilità (pur già ammessa, in buona sostanza, dalla giurisprudenza, anche se di solito alla condizione che le deroga provenga dalle stesse sigle sindacali del Ccnl) di introdurre, da parte dei contratti collettivi di 2° livello (quindi anche di quelli territoriali), deroghe peggiorative nei riguardi dei trattamenti derivanti dal Ccnl.

Rispetto a tale possibilità, l’Accordo (unitario) del 28 giugno 2011 per l’Industria ha introdotto una normativa nuova, che ha superato quella del 2009, e la cui principale novità politico-sindacale è stata l’apertura della Cgil nei confronti di quelle ivi pudicamente denominate, come poi anche nell’art.8, “intese modificative” delle regolamentazioni contenute nei Ccnl.

Il tutto è stato poi ripreso dal T.U. Rappresentanza del 10 gennaio 2014.

Le intese modificative possono essere previste nei contratti aziendali, al fine di “aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi”, “nei limiti e con le procedure previsti dagli stessi CCNL”. Peraltro, ove i Ccnl non prevedano tali procedure, e comunque in attesa che i rinnovi contrattuali definiscano la materia, i contratti aziendali conclusi con le rappresentanze sindacali operanti in azienda (cioè Rsu/Rsa) d’intesa con le organizzazioni sindacali territoriali di categoria espressione delle confederazioni firmatarie dell’Accordo, sono abilitati, “al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa”, ad introdurre intese modificative “con riferimento agli istituti del CCNL che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”.

In questo sistema in movimento, un ulteriore strappo si è consumato con il pluricitato art.8, L. n.148/11, il cui co.2-bis, introdotto in sede di conversione, ha abilitato le “specifiche intese” previste dal co.1 (cioè   approvate secondo un criterio maggioritario), e rivolte a finalità quali la maggiore occupazione, gli incrementi di competitività e di salario e la gestione delle crisi aziendali, nonché vertenti su specifiche materie (tra le quali: impianti audiovisivi, mansioni e classificazione del personale, contratti a termine, collaborazioni, orario di lavoro), ad operare “anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei CCNL”; ciò, “fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro”.

La parte più innovativa della disposizione è quella in cui, sovrapponendosi in modo inusuale alle regole interne del sistema di contrattazione (tra cui quella, di poco anteriore, dell’Accordo del giugno 2011), essa ha sancito la derogabilità anche in peius del Ccnl da parte dei livelli territoriale e aziendale.

Ma non meno forte è la derogabilità dei trattamenti di fonte legale, anche se per questo aspetto non si è trattato di una novità assoluta, visto che, come già anticipato, esempi di contrattazione aziendale delegata dalla legge a introdurre deroghe già esistevano, e non riguardavano soltanto questioni di crisi aziendali, ma anche situazioni organizzative fisiologiche, come la gestione dell’orario di lavoro secondo il D.Lgs. n.66/03.

Ulteriori ipotesi del genere sono state introdotte, da ultimo, dal D.Lgs. n.81/15, in base al quale, come già notato, tutte le volte che delle norme contengono deleghe ai contratti collettivi, esse debbono intendersi come rimandanti anche ai contratti collettivi aziendali assistiti da dati requisiti di rappresentatività.

Tra tali ipotesi merita menzionare: la possibilità di prevedere ulteriori (rispetto a quelle di cui alla norma) ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale (art.3, co.4); la possibilità di derogare al limite di durata di 36 mesi per i contratti di lavoro a termine (art.19, co.2); la possibilità di derogare al massimale del 20%, previsto sempre per i contratti a termine attivati in ciascun anno solare (art.23, co.1); la possibilità di derogare, ancora in tema di contratti a termine, al diritto di precedenza (art.24, co.1); la possibilità di derogare, in tema di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, al massimale del 20% (art.31, co.1).

Come può notarsi, molte delle materie prese in considerazione come possibile oggetto di regolamentazioni derogatorie, da norme di legge specifiche, sono le stesse che figurano nell’art.8, L. n.148/11, con una sovrapposizione non facile da sciogliere a livello interpretativo.

  

Conclusioni

L’assestamento giuridico del tema non è ancora totale, anche se significativi progressi sono stati fatti.

A mio giudizio, anzitutto, la questione dell’efficacia soggettiva può dirsi risolta in modo soddisfacente attraverso il ricorso al criterio maggioritario, che peraltro è applicabile soltanto ai casi di contratti stipulati dagli organismi di rappresentanza sindacale.

Meno immediata è tale applicazione quando il contratto è stipulato (anche) da associazioni sindacali esterne: né gli Accordi né l’art.8 dettano infatti una regola esplicita al riguardo, e forse l’unico espediente può essere quello di fare riferimento, come per le Rsa, alle deleghe sindacali.

Sulla deroghe, la situazione offre alcune certezze, ma a guardarla con occhio rigoroso è alquanto confusa.

Secondo la giurisprudenza, il contratto aziendale è legittimo anche se derogatorio, purché stipulato da sigle rappresentative.

Secondo gli accordi interconfederali, intese modificative si possono concludere soltanto con la necessaria presenza delle istanze sindacali territoriali accanto a Rsu/Rsa, e soltanto su determinate materie, anche se poi la violazione di questi limiti non è tale, per l’opinione prevalente, da determinare l’invalidità della clausola derogatoria fuori binario.

Restano poi gli spazi di deroga garantiti dall’art.8 e soprattutto dalle specifiche norme di legge, in entrambi i casi, tra l’altro, con una propensione verso una contrattazione gestita dalle rappresentanze sindacali, anche a prescindere dalla diretta partecipazione dei sindacati territoriali.

Nel frattempo, l’esperienza viva della contrattazione aziendale tende ad andare oltre, sviluppandosi su una serie di temi (tra i più gettonati, i trattamenti retributivi, e in specie ovviamente quelli variabili, l’orario, le pause, i turni, i diritti sindacali), rispetto ai quali neppure è sempre facile dire se i contratti contengano delle vere deroghe.

Infine, considerati tutti gli elementi di un quadro invero complesso, una razionalizzazione della disciplina sembrerebbe opportuna, pur a partire dallo spazio che la contrattazione aziendale in deroga, a mio avviso a condizione di poggiare su solide procedure maggioritarie, sembra ormai essersi conquistata.

Ma per realizzare una razionalizzazione del genere si dovrebbe intervenire, nell’ambito di un disegno organico, sulle regole della rappresentanza sindacale. Un intervento del quale si parla molto in questo periodo, ma che non è ancora certo che vi sarà.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.