5 Luglio 2017

Licenziamento del disabile per aggravamento delle condizioni di salute

di Nicola Ghirardi

La Cassazione, con la sentenza n. 10576/2017, affronta il caso di un lavoratore disabile, licenziato per aggravamento delle sue condizioni di salute, senza però che la sopravvenuta inidoneità alle mansioni venisse previamente accertata dalla Commissione prevista dalla L. 104/1992. Prendendo spunto dalla citata sentenza, l’articolo affronta il sempre delicato argomento del recesso dal rapporto di lavoro con i soggetti disabili.

 

Il collocamento obbligatorio dei disabili: la L. 68/1999 e le altre norme in materia

Come noto, la L. 68/1999 (che ha sostituito la precedente L. 482/1968 in materia) disciplina il collocamento obbligatorio dei disabili. I soggetti appartenenti alle categorie protette individuate dall’articolo 1 della suddetta normativa e da alcune altre norme speciali possono iscriversi negli elenchi del collocamento obbligatorio e avere diritto all’avviamento presso le aziende in base a una specifica graduatoria.

  • I datori di lavoro che occupano da 15 a 35 dipendenti sono tenuti ad assumere alle loro dipendenze almeno 1 lavoratore disabile di cui all’articolo 1, L. 68/1999;
  • coloro che occupano da 36 a 50 dipendenti sono tenuti ad assumerne 2;
  • mentre oltre i 50 dipendenti l’obbligo di riserva è stabilito nella misura del 7% del personale in organico, più 1% a favore dei familiari degli invalidi e dei profughi rimpatriati, ai quali l’articolo 18 della medesima legge riserva questa ulteriore e specifica quota aggiuntiva (articoli 3, 7 e 18, L. 68/1999).

Ai lavoratori assunti a norma del collocamento obbligatorio, in linea di principio, si applica lo stesso trattamento economico e normativo previsto dalla legge e dai contratti collettivi per tutti gli altri lavoratori, salve le specifiche tutele e particolarità espressamente previste dalla legge a loro favore (articolo 10, L. 68/1999).

Come osservato dalla stessa Corte di Cassazione, la disciplina interna va letta nell’ambito del ruolo sempre più pregnante che la tutela dei disabili ha assunto nell’Unione Europea e nell’ordinamento internazionale, come ad esempio nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che all’articolo 26 stabilisce che “L’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità” e nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità – adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, entrata in vigore sul piano internazionale il 3 maggio 2008 e ratificata e resa esecutiva dall’Italia con L. 18/2009 – all’articolo 27 statuisce che gli Stati parti riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri; segnatamente il diritto di potersi mantenere attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità alle persone con disabilità.

Il D.Lgs. 216/2003, inoltre, ha dato attuazione alla Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, individuando tra i fattori di rischio anche la condizione di handicap fisico, suscettibile di tutela giurisdizionale con specifico riferimento anche all’area dell’”occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento” (articolo 3, comma 1, lettera b).

 

Il licenziamento del disabile per aggravamento delle condizioni di salute

La Cassazione, con la sentenza in commento, affronta il delicato tema del licenziamento del lavoratore disabile per aggravamento delle sue condizioni fisiche. Nel caso di specie, il lavoratore – assunto ex L. 482/1968 (la normativa che regolamentava la materia prima della L. 68/1999) in quanto invalido civile – era stato licenziato a seguito di accertamento da parte del medico competente ai sensi del D.Lgs. 81/2008, dell’inidoneità a svolgere le mansioni di addetto ai servizi generali.

Il ricorso proposto dallo stesso lavoratore avverso il licenziamento veniva respinto in primo grado, con sentenza confermata dalla Corte d’Appello di Palermo, che affermava “l’irrilevanza della formulazione del giudizio di inidoneità alle mansioni di addetto ai servizi generali da parte di un medico competente anziché dalla Commissione medica ex L. n. 104/1992, posto che l’intervento del primo è stato sollecitato proprio dal lavoratore e che la diagnosi (di inidoneità) è risultata conforme a quella dallo stesso auspicata”.

In sostanza, dunque, nel caso esaminato dalla Corte, era stato il lavoratore a richiedere l’intervento del medico competente, a mente del D.Lgs. 81/2008, al fine di valutare un aggravamento del proprio stato di salute (probabilmente per ottenere un adattamento delle condizioni di lavoro). Una volta, però, che il medico stesso si era espresso affermando l’inidoneità del lavoratore alle mansioni sin lì svolte, il datore di lavoro aveva proceduto al licenziamento, senza preventiva richiesta di intervento della Commissione medica di cui alla L. 104/1992.

In caso di aggravamento delle condizioni di salute dell’avviato obbligatorio, la norma di riferimento è l’articolo 10, L. 68/1999, secondo cui: “Nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro, il disabile può chiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni a lui affidate con il proprio stato di salute. Nelle medesime ipotesi il datore di lavoro può chiedere che vengano accertate le condizioni di salute del disabile per verificare se, a causa delle sue minorazioni, possa continuare ad essere utilizzato presso l’azienda. Qualora si riscontri una condizione di aggravamento che, sulla base dei criteri definiti dall’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’articolo 1, comma 4, sia incompatibile con la prosecuzione dell’attività lavorativa, o tale incompatibilità sia accertata con riferimento alla variazione dell’organizzazione del lavoro, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibilità persista. Durante tale periodo il lavoratore può essere impiegato in tirocinio formativo. Gli accertamenti sono effettuati dalla commissione di cui all’articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, integrata a norma dell’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’articolo 1, comma 4, della presente legge, che valuta sentito anche l’organismo di cui all’articolo 6, comma 3, del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, come modificato dall’articolo 6 della presente legge. La richiesta di accertamento e il periodo necessario per il suo compimento non costituiscono causa di sospensione del rapporto di lavoro. Il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda”.

Tanto il datore di lavoro quanto il lavoratore possono quindi richiedere che venga accertata la compatibilità delle mansioni con lo stato di salute del soggetto disabile in due ipotesi: quella di aggravamento delle condizioni del lavoratore e quella in cui siano occorse “significative variazioni dell’organizzazione del lavoro”.

Posto che, nella fattispecie in esame, il licenziamento era fondato unicamente sul parere espresso dal medico competente ai sensi del D.Lgs. 81/2008, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la decisione della Corte d’Appello di Palermo, enunciando il seguente principio di diritto: “Il datore di lavoro può risolvere il rapporto di lavoro dei disabili obbligatoriamente assunti, nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro, solo nel caso in cui la speciale commissione integrata di cui alla L. 12 marzo 1999, n. 68, art. 10, comma 3, accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, non essendo all’uopo sufficiente il giudizio di non idoneità alla mansione specifica espresso dal medico competente nell’esercizio della sorveglianza sanitaria effettuata ai sensi del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81”.

In dottrina si sono sollevati dubbi relativamente a se il ricorso alla Commissione medica debba avvenire in luogo della procedura prevista dall’articolo 42, D.Lgs. 81/2008, se debba/possa essere azionato solamente a valle del giudizio del medico competente ovvero se, ancora, il datore di lavoro e il lavoratore possano indistintamente scegliere la procedura da seguire. Prudenzialmente, a mio modo di vedere, sembrerebbe opportuno richiedere prima il giudizio del medico competente e poi quello della Commissione.

Problemi possono porsi nel caso in cui il lavoratore si rifiuti di sottoporsi alla visita di controllo: in questo caso, si ritiene che possa essere licenziato per motivi disciplinari, anche se, nel caso, sarà opportuno invitarlo formalmente a sottoporsi alla visita prima di procedere al licenziamento.

La sanzione per il caso in cui il datore di lavoro licenzi il disabile senza l’accertamento da parte della Commissione sarà presumibilmente (la sentenza della Corte cassa con rinvio per la decisione) la reintegra nel posto di lavoro per violazione di norma imperativa, con le ulteriori conseguenze risarcitorie previste dalla normativa applicabile ratione temporis in caso di licenziamento nullo. Ciò non impedisce che il datore di lavoro possa successivamente richiedere l’intervento della Commissione, al fine di valutare la sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni.

La stessa Cassazione, richiamando la precedente normativa sul punto (articolo 10, L. 482/1968), aveva aggiunto che, quando il licenziamento sia determinato dall’aggravamento dell’infermità che ha dato luogo al collocamento obbligatorio, questi è legittimo non solo in caso di perdita totale della capacità lavorativa, ma anche di “situazione di pericolo per la salute e l’incolumità degli altri lavoratori o per la sicurezza degli impianti”, affermando che, anche in questo caso, il relativo accertamento compete alla Commissione medica ex L. 104/1992.

Il licenziamento del disabile rappresenta, quindi, ancor più che nelle altre ipotesi, un’extrema ratio, che ricorre solamente quando non sia in alcun modo possibile reinserire il disabile all’interno dell’azienda, neppure attraverso “adattamenti dell’organizzazione del lavoro”, secondo quanto accertato dalla Commissione.

Così, il Tribunale di Pisa ha recentemente affermato che: “Qualora il datore di lavoro non provi di aver adottato ragionevoli accorgimenti per garantire alle persone con disabilità di conservare la propria posizione lavorativa, è da ritenere ingiustificato per violazione del principio di non discriminazione il licenziamento irrogato ad una lavoratrice disabile per sopravvenuta inidoneità psico-fisica allo svolgimento delle mansioni”.

Il Tribunale, nel caso di specie, verificata la condizione di disabilità della lavoratrice e la possibilità per il datore di lavoro di superare senza oneri eccessivi la sua limitazione fisica attraverso una redistribuzione di compiti tra l’interessata e alcuni colleghi, ha censurato l’inadempimento dell’obbligo di provvedere agli accomodamenti ragionevoli (stabilito dall’articolo 3, comma 3-bis, D.Lgs. 216/2003) e ha giudicato discriminatorio il licenziamento collegato alla disabilità, condannando la società alla reintegrazione della lavoratrice e al risarcimento dei danni ai sensi dell’articolo 18, commi 1 e 2, oltre al risarcimento del danno non patrimoniale per la discriminazione subita.

Una pronuncia del Tribunale di Ivrea ha invece sanzionato con il c.d. regime di tutela reale attenuata (ai sensi dell’articolo 18, commi 4 e 7) il licenziamento di una lavoratrice la cui sopravvenuta inidoneità avrebbe potuto essere risolta con una modifica, a costi contenuti, della sua postazione lavorativa.

Ci si chiede ora quali adattamenti sia tenuto ad adottare il datore di lavoro per consentire al disabile di continuare a prestare attività lavorativa nonostante l’aggravamento delle condizioni di salute.

Il citato articolo 3, comma 3-bis, D.Lgs. 216/2003, che ha dato attuazione alla Direttiva 2000/78/CE, come visto, parla di “accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. n. 18/2009”.

Dunque, quando attraverso adattamenti dell’organizzazione del lavoro sia possibile consentire al disabile di continuare a prestare attività lavorativa, il licenziamento sarà legittimo solo nel caso in cui questi richiedano all’azienda uno sforzo economico tale da risultare sproporzionati ed eccessivi (anche alla luce dell’articolo 41, Costituzione). Si tratta di una valutazione di fatto, da effettuarsi in concreto, caso per caso, a seconda anche delle dimensioni e delle disponibilità economiche dell’azienda.

Il datore di lavoro, prima di procedere al licenziamento, dovrà inoltre valutare, come in ogni altro caso, anche la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori eventualmente presenti in azienda, compatibili con l’aggravato stato di salute del lavoratore, in ossequio al c.d. obbligo di repêchage.

Così la Cassazione ha ritenuto che: “Nel caso in cui all’invalido residui una capacità lavorativa, sussiste in capo al datore di lavoro l’obbligo di adibirlo a mansioni equivalenti o anche inferiori compatibili con il nuovo stato dell’infermità, se la struttura organizzativa dell’azienda e la situazione dell’organico aziendale lo consentono. A tal fine, deve ritenersi che il giudizio della commissione medica (…) non possa essere limitato alle mansioni in precedenza espletate dall’invalido, ma debba essere esteso anche alle altre mansioni allo stesso affidabili nell’ambito dell’azienda e che il licenziamento sia giustificato solo nel caso in cui la pericolosità, per le persone e per gli impianti, sia riferibile a tutte le possibili mansioni in concreto affidabili all’invalido”.

In un’altra sentenza, i giudici di legittimità hanno confermato una pronuncia della Corte d’Appello di Brescia, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un lavoratore disabile per le sopravvenute condizioni di salute, poiché, da un lato, il recesso era stato disposto dopo la visita del medico competente, ma prima che la Commissione sanitaria si fosse pronunciata e, dall’altro lato, per l’idoneità del lavoratore a svolgere altre mansioni compatibili, come accertato poi dalla Commissione medica (ed essendo inoltre state tali mansioni indicate dal CTU in primo grado e dal lavoratore stesso, senza che il datore avesse contrastato concretamente e specificamente la disponibilità delle stesse).

 

Licenziamento del disabile per riduzione del personale

In caso di licenziamento per riduzione del personale, l’articolo 10, comma 4, L. 68/1999, prevede che: “Il recesso di cui all’articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all’articolo 3 della presente legge”.

La norma non si applica al licenziamento disciplinare, nelle sue diverse configurazioni, in conformità con l’idea ispiratrice di tutta la L. 68/1999 di coniugare la valorizzazione delle capacità professionali dei disabili (o equiparati) con la funzionalità economica delle imprese che li assumono.

La giurisprudenza ha specificato infine che, ai fini della determinazione della quota di riserva di cui all’articolo 3, L. 68/1999, dalla cui violazione consegue l’annullabilità del recesso ex articolo 10, comma 4, della stessa legge, vanno computati anche i lavoratori apprendisti.

 

Licenziamento per motivi soggettivi

Il lavoratore disabile può essere licenziato anche per motivi disciplinari, nel rispetto delle norme procedurali e sostanziali previste per la generalità dei lavoratori, come affermato recentemente dalla Suprema Corte, che, confermando la sentenza di secondo grado, ha ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore disabile in caso di reiterate violazioni degli obblighi di diligenza e correttezza nell’esecuzione della prestazione lavorativa.

Il Jobs Act (articolo 2, comma 4, D.Lgs. 23/2015) ha equiparato – per le conseguenze – al licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale, quello “per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68”. In questo caso, il lavoratore che alleghi l’intento discriminatorio dovrà dimostrare “l’efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche in relazione ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso”.

 

Conclusioni

In caso di aggravamento delle condizioni di salute di un lavoratore disabile, il datore di lavoro può risolvere il rapporto di lavoro solo previo accertamento da parte della Commissione integrata ex L. 104/1992 della definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda, anche attuando ragionevoli adattamenti dell’organizzazione del lavoro (che non comportino sacrifici economici sproporzionati) e tenendo in considerazione anche mansioni inferiori eventualmente presenti in azienda.

In caso di licenziamento per riduzione del personale, il datore di lavoro deve comunque rispettare le quote riservate ai lavoratori invalidi, essendo altrimenti annullabile.

In caso di licenziamento per motivi disciplinari, infine, il datore di lavoro deve rispettare le norme procedurali e di sostanza applicabili per la generalità dei lavoratori (tenendo in dovuto conto, naturalmente, le sfavorevoli condizioni di salute del disabile, in particolare considerando se queste possano aver inciso sul comportamento contestato). Spetta al lavoratore, invece, dimostrare l’incidenza determinante dell’eventuale intento discriminatorio sul licenziamento.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

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