16 Luglio 2020

Trasferte: una pronuncia poco chiara dalla Cassazione

di Luca Vannoni

Non bastasse il caos che, in modo sempre più prepotente, sta caratterizzando la produzione normativa e interpretativa in materia di ammortizzatori sociali COVID-19, tra norme di pessima fattura, annunci di prossimi interventi e quotidiani interventi di prassi in cui si fatica ad orientarsi, pochi giorni fa (7 luglio 2020, n. 14047) la Corte di Cassazione, sezione V, ha pubblicato un’ordinanza in cui sembra riaprire una questione che sembrava ormai sopita, la distinzione tra trasferta e trasfertismo al fine della corretta applicazione dell’articolo 51, Tuir.

Nel 2016, proprio per chiudere un contenzioso ormai fuori controllo, con l’articolo 7-quinquies, D.L. 193/2016, era stata introdotta una norma di interpretazione autentica che definiva le condizioni di applicazione del regime da trasfertista, legate alla contemporanea presenza dei seguenti elementi:

  1. la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro;
  2. lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;
  3. la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta.

Basta l’assenza anche di una delle 3 condizioni affinché possa essere applicato il regime previsto dall’articolo 51, comma 5, Tuir, per le trasferte.

Tornando alla sentenza in commento, dopo i 2 gradi di merito favorevoli al contribuente, l’Agenzia delle entrate ha presentato ricorso in Cassazione, articolandolo su 2 motivi.

In particolare, nel primo, si sostiene che “poiché la trasferta è caratterizzata dalla temporaneità del mutamento del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, ai fini della corretta applicazione delle previsioni di cui all’art. 51, comma 5, Tuir, è indispensabile che la sede di assunzione del lavoratore sia anche il luogo in cui il lavoratore è chiamato normalmente a svolgere la propria attività lavorativa; pertanto, laddove la sede di assunzione costituisce, invece, un mero riferimento per la gestione burocratica del rapporto di lavoro ed il lavoratore viene normalmente chiamato a svolgere la propria attività in altro luogo, le somme corrisposte dal datore di lavoro a titolo di indennità di trasferta e di rimborso chilometrico non beneficiano del trattamento fiscale previsto dalla norma citata”.

In modo del tutto inaspettato, la Cassazione ha condiviso tale motivo di ricorso: lasciano perplessi, tuttavia, i ragionamenti utilizzati dalla Suprema Corte per arrivare a tale esito. Oltre a non richiamare il D.L. 193/2016, che, come norma interpretativa, poteva essere applicata anche in modo retroattivo, l’ordinanza si concentra sul concetto di retribuzione imponibile, con passaggi che non sembrano coerenti con lo stesso ricorso (“non è perciò applicabile al caso in esame il precedente orientamento giurisprudenziale che porterebbe a considerare come interamente retributivi i compensi corrisposti agli odierni trasfertisti”).

Nemmeno una parola spesa sulla distinzione tra trasferta e trasfertismo, o sull’impossibilità di riconoscere trasferte a lavoratori “ontologicamente” trasfertisti (ad esempio, installatori), questione, lo ricordo, che doveva essere stata superata dal D.L. 193/2016.

 

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