28 Febbraio 2018

Whistleblowing e rapporto di lavoro: cosa prevede la nuova L. 179/2017

di Nicola Ghirardi

La L. 179/2017, approvata il 15 novembre 2017, regolamenta il c.d. whistleblowing sul luogo di lavoro, ovvero la possibilità per i dipendenti pubblici e privati di effettuare segnalazioni e denunce per fatti illeciti di cui siano venuti a conoscenza in occasione del rapporto di lavoro. Il diritto di denuncia del lavoratore dipendente era comunque già riconosciuto dalla giurisprudenza precedente all’entrata in vigore della legge.

 

La nuova normativa sul c.d. whistleblowing

La L. 179/2017 introduce nell’ordinamento italiano una specifica tutela per il c.d. whistleblowing: il termine, mutuato dalla lingua inglese, si può tradurre, in prima approssimazione, come “fischiare” o, con una connotazione generalmente un po’ negativa, “spifferare” (si impiega il termine inglese forse perché in italiano non sembra esserci un termine che traduca il concetto con un’accezione positiva o almeno neutra: le ragioni di tale assenza terminologica sembrano avere radici culturali e sociali antiche, legate al concetto negativo di delazione, cui sono legati termini quali “talpa” o “gola profonda”). In pratica, il termine fa riferimento al comportamento di un soggetto che, venuto a conoscenza di un fatto illecito, lo denuncia all’autorità giudiziaria.

La normativa in commento, pensata in primo luogo per tutelare “l’integrità della pubblica amministrazione” (articolo 1) da comportamenti illeciti e abusivi, nello specifico ambito del diritto del lavoro trova la sua ratio nella necessità di tutelare i lavoratori che riferiscano fatti illeciti di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio delle proprie funzioni, da ritorsioni sul luogo di lavoro.

La disciplina, come vedremo, si applica non solo all’impiego pubblico (con riferimento a casi di corruzione), ma anche al settore privato, seppur con alcune differenze.

 

La disciplina del whistleblowing nel settore pubblico …

Ai sensi dell’articolo 1, L. 179/2017 – che sostituisce l’articolo 54-bis, D.Lgs. 165/2001 (T.U. pubblico impiego) – quando un dipendente pubblico segnali “condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”, non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro.

La disciplina si applica ai dipendenti delle Amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, nonché di cui all’articolo 3, D.Lgs. 165/2001, di enti pubblici economici ovvero di enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2359 cod. civ.. La normativa si applica, infine, anche ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’Amministrazione pubblica (articolo 1, comma 2).

La segnalazione/denuncia può essere presentata:

  • al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all’articolo 1, comma 7, L. 190/2012;
  • all’Autorità nazionale anticorruzione (Anac);
  • all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile.

L’eventuale adozione di misure ritenute ritorsive è comunicata in ogni caso all’Anac (dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’Amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere), la quale, a sua volta, è tenuta a informare il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza.

 

Anonimato

Al soggetto che effettua la denuncia è garantito innanzitutto l’anonimato, nei limiti in cui ciò non pregiudica il diritto di difesa dell’accusato. Così, la legge prevede (articolo 1, n. 3), che, in caso di procedimento penale, l’identità del segnalante sia coperta dal segreto, secondo quanto previsto dall’articolo 329 c.p.c., mentre nei procedimenti dinanzi alla Corte dei Conti l’identità non possa essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria.

Parzialmente diverso è il caso di procedimento disciplinare aperto nei confronti di un soggetto in ragione di una segnalazione: in questo caso l’identità del segnalante non può essere rivelata, ove la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa. Qualora, invece, la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità.

Precedenza, quindi, al diritto di difesa dell’incolpato: se chi ha presentato la segnalazione non dà il consenso a che sia rivelata la sua identità e ciò comprometta la possibilità di difendersi dell’incolpato, la segnalazione non potrà essere utilizzata a fini disciplinari.

Inoltre, i contenuti della segnalazione presentata dal lavoratore sono sottratti alla possibilità di accesso agli atti prevista dall’articolo 1, comma 4, L. 241/1990.

 

Gestione delle segnalazioni

L’Amministrazione pubblica (tramite l’Anac, sentito il parere del Garante per la protezione dei dati personali) adotta linee guida relative alle procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni, che prevedano l’utilizzo di modalità anche informatiche e promuovano il ricorso a strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione (articolo 1, comma 5).

Qualora non vengano adottate, dalla singola Amministrazione, procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni di cui al punto precedente, ovvero venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, l’Anac provvederà ad applicare al responsabile una sanzione amministrativa pecuniaria che va da 10.000 a 50.000 euro (articolo 1, comma 6).

 

Tutela contro misure discriminatorie

Come visto (art. 1, comma 1), la legge prevede che il dipendente che effettui segnalazioni relative a fatti illeciti di cui sia venuto a conoscenza non possa essere “sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro”.

Nel caso in cui il segnalante lamenti di essere stato vittima di un atto discriminatorio, come indicato al punto precedente, spetta all’Amministrazione pubblica o all’ente dimostrare che le misure (ritenute) discriminatorie o ritorsive siano motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa (articolo 1, comma 7).

La legge afferma poi che, nel caso in cui venga accertata la natura ritorsiva degli atti adottati dall’Amministrazione o dall’ente, questi sono nulli e, in caso di licenziamento, al lavoratore spetta la reintegra ai sensi dell’articolo 2, D.Lgs. 23/2015.

In aggiunta, è previsto che l’Anac applichi al responsabile che ha adottato misure ritorsive una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro (articolo 1, comma 6).

Le suddette tutele non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia di cui al comma 1 ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave (articolo 1, comma 9).

 

… e nel settore privato

La normativa in commento prevede poi, all’articolo 2, una tutela specifica anche per i lavoratori del settore privato.

 

Modelli di organizzazione e di gestione

La legge in commento inserisce (articolo 2, comma 1), in primo luogo, una serie di disposizioni all’interno del D.Lgs. 231/2001 (in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica).

In particolare, con riferimento ai “modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati” – che gli enti devono predisporre per non rispondere dei reati commessi da soggetti che svolgano funzioni di amministrazione, direzione o gestione di fatto dell’ente stesso – di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), della citata normativa, la L. 179/2017 richiede ora che tali modelli prevedano:

  1. uno o più canali che consentano ai soggetti indicati nell’articolo 5, comma 1, lettere a) e b), D.Lgs. 231/2001, di presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, rilevanti ai sensi della L. 179/2017 e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte; tali canali garantiscono la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione;
  2. almeno un canale alternativo di segnalazione idoneo a garantire, con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del segnalante;
  3. il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione;
  4. nel sistema disciplinare adottato ai sensi dell’articolo 6, comma 2, lettera e, D.Lgs. 231/2001, sanzioni nei confronti di chi viola le misure di tutela del segnalante, nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate.

È importante anche per le aziende private, dunque, adottare tali modelli di organizzazione e gestione per le ipotesi di whislteblowing, al fine di evitare di incorrere nella responsabilità penale di cui si è detto.

 

Tutela del soggetto segnalatore

Al pari di quanto previsto per il settore pubblico, anche per quello privato la legge prevede la tutela contro “misure discriminatorie” eventualmente adottate contro il segnalante: secondo le nuove norme, dunque, “il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo”, così come “il mutamento di mansioni ai sensi dell’art. 2103 c.c., nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante” (articolo 2).

L’adozione di misure discriminatorie nei confronti dei soggetti che effettuano le segnalazioni può essere denunciata all’Ispettorato del lavoro, per i provvedimenti di propria competenza, oltre che dal segnalante, anche dall’organizzazione sindacale indicata dal medesimo (articolo 2).

Anche in questo caso, è previsto che sia onere del datore di lavoro dimostrare che le misure discriminatorie eventualmente adottate “sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa” (articolo 2).

 

Obbligo di segreto

Infine, all’articolo 3, comma 1, la legge in commento prevede che il perseguimento dell’interesse all’integrità delle Amministrazioni, pubbliche e private, nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni, costituisce giusta causa di rivelazione di notizie coperte dall’obbligo di segreto di cui agli articoli 326, 622 e 623 c.p. e all’articolo 2105 cod. civ..

La suddetta disposizione non si applica nel caso in cui l’obbligo di segreto professionale gravi su chi sia venuto a conoscenza della notizia in ragione di un rapporto di consulenza professionale o di assistenza con l’ente, l’impresa o la persona fisica interessata (articolo 3, comma 2).

 

Il whistleblowing prima della L. 179/2017: il diritto di denuncia del lavoratore

L’introduzione della legge in esame non sembra apportare novità di particolare rilievo per quanto riguarda la tutela offerta al lavoratore che presenti una denuncia nei confronti del datore di lavoro.

La giurisprudenza, già da lungo tempo, infatti, aveva affermato, con orientamento pacifico, che il lavoratore che presenti denuncia non può essere per tal motivo licenziato, anche se la denuncia si riveli infondata.

In particolare, la Cassazione, con la sentenza n. 22375/2017, ha recentemente affermato che: “Non integra giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento la condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria competente fatti di reato commessi dal datore di lavoro, a meno che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o la consapevolezza della insussistenza dell’illecito, e sempre che il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti. È di per sé sola irrilevante la circostanza che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con la archiviazione della “notitia criminis” o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della denuncia stessa”.

Secondo i giudici di legittimità non è, dunque, sufficiente che la circostanza denunciata dal dipendente si riveli falsa per giustificare il licenziamento, ma è necessario che sussista una delle seguenti condizioni:

  • che risulti il carattere calunnioso della denuncia o l’iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza dell’insussistenza del fatto o dell’assenza di responsabilità del datore;
  • che il lavoratore abbia dato pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.

I medesimi principi valgono anche in relazione agli esposti inoltrati all’autorità competente che abbiano ad oggetto la commissione di illeciti sanzionati in via amministrativa. Anche in questo caso, infatti, vengono in rilievo gli stessi interessi pubblici che giustificano la limitazione di responsabilità di cui sopra si è detto, sicché solo la consapevolezza dell’insussistenza del fatto denunciato può integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ove il lavoratore si sia limitato alla presentazione dell’esposto o della denuncia e si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.

Al lavoratore è sempre stato riconosciuto un pieno diritto di denuncia nei confronti del datore di lavoro, non comprimibile neppure nel caso in cui la denuncia si riveli falsa o infondata, salvo l’intento calunnioso o diffamatorio di cui si è detto.

Nulla di nuovo rispetto al passato sotto questo profilo, dunque, nella nuova disciplina, che, come detto, prevede la nullità dell’eventuale licenziamento del dipendente che abbia fatto una segnalazione o una denuncia (salvo, viene ribadito, che venga accertata la calunnia o la diffamazione).

Il quadro giuridico risulta sostanzialmente immutato anche nel caso di demansionamento (comunque vietato, nei limiti previsti dal novellato articolo 2103 cod. civ.), di trasferimento del lavoratore o di altre misure ritorsive o discriminatorie adottate nei confronti del segnalante, che sarebbero state comunque ritenute illegittime anche in precedenza, in quanto fondate su motivo illecito.

Pur condividendo lo spirito della legge, che promuove un funzionamento della P.A. e del settore privato ispirato al rispetto della legalità e della correttezza, non si può nascondere un certo rischio relativamente al fatto che qualche lavoratore, che si senta per esempio “in odore di licenziamento”, possa presentare una segnalazione o una denuncia (magari pretestuosa) al solo fine di poter invocare in giudizio le tutele ora espressamente previste dalla L. 179/2017 (in particolare la tutela reintegratoria in caso di licenziamento), rendendo così più incerto l’esito del giudizio stesso.

Ai giudici, dunque, il (difficile) compito di valutare in concreto, caso per caso, la fondatezza della segnalazione, da un lato, e le effettive ragioni dell’eventuale provvedimento disciplinare, dall’altro.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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