14 Luglio 2025

Anche il convivente di fatto rientra nella disciplina dell’impresa familiare

di Ludovica Tavella Scarica in PDF

L’art. 230-bis, comma 1, c.c., tutela il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nell’impresa familiare, dovendosi intendere per tale, ai sensi del successivo comma 3, il coniuge, i parenti entro il terzo grado, nonché gli affini entro il secondo. Nel 2016, la Legge Cirinnà ha ampliato il predetto novero estendendo la disciplina dell’impresa familiare anche alla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, ma non anche ai conviventi di fatto, per i quali ha invece previsto una tutela specifica, ma più ridotta, mediante l’introduzione dell’art. 230-ter, c.c..
Preso atto del mutato contesto sociale nonché dell’evoluzione della giurisprudenza che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto, la Corte costituzionale, con sentenza n. 148/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, comma 3, c.c., nella parte in cui non prevedeva come familiare anche il convivente more uxorio e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto, nonché, in via consequenziale, l’incostituzionalità derivata dell’art. 230-ter, c.c..
Conformandosi alla predetta pronuncia della Consulta, le Sezioni Unite della Cassazione, con la recente ordinanza n. 11661/2025, hanno dichiarato illegittima l’esclusione del convivente more uxorio dalla qualifica di familiare di cui all’art. 230-bis, comma 3, c.c., laddove risulti un apporto lavorativo effettivo e continuativo del convivente all’impresa familiare, così riconoscendo in capo a quest’ultimo le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della parte unita civilmente all’imprenditore.

 

L’impresa familiare

L’art. 230-bis, c.c., disciplina l’impresa familiare tutelando il soggetto che presta lavoro, in modo continuativo, a favore dell’impresa gestita da un familiare, l’imprenditore, al quale sia legato da un determinato grado di parentela o affinità.

La disciplina relativa al lavoro nell’impresa familiare ha natura residuale, in quanto trova applicazione solo laddove non sia ravvisabile un diverso rapporto di lavoro, e mira quindi a garantire una tutela minima e inderogabile a quei rapporti lavorativi che si svolgono in un contesto peculiare, quale è quello familiare, e che non siano riconducibili al rapporto di lavoro subordinato ovvero autonomo o a quello di tipo societario[1].

Nello specifico, l’art. 230-bis, comma 1, c.c., stabilisce che «Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi della azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi».

In sostanza, l’apporto lavorativo richiesto dall’art. 230-bis, c.c., dev’essere continuativo: ciò significa che il familiare deve collaborare nell’impresa familiare in modo regolare e costante, ancorché non a tempo pieno e neppure in via esclusiva o prevalente.

Lo svolgimento di detta attività dà al familiare diritti di carattere economico, tra i quali quello al mantenimento e a una quota di utili, di beni acquistati con gli stessi utili reinvestiti, nonché di incrementi dell’impresa familiare, proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, nonché diritti di carattere gestorio, potendo partecipare, nei termini di cui alla citata norma, alle decisioni riguardati l’impiego degli utili e degli incrementi, nonché a quelle relative alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa.

Proseguendo, l’art. 230-bis, c.c., al successivo comma 3, individua la figura del familiare che gode della tutela sopra descritta, precisando che «Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo».

Sul punto si evidenzia che, con l’entrata in vigore della Legge n. 76/2016 sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, c.d. Legge Cirinnà, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrano nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano – seppur con qualche eccezione – anche a ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso[2].

Conseguentemente, rientrano nel novero dei familiari di cui all’art. 230-bis, comma 3, c.c., il coniuge o la persona unita civilmente, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.

 

Il convivente di fatto

Come visto poco sopra, la Legge Cirinnà ha esteso la disciplina dell’impresa familiare anche alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, ma non anche ai conviventi di fatto, intendendosi per tali 2 persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile[3], per i quali ha, invece, previsto una specifica tutela, ma più limitata.

L’art. 1, comma 46, Legge n. 76/2016, infatti, ha introdotto l’art. 230-ter, c.c., prevedendo, per il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente, una partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in base al lavoro prestato, salvo che tra i conviventi non esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.

Diversamente dal coniuge o dal soggetto unito civilmente, al convivente di fatto, quindi, non viene riconosciuto il diritto al mantenimento né quello di partecipare alle decisioni relative all’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis, c.c.

Ma occorre dare atto che, dall’entrata in vigore della Legge Cirinnà, il contesto sociale è profondamente mutato e che, nel contempo, si è assistito a un’evoluzione giurisprudenziale che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto, e culminata nella recente pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite, n. 11661/2025, che verrà esaminata nel prosieguo.

 

Il caso

La vicenda trae origine dalla causa promossa dalla convivente del de cuius nei confronti dei figli-eredi di quest’ultimo, volta ad accertare l’esistenza dell’impresa familiare relativa all’azienda agricola del defunto e a ottenere la condanna dei coeredi alla liquidazione della quota spettantele quale partecipe all’impresa.

Nello specifico, la ricorrente deduceva di aver avuto una convivenza stabile con il de cuius, durata parecchi anni, e di aver prestato attività lavorativa in modo continuo nell’azienda agricola del partner dal 2004, anno di iscrizione al Registro delle imprese, sino al 2012, anno del decesso del compagno.

L’adito Tribunale di Teramo rigettava il ricorso, osservando come il riconoscimento della quota di partecipazione all’impresa familiare ex art. 230-bis, c.c., presupponga la sussistenza del rapporto di coniugio, o di parentela, o di affinità di cui al comma 3, della medesima norma, non rinvenibile nel caso di specie, trattandosi infatti di una convivenza di fatto.

La Corte d’Appello di Ancona, confermando la sentenza del Tribunale di primo grado, respingeva la domanda della ricorrente ritenendo, allo stesso modo del giudice di prime cure, che l’art. 230-bis, c.c., non trovasse applicazione, non potendo il convivente di fatto essere considerato familiare ai sensi del comma 3, della medesima disposizione codicistica, ed escludendo anche l’applicabilità del successivo art. 230-ter, c.c., in quanto il rapporto di convivenza era cessato nel 2012, ossia prima dell’entrata in vigore della Legge Cirinnà, che, con l’aggiunta di detta norma, aveva in parte esteso la disciplina dell’impresa familiare ai conviventi di fatto.

La Corte territoriale evidenziava, inoltre, come, in ogni caso, vi fossero ulteriori circostanze ostative all’ipotizzata partecipazione all’impresa familiare; risultava, infatti, che:

  1. il de cuius fosse rimasto, fino al decesso, formalmente legato in matrimonio a un’altra persona;
  2. la ricorrente avesse stipulato, seppur per un breve periodo di tempo, un contratto di lavoro subordinato con l’azienda agricola del convivente, che avrebbe quindi escluso l’applicabilità dell’art. 230-bis, c.c., avendo la disciplina dell’impresa familiare natura residuale (cfr. il comma 1: «Salvo che non sia configurabile un diverso rapporto…»);
  3. la stessa fosse, inoltre, regolarmente assunta presso la Regione Lombardia.

La signora ricorreva, quindi, per cassazione, evidenziando come la Corte territoriale non avesse considerato le mutate sensibilità sociali in materia di convivenza, oltre che le apertura della giurisprudenza di legittimità nonché di quella costituzionale verso il convivente more uxorio, e ritenendo che la disciplina dell’impresa familiare dovesse trovare applicazione anche in assenza di una norma rivolta espressamente al convivente, in base a una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 230-bis, c.c..

La Sezione lavoro della Suprema Corte, con ordinanza interlocutoria, trasmetteva il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, sollevando dubbi di costituzionalità sull’esclusione del convivente more uxorio dalla sfera di applicazione dell’art. 230-bis, c.c.

Riteneva, infatti, che l’orientamento di legittimità – secondo il quale presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima, con la conseguenza che l’art. 230-bis c.c. non è applicabile nel caso della mera convivenza di fatto, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di applicazione in via analogica – andasse rivisto alla luce sia degli interventi legislativi che di quelli giurisprudenziali di apertura nei confronti delle convivenze more uxorio[4].

La Sezione lavoro, considerata l’impossibilità di applicare retroattivamente l’art. 230-ter, c.c., introdotto dalla Legge Cirinnà, e preso quindi atto del mutato contesto sociale che ha visto una maggiore diffusione delle convivenze more uxorio – di cui hanno tenuto conto sia il Legislatore (con la predetta riforma del 2016), che la Corte costituzionale (nei casi in cui venga in considerazione la lesione di diritti fondamentali come il diritto sociale all’abitazione o il diritto alla salute), che la giurisprudenza penale –, evidenziava che un’esclusione del convivente, che per lungo tempo abbia lavorato nell’impresa familiare, dalla tutela di cui all’art. 230-bis, c.c., si porrebbe in contrasto non solo con gli artt. 2 e 3, Costituzione, ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE.

La Sezione lavoro suggeriva, quindi, la necessità di un intervento nomofilattico, al fine di chiarire se l’art. 230-bis, comma 3, c.c., possa essere evolutivamente interpretato e, dunque, se si possa includere nel novero dei familiari anche il convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità.

In ragione della particolare importanza della questione di massima, il Primo Presidente assegnava la causa alle Sezioni Unite, che, ritenendo tale trattamento differenziato irragionevole e non superabile da una lettura estensiva delle disposizioni vigenti, sospendevano il giudizio rinviando gli atti alla Consulta e sollevando, quindi, questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36, Cost., all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e ancora, per il tramite dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12, Convenzione Europea dei diritti dell’uomo – dell’art. 230-bis, commi 1 e 3, c.c., nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio e, in via derivata, dell’art. 230-ter, c.c., che applica al convivente di fatto, che presti stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente, una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare.

 

La pronuncia della Corte costituzionale n. 148/2024

La Consulta, investita della questione, ha dichiarato, con sentenza n. 148/2024, l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, comma 3, c.c., nella parte in cui non prevede come familiare anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto, per violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35, Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, comma 1, Cost.) in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto ai sensi dell’art. 2 Cost., nonché del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, Cost.).  In via consequenziale, ai sensi dell’art. 27, Legge n. 87/1953, ha altresì dichiarato l’incostituzionalità derivata dell’art. 230-ter, c.c. che non ha riconosciuto al convivente di fatto la stessa tutela del coniuge/familiare, ma una tutela differenziata e inferiore, non comprensiva del riconoscimento del diritto al mantenimento nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare, con una conseguente ingiustificata e discriminatoria riduzione di protezione[5].

In altre parole, la Corte costituzionale ha affermato che negare la tutela al convivente more uxorio che contribuisce in maniera stabile all’attività economica dell’impresa familiare viola il diritto fondamentale al lavoro e alla giusta retribuzione, nonché il principio di uguaglianza sostanziale.

La pronuncia di illegittimità costituzionale si fonda, in sostanza, sull’impossibilità di procedere a un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, poiché, se dalla Legge Cirinnà si desume l’applicabilità dell’art. 230-bis, c.c., anche alle univi civili, dall’introduzione della nuova disposizione dell’art. 230-ter, c.c., si ricava, invece, la non applicabilità della norma in questione alle convivenze more uxorio.

Il matrimonio, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, è riconducibile all’art. 29, Cost., mentre le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all’art. 2, Cost., all’interno delle quali l’individuo afferma e sviluppa la propria personalità. La questione riguarda la portata della tutela del convivente more uxorio ai sensi dell’art. 2, Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, quale è la convivenza di fatto che esige una tutela che si affianchi a quella che l’art. 29, Cost., riservata alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio[6].

La convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai diffuso e comunemente accettato nell’attuale contesto sociale, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale.

Nonostante l’evoluzione normativa e giurisprudenziale costituzionale, comune ed europea abbiano dato piena dignità alle convivenze di fatto, restano comunque delle differenze di disciplina in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono solamente dal vincolo coniugale e che giustificano un diverso trattamento normativo che trova il suo fondamento nel fatto che il rapporto di coniugio è tutelato in via diretta dall’art. 29, Cost.. Tuttavia, vi sono ipotesi particolari, come quella in esame, in cui convivenza more uxorio e rapporto coniugale presentano caratteristiche comuni e tali da richiedere l’applicazione di un’identica disciplina, che occorre garantire in virtù dell’art. 3, Cost., in quanto i diritti fondamentali devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni[7].

 

La decisione delle Sezioni Unite

A seguito della pronuncia della Consulta, la causa veniva quindi riassunta dalla ricorrente avanti alla Suprema Corte a Sezioni Unite.

Alla luce della predetta sentenza della Corte costituzionale, n. 148/2024, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, comma 3, c.c., e dell’art. 230-ter, c.c., nella parte in cui non prevedevano per il convivente more uxorio tutele equivalenti a quelle riconosciute al coniuge e ai parenti, le Sezioni Unite, con ordinanza n. 11661/2025, hanno cassato con rinvio la pronuncia della Corte d’Appello di Ancona, dichiarando illegittima l’esclusione del convivente di fatto dalla qualifica di familiare di cui all’art. 230-bis, comma 3, c.c., laddove risulti un apporto lavorativo effettivo e continuativo del convivente all’impresa familiare.

Le Sezioni Unite hanno infatti rilevato come la Corte territoriale, sul presupposto dell’inapplicabilità ratione temporis al caso di specie dell’art. 230-ter e dell’impossibilità di un’applicazione estensiva dell’art. 230-bis, comma 3, c.c., abbia del tutto pretermesso ogni accertamento in concreto circa l’effettività e la continuatività dell’apporto lavorativo della convivente nell’impresa familiare del partner, determinativo dell’accrescimento della produttività dell’impresa stessa e che la ratio decidendi andasse quindi rivista alla luce della pronuncia del giudice delle leggi[8].

La Corte d’Appello di Ancona dovrà quindi procedere a un nuovo esame tenendo conto della statuizione della Consulta, interpretativa additiva dell’art. 230-bis, comma 3, c.c. e consequenzialmente demolitoria dell’art. 230-ter, c.c.

Con la decisione in esame gli Ermellini hanno sancito il principio in forza del quale il convivente di fatto, che abbia prestato un apporto lavorativo effettivo e continuativo nell’impresa familiare, deve essere riconosciuto e tutelato al pari del coniuge, della persona unita civilmente o dei parenti e/o affini dell’imprenditore, ciò in quanto la tutela del lavoro prestato in ambito familiare non può dipendere unicamente dalla forma del legame affettivo, ma deve invece basarsi su parametri sostanziali, quali per l’appunto la stabilità della convivenza e l’effettività e continuità dell’attività lavorativa.

In conclusione, l’inserimento del convivente more uxorio nel novero dei soggetti legittimati a partecipare all’impresa familiare, di cui all’art. 230-bis, comma 3, c.c., intendendo quindi come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto, implica il riconoscimento in capo a quest’ultimo delle stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della parte unita civilmente all’imprenditore.

Data l’applicabilità dell’art. 230-bis, c.c., anche al convivente more uxorio, alla Corte territoriale non resterà che verificare in concreto la sussistenza dei requisiti di configurabilità dell’impresa familiare ossia, nella sostanza, l’esistenza di un’impresa individuale e lo svolgimento in modo continuativo di attività lavorativa in favore dell’impresa stessa, non riconducibile a un diverso schema negoziale.

[1] Cfr. Cass., SS.UU., n. 23676/2014 e Cass. n. 11533/2020.
[2] Cfr. art. 1, comma 20, Legge n. 76/2016.
[3] Cfr. art. 1, comma 36, Legge n. 76/2016. Ai sensi del successivo comma 37 «per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 13 del Regolamento di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223».
[4] Cfr. Cass., SS.UU., n. 11661/2025, punto 5.
[5] Cfr. Corte cost. n. 148/2024, pag. 19.
[6] Cfr. Corte cost. n. 148/2024, pag. 14.
[7] Cfr. Corte cost. n. 148/2024, pag. 16 e 18.
[8] Cfr. Cass., SS.UU., n. 11661/2025, nelle ragioni della decisione, al punto 4.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza”.

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