7 Novembre 2025

La specificità delle mansioni nel patto di prova, fra discrezionalità datoriale e tutela del lavoratore

di Federico Avanzi Scarica in PDF

Il contributo si pone l’obbiettivo di analizzare, dalla prospettiva giurisprudenziale, la ratio e i limiti alla discrezionalità valutativa del datore di lavoro connessa al patto di prova. In particolare, ci si sofferma sul requisito della specificità delle mansioni, approfondendone i criteri applicativi e le conseguenze “sanzionatorie” qualora, in difetto, venga giudizialmente accertata l’illegittimità del licenziamento.

 

Il necessario limite alla discrezionalità datoriale

Sebbene, per risalente massima della Cassazione, la causa del patto di prova vada individuata nella tutela di un interesse comune e di reciproca convenienza dell’instaurata relazione professionale, «accertando il [datore di lavoro] le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto»[1], è di assoluta evidenza come, in concreto, sia una sola delle parti contraenti a beneficiare, in prevalenza, di questa «condizione sospensiva»[2] dell’ordinario regime di recesso.

Basti pensare che, nei limiti del periodo contrattualmente ammesso per la “verifica”, oltre all’esonero dal preavviso di cui all’art. 2118, c.c., tutte le condizioni legittimanti il licenziamento e prescritte dalla Legge n. 604/1966, vengono, a norma dell’art. 2096, c.c., sostanzialmente ribaltate, potendosi infatti procedere anche oralmente[3] e, soprattutto, senza necessità di espressa giustificazione[4].

Nondimeno, e di riflesso a ciò, in caso di opposizione alla decisione aziendale, anche l’onere probatorio risulterà, di fatto, invertito[5], gravando sul lavoratore di dimostrare, ancorché con eventuale ausilio di presunzioni[6], «sia il positivo superamento dell’esperimento, sia l’imputabilità del recesso ad un motivo, unico e determinante, che sia estraneo alla funzione del suddetto patto e perciò illecito»[7].

Questo perché, di principio, la clausola del patto di prova consente al datore di lavoro di valutare «non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione»[8]. Dunque, un licenziamento ampiamente discrezionale e che, tuttavia, trova il suo fondamentale limite[9] nel combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 2096, c.c., che dovendo, a ogni modo, implicare «l’insopprimibilità del controllo giudiziale sui comportamenti fraudolenti od elusivi del datore di lavoro»[10], prescrivono, per diritto vivente[11], che la forma scritta a pena di nullità riguardi proprio ciò che «forma oggetto del patto di prova», cioè il chiarimento della prestazione contrattualmente esigibile, di modo che vi sia «la possibilità per il lavoratore di impegnarsi secondo un programma ben definito in ordine al quale poter dimostrare le proprie attitudini, e, dall’altra, la facoltà del datore di lavoro di esprimere la propria valutazione sull’esito della prova, [presupponendo] che questa debba effettuarsi in relazione a compiti esattamente identificati sin dall’inizio»[12].

 

La specificità delle mansioni

In sostanza, lato prestatore subordinato, determinante si rivela la preventiva consapevolezza e accettazione delle mansioni – intese come “contenuto” ovvero intrinseche modalità di svolgimento dell’attività – che saranno oggetto dell’apprezzamento datoriale, in quanto «funzionale al corretto esperimento del periodo di prova ed alla valutazione del relativo esito»[13], questo anche nell’evenienza di vagliare la liceità di un ripetuto esperimento, «senza che rilevino la natura e la qualificazione dei contratti stipulati in successione»[14].

Una centralità di quanto esplicitato nel contratto di assunzione che va oltre il mero diritto all’informazione[15], divenendo anzi presupposto di vizi affliggenti la clausola ex art. 2096, c.c.:

  • c.d. funzionali, allorquando il prestatore subordinato sia adibito a incombenze diverse da quelle per le quali era convenuta la prova;
  • di c.d. nullità genetica, proprio in caso della mancata specificazione delle mansioni da espletarsi[16].

E in relazione a questa e più grave ipotesi[17], oltre al considerare come inadeguate, poiché foriere di controversia, le esplicitazioni contrattuali effettuate mediante c.d. job title[18] – fatto salvo il caso siano accompagnate da corrispondente mansionario[19] – sembrano doversi assumere, altresì, gli approdi del prevalente orientamento di legittimità, a mente del quale: «la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l’oggetto, e che il patto di prova deve contenere, può ben essere operata anche con riferimento alle declaratorie del contratto collettivo, sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata, sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi un pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria»[20].

Quest’ultima condizione, va da sé, in virtù della struttura delle classificazioni di matrice contrattual-collettiva, che, non di rado, mal si presta a riscontrare il suesposto e rigoroso canone giurisprudenziale, vuoi perché accorpa nella stessa qualifica mansioni diverse ed espressive di distinte professionalità[21], talvolta, pure accompagnate da generici rimandi[22], vuoi per il fatto di articolarsi secondo ampie “aree d’inquadramento” ovvero “ruoli”[23], definiti per criteri di professionalità e dove l’esplicazione di puntuali mansioni o non è prevista oppure è ricavabile solo in esito a una complessa interpretazione del testo contrattuale.

Dunque, sebbene astrattamente ammesso, nessun automatismo può inverarsi tra richiamo della contrattazione collettiva e valutazione di specificità della clausola di prova, imponendosi, in ogni caso, la necessità di una verifica giudiziale del caso concreto[24].

Invero, l’unico precedente di senso contrario e che senza mezzi termini considerava raggiunto il postulato grado di “precisione”, «grazie al semplice riferimento alla categoria prevista nel contratto collettivo»[25], sembra doversi ritenere definitivamente superato[26].

Anche se, a ben vedere, nella prospettiva della novellata disciplina delle mansioni[27] – la quale, come noto, ha spostato i vincoli dello ius variandi datoriale da un concetto di equivalenza “sostanziale”[28], a quello di equivalenza “formale”[29] – le pur succinte argomentazioni dell’anzidetta pronuncia, tese a valorizzare i benefici del rinvio per relationem al CCNL, consentendo «al datore di lavoro di assegnare il lavoratore ad uno degli, eventualmente plurimi, profili rientranti [nella categoria,] tutela meglio il lavoratore, che trova maggiori opportunità di utilizzazione in azienda, specie se affetto da una minorazione di salute»[30], sembrano porre la notevole questione del coordinamento fra gli artt. 2096 e 2103, c.c., ossia l’esigenza di meglio chiarire se, nella sostanza, il primo abbia l’effetto di inibire, temporaneamente, le prerogative ammesse, invece, dal secondo.

 

Le conseguenze “sanzionatorie”

Da ultimo, vi è anche da osservare come l’essenzialità del principio di specificità delle mansioni trovi, poi, pieno riscontro nelle conseguenze “sanzionatorie” previste in caso di licenziamento intimato per esito negativo della prova, ma sul presupposto di una clausola dichiarata, a posteriori, geneticamente nulla (art. 1419, c.c.).

Infatti, senza approfondire – ed eventualmente opinarne – la persuasività dei percorsi logico-giuridici, basti, in questa sede, rilevare come la giurisprudenza di legittimità, pur disattendendo le ricostruzioni di merito tese a ricondurre la fattispecie negli «altri casi di nullità previsti dalla legge», con applicazione della tutela c.d. reale piena, ex art. 18, commi 1-3, Legge n. 300/1970, e art. 2, D.Lgs. n. 23/2015[31], ha finito, comunque, per equiparare quest’ipotesi di recesso contra ius a quella in cui si accerti l’«insussistenza del fatto contestato», con applicazione, quindi, della reintegrazione c.d. attenuata, di cui all’art. 18, comma 4, Legge n. 300/1970 e art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015[32].

Cosicché, nell’ottica delle piccole imprese[33], da una tale classificazione è possibile dedurre l’applicazione del rimedio meramente indennitario, con un “tetto” fissato, in via ordinaria e per i lavoratori assunti ante 7 marzo 2025, a 6 mensilità[34], con elevazione, invece, sino a 18, per quelli avviati – o “convertiti”[35] – successivamente a tale data[36].

[1] Fra le moltissime, Cass. n. 8237/2015.
[2] Così definita dalla più risalente giurisprudenza. Cfr. Cass. n. 913/1984.
[3] Cfr. Cass. n. 29753/2017. Modalità che, di contro, non sembra essere ammessa per il lavoratore. Di recente, v. Cass. n. 24991/2025, che, disattendendo la prassi ministeriale, ha ritenuto inefficaci le dimissioni rassegnate senza le formalità di cui all’art. 26, D.Lgs. n. 151/2015.
[4] Cioè, ex art. 1, Legge n. 604/1966, «per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del Codice civile o per giustificato motivo».
[5] Ricordando che a norma dell’art. 5, Legge n. 604/1966, «L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro».
[6] Cfr. Cass. n. 14753/2000.
[7] Cass. n. 21784/2009.
[8] Cass. n. 10440/2012.
[9] Cfr. Corte Cost. n. 189/1980.
[10] Cass., SS.UU., n. 1104/1989 e giurisprudenza ivi citata.
[11] Cfr. Cass. n. 1464/1999.
[12] Da ultimo, Cass. n. 6552/2023.
[13] Cass. n. 1099/2022.
[14] Cass. n. 17921/2016 e giurisprudenza ivi citata. A conferma, si veda anche quanto prescritto dall’art. 7, comma 2, ultimo periodo, D.Lgs. n. 104/2022: «In caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle stesse mansioni, il rapporto di lavoro non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova».
[15] Rammentando che la vigente formulazione dell’art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 152/1997, include, fra le informazioni essenziali da comunicare al lavorare, proprio «h) la durata del periodo di prova, se previsto».
[16] Per una rassegna delle alterazioni inerenti alla clausola ex art. 2096, c.c., si rinvia a Cass. n. 31159/2018.
[17] Nel senso che in termini di conseguenze, rispetto ai vizi “genetici”, di cui si dirà meglio infra, sui vizi “funzionali” la giurisprudenza sembra tutt’ora incerta, proponendo anche rimendi quali «la prosecuzione – ove possibile – della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato oppure il risarcimento del danno, non comportando la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova che il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito». Così Cass. n. 31159/2018 e giurisprudenza ivi richiamata.
[18] A esempio, in Trib. Milano 8 aprile 2017, priva del requisito di specificità è stata ritenuta l’indicazione del contratto d’assunzione di «Analyst Consultant». Del pari, in App. Roma n. 138/2025, è stata considerata di per sé non esaustiva l’espressione «tecnico commerciale»; così come in Trib. Treviso n. 333/2025, ampio e generico si definiva l’espressione «impiegato con declinazione commerciale».
[19] Da intendersi come documento aziendale ab origine ed esplicitamente richiamato nel contratto individuale.
[20] Di recente, anche Cass. n. 15326/2025.
[21] Cfr. Cass., SS.UU., n. 25033/2006.
[22] Come nella vicenda vagliata da Cass. n. 1099/2022, cit., dove all’interno del livello d’inquadramento veniva utilizzata la formula «lavori di pulizia e analoghi».
[23] Si veda il novellato sistema di classificazione del personale del CCNL Metalmeccanica industria, cod. CNEL C011, 5 febbraio 2021.
[24] Cfr. Cass. n. 1099/2022, cit.
[25] Cass. n. 665/2015.
[26] Esplicitamente, Cass. n. 1099/2022, cit.
[27] A seguito delle modifiche apportate dall’art. 3, D.Lgs. n. 81/2015.
[28] «Intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto». Così, sull’art. 2103, c.c., nella versione modificata dall’art. 13, Legge n. 300/1970, Cass. n. 21025/2007.
[29] Cioè, perimetrata sulla mera riconducibilità delle mansioni «allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte».
[30] Cass. n. 665/2015, cit.
[31] Per tutte, si vedano le ampie motivazioni di Trib. Ravenna n. 302/2024.
[32] Cfr. Cass. n. 20239/2023 e Cass. n. 24201/2025.
[33] Cioè, quelle prive del requisito dimensionale di cui all’art. 18, commi 8-9, Legge n. 300/1970.
[34] Ai sensi dell’art. 8, Legge n. 604/1966, il quale prevede un risarcimento pari a «un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro».
[35] Sulla nozione di “conversione” e dei lavoratori da considerare nell’ambito applicativo del D.Lgs. n. 23/2015, si rinvia a Cass. n. 823/2020.
[36] Ai sensi dell’art. 9, D.Lgs. n. 23/2015, come modificato dalla dichiarazione d’illegittimità costituzionale di Corte cost. n. 118/2025.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza”.

Ispezioni sul lavoro, sanzioni e ricorsi