La responsabilità civile dell’atleta per danno cagionato ad un avversario durante una competizione sportiva o un allenamento
di Arash Bahavar Scarica in PDF
Ogni atleta, nell’esercizio dell’attività sportiva, è tenuto a conformarsi agli standard di condotta dettati dalle regole sportive, norme contenute nei regolamenti degli organismi sportivi. Tuttavia, se è vero che l’ordinamento tutela lo sport in termini di utilità sociale altrettanto vero è che la pratica dello stesso potrebbe arrecare un danno a un atleta. Si è soliti analizzare tale situazione sotto il profilo degli istruttori e/o dei sodalizi sportivi, ma possiamo escludere una responsabilità – sotto il profilo civilistico – dell’atleta che cagiona il danno?
Le diverse tipologie di sport in rapporto alla violenza
L’attività sportiva per l’indubbio carattere educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico che presenta è incentivata dall’ordinamento, c.d. utilità sociale dello sport.
Questa, costituente il contenuto del diritto all’esercizio della stessa, sotto il profilo giuridico va considerata «in modo unitario come comprensiva di tutte quelle condotte che siano funzionali al tipo di sport praticato, inerenti dinamicamente al gioco e occasionate direttamente dallo svolgimento dello stesso»[1].
Ogni atleta, nell’esercizio dell’attività sportiva, è tenuto a conformarsi agli standard di condotta dettati dalle regole sportive, norme contenute nei regolamenti degli organismi sportivi che individuano «una serie di comandi e divieti stabiliti sia per assicurare la parità competitiva e l’uniformità dei criteri di classificazione dei risultati ottenuti, sia per limitare i rischi che possono scaturire dalla violenza praticata»[2].
In altri termini i regolamenti degli organismi sportivi hanno la funzione sia «di salvaguardare l’incolumità dei partecipanti [sia di] salvaguardia della natura di quel determinato sport».
Ogni singola attività sportiva ha, poi, i suoi standard di condotta che variano a seconda del tipo di attività praticata. Tanto che si è soliti suddividere le attività sportive in diverse categorie, a seconda che la disciplina preveda o meno il contatto fisico fra le atlete e gli atleti.
Nello specifico l’evoluzione giurisprudenziale ha individuato 3 gruppi di attività sportive:
- attività sportiva non violenta, ovvero l’attività sportiva dove la violenza è esclusa dalla tipologia dell’attività stessa esercitata (ad esempio nuoto, tennis, atletica leggera);
- attività sportiva a violenza eventuale ovvero l’attività sportiva ove il contatto fisico è possibile ma non necessario (ad esempio calcio, pallacanestro);
- attività sportiva necessariamente violenta, ovvero l’attività sportiva ove il contatto fisico anche cruento è alla base dell’attività stessa (pugilato, judo, karate).
In relazione alle modalità di svolgimento delle attività sportive e al comportamento assunto dall’atleta, la giurisprudenza ha stabilito principi che si debbono intendere ormai acquisiti.
Qui basti dire che il ricorso alla violenza, nel caso di violazione della regola, si traduce «in illecito civile se è tale da non essere compatibile con le caratteristiche proprie del gioco nel contesto nel quale esso si svolge. Nel caso ricorra la detta compatibilità l’illecito sportivo non ha natura di illecito civile perché l’evento di danno trova giustificazione nel riconoscimento che l’ordinamento giuridico compie dell’attività sportiva, confinando nell’ambito dell’ordinamento sportivo la rilevanza dell’illecito di origine sportiva»[3].
Ne discende che l’illecito civile ricorre quando la fattispecie eccede la qualificazione di illecito meramente sportivo per l’emersione di una sproporzione della violenza adoperata rispetto alle caratteristiche del gioco e allo specifico contesto. Il quid pluris richiesto attiene sia alle modalità del fatto sia al requisito soggettivo, rilevante non solo sotto il profilo del dolo, come è evidente, ma anche della colpa, la quale acquista, alla stregua di colpa generica, la consistenza di regola cautelare di prudenza e diligenza.
Le responsabilità dell’atleta
La responsabilità di un partecipante a un’attività sportiva per i danni cagionati a un altro atleta, durante lo svolgimento di una competizione, è riconducibile all’art. 2043, c.c., salvo i casi di responsabilità aggravata.
Dovendosi precisare che la responsabilità per i danni cagionati dall’atleta durante una competizione sportiva c.d. non violenta non presenta aspetti particolari atteso che la circostanza che le modalità di svolgimento della gara/partita non prevedano – e pertanto non giustifichino – alcuna forma di violenza non consente di derogare agli ordinari criteri di imputazione della responsabilità, nei casi delle competizioni sportive a violenza eventuale o necessaria la lesione all’integrità fisica è spesso un’eventualità contemplata.
Si consideri difatti che tali attività sportive si caratterizzano per un certo grado di contrasto fisico tra i partecipanti in funzione del raggiungimento di un risultato favorevole nella disputa. Pertanto, «il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha provocato il danno sia esente da responsabilità civile sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, collegamento che va escluso se l’atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, ovvero con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco […], ovvero col contesto ambientale nel quale l’attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano»[4].
Pertanto, se è vero che l’attività sportiva, soprattutto quella agonistica, implica l’accettazione del rischio a essa inerente da parte di coloro che vi partecipano durante la gara/partita, per cui i danni da essi eventualmente sofferti rientranti nell’alea normale ricadono sugli stessi, è altrettanto vero che occorre operare un doveroso distinguo tra:
- danno causato da una condotta conforme al regolamento del gioco, che si connota in termini di imprevedibilità in ragione dello scopo della norma violata; le regole del gioco, infatti, possono essere a presidio del gioco stesso, come a presidio della incolumità dell’avversario (in alcuni sport di contatto, il divieto di colpi bassi). In questi casi se lo sportivo procura danno, pur nel rispetto della regola di gioco, il danno può non porsi a carico del danneggiante per difetto di colpa;
- danno causato da una condotta colpevole difforme al regolamento del gioco, e, in specifico, a regole dirette alla tutela dell’incolumità personale. In tale caso non si tratta di una scriminante, né tipica (consenso dell’avente diritto), né atipica, che altrimenti, l’attività sportiva sarebbe da considerare come illecita, e invece è attività consentita e socialmente utile. Piuttosto, si tratta di valutare la rilevanza della colpa.
Il singolo atleta, che partecipa a una determinata attività sportiva, non accetta il rischio di subire ogni danno possibilmente derivante dal suo svolgimento. Ad esempio, non accetta il rischio di subire danni che gli vengano dolosamente causati dall’avversario. L’atleta accetta il rischio normalmente connesso a quel tipo di sport, non ogni rischio derivante dalla condotta altrui, anche dolosa.
È dunque giustamente escluso dalla regola dell’accettazione del rischio il fatto doloso o dovuto a colpa particolarmente grave[5].
Determinante, dunque, ai fini della responsabilità è quindi, oltre al collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, l’individuazione e l’accertamento della colpa, dovendosi precisare che:
- nel compiere una simile operazione ermeneutica non è possibile prescindere dagli «ordinari criteri stabiliti dall’art. 43, c.p., in particolare riscontrando l’eventuale violazione della regola cautelare, generica o specifica, non corrispondente alla regola tecnico-sportiva in astratto applicabile»[6];
- in tali casi potrà rilevare «la qualità dell’atleta, nel senso che altro è lo sportivo professionista, da cui è richiesta maggiore attenzione, altro il dilettante in quanto quest’ultimo non ha le capacità tecniche di chi invece esercita l’attività sportiva su basi professionali e che meglio sa conformare la propria condotta alle regole del gioco»[7].
La responsabilità per gli eventi lesivi cagionati durante l’allenamento
Occorre ora soffermarsi su un caso particolare: gli eventi lesivi cagionati dall’atleta all’avversario durante l’allenamento atteso che le differenti finalità e le diverse caratteristiche di quest’ultimo rispetto alla competizione non consentono l’utilizzo degli stessi parametri di giudizio finora utilizzati. La circostanza che l’allenamento sia finalizzato a perfezionare e a migliorare la tecnica, a “studiare i colpi e le azioni” piuttosto che a prevalere sull’avversario e che sia caratterizzato da una minore carica agonistica, impone all’atleta di avere un maggiore controllo delle proprie azioni e di adottare un comportamento più diligente e prudente di quello tenuto durante la gara/partita.
L’osservanza delle regole tecniche non è pertanto sufficiente, secondo la giurisprudenza, a escludere la responsabilità dell’atleta per gli illeciti commessi durante l’allenamento. Comunemente il principio accolto è che «l’attività sportiva nel caso di esibizione e/o allenamento richiede nel comportamento dei contendenti una maggiore prudenza e cautela per evitare non necessari pregiudizi fisici all’avversario, quindi maggiore controllo dell’ardore agonistico e della forza dei colpi e ciò a fortori nell’ipotesi di sportivi di diversa esperienza e capacità e privi dei mezzi di protezione individuale nelle competizioni agonistiche»[8].
Alla luce di tale considerazione non può, tuttavia, il mero dato dell’allenamento, in mancanza di altre circostanze qualificanti, deporre nel senso del carattere sproporzionato dell’uso della violenza nel singolo episodio. L’assenza dell’ardore agonistico, mancando altri profili caratterizzanti, non rende privo di giustificazione l’episodio di mera violazione della regola del gioco che non sia connotato da caratteristiche ulteriori rispetto al mero fatto dell’allenamento. Diversamente si giungerebbe alla conclusione che ogni volta che un illecito sportivo si sia verificato in allenamento per sport a violenza necessaria e/o eventuale dovrebbe ritenersi automaticamente, per il sol fatto della ricorrenza dell’allenamento, il non configurarsi dell’illecito civile. Vero è che l’assenza di ardore agonistico espone l’illecito sportivo commesso in allenamento, rispetto a quello commesso nell’evento agonistico, alla responsabilità civile, ma, per quanto si è detto, devono essere presenti ulteriori circostanze ai fini dell’integrazione dell’“eccesso colposo”, quali, per tornare al precedente da ultimo richiamato, la sproporzione nel livello di abilità fra i due atleti e la natura elementare, e dunque facile controllabilità, della manovra atletica fonte della lesione.
Ne deriva che «nello sport caratterizzato dal contatto fisico e dall’uso di una quota di violenza la violazione nel corso di attività di allenamento di una regola del regolamento sportivo non costituisce di per sé illecito civile in mancanza di altre circostanze rilevanti ai fini del carattere ingiustificato dell’azione dell’atleta»[9].
I danni risarcibili
Qualora venga accertata la responsabilità dell’atleta, questi è tenuto a risarcire i danni cagionati all’avversario durante la competizione sportiva, che nella maggior parte dei casi sono rappresentati dal danno biologico, dal danno patrimoniale, e, qualora ne ricorrano i presupposti, dal danno morale.
Il danno biologico che, come è noto, consiste nella lesione dell’integrità psicofisica considerata in modo autonomo rispetto agli eventuali pregiudizi di ordine economico che una simile lesione può avere procurato al danneggiato, con particolare riguardo all’atleta[10] è stato definito come «diminuzione o incapacità a svolgere quelle attività extralavorative sportive che permettono non solo di produrre utilità, ma anche di riceverne»[11].
La menomazione dell’integrità fisica subita dall’atleta può determinare anche pregiudizi non economici, quali dolore, patemi d’animo, sofferenze psicofisiche che, se non sono talmente gravi da costituire una vera e propria malattia riconducibile al danno psichico, sono compresi nel danno morale, risarcibile solo se è conseguenza di un reato (art. 2059, c.c.)[12].
La funzione riparatoria riconosciuta alla responsabilità extracontrattuale impone al danneggiante di eliminare tutte le conseguenze dell’evento lesivo e di riportare il danneggiato nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se non si fosse verificato l’illecito; l’atleta è tenuto pertanto a risarcire all’avversario l’intero danno patrimoniale, nel duplice aspetto del danno emergente e lucro cessante (art. 1223, c.c.).
Il danno emergente corrisponde alla diminuzione patrimoniale subita e può comprendere le spese sostenute dall’atleta per la guarigione; si pensi ad esempio alle spese mediche per le visite specialistiche, per le terapie riabilitative, per l’acquisto di medicinali, nonché, qualora nell’incidente siano stati danneggiati o distrutti gli attrezzi usati per la competizione, le spese per la riparazione degli stessi o per l’acquisto di nuovi.
L’altro aspetto di danno patrimoniale è il lucro cessante inteso come mancato guadagno. Riguardo quest’ultimo assume notevole importanza verificare se l’atleta che ha subito il danno percepisce o meno un compenso.
Se per il primo lo svolgimento dell’attività sportiva non costituisce fonte di guadagno e pertanto la determinazione del lucro cessante non presenta aspetti particolari, per il secondo, che svolge attività sportiva a titolo oneroso, la situazione si atteggia diversamente. Considerata l’importanza fondamentale della forma fisica e dell’esercizio fisico regolare e costante per lo svolgimento della professione sportiva è evidente che anche le lesioni all’integrità fisica di modesta entità e senza conseguenze gravi per il comune cittadino possono essere oltremodo dannose per l’atleta professionista se lo costringono a un periodo prolungato di inattività.
Il calcolo del pregiudizio patrimoniale subito dall’atleta professionista a causa della perdita o riduzione della capacità di produrre reddito è effettuato con valutazione equitativa (art. 1226, c.c.) tenendo conto di numerosi elementi; oltre al reddito percepito dalla società di appartenenza, devono essere considerati anche i ricavi dalla conclusione di contratti pubblicitari e/o di sponsorizzazione.
Simili importi devono essere rapportati alle prospettive di carriera del singolo sportivo e alla durata della vita atletica, differente per ciascuna disciplina sportiva e per il ruolo ricoperto[13].
[1] L. Di Nella, Il fenomeno sportivo nell’ ordinamento giuridico, Edizioni Scientifiche Italiane, 1999, pag. 312.
[2] G. Valori, Il diritto nello Sport, Torino, 2016, pag. 257.
[3] Cass. civ. n. 4707/2023.
[4] Cass. civ. n. 35602/2021.
[5] Cass. civ. n. 12012/2002.
[6] Cass. pen. n. 21452/2023.
[7] Cass. civ. n. 35602/2021.
[8] Cass., Sez. IV pen., n. 2286 25 febbraio 2000.
[9] Cass. civ. n. 4707/2023.
[10] V. R. Frau, “La responsabilità civile sportiva”, in “La responsabilità civile. Responsabilità extracontrattuale”, in P. Cendon (a cura di), Il diritto privato nella giurisprudenza, Torino, 1998, X, pag. 379.
[11] Trib. Verona 20 marzo 1995.
[12] Cass. civ. n. 8827/2003 e n. 8828/2003.
[13] V. R. Frau, op. ult. cit., pag. 380.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Associazioni e sport”.



