Gli accordi collettivi aziendali nel trasferimento d’azienda
di Edoardo FrigerioGiulia Sciacca Scarica in PDF
Con sentenza n. 33146, depositata il 18 dicembre 2024, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ribadisce un’interpretazione del comma 3 dell’art. 2112, c.c., conforme ai propri precedenti arresti e alla giurisprudenza comunitaria, specificando che, nei trasferimenti d’azienda, ai dipendenti ceduti si applica il contratto collettivo (anche di natura aziendale) in vigore presso il datore di lavoro cessionario e che eventuali trattamenti migliorativi precedentemente goduti in relazione a pattuizioni di fonte collettiva non possono considerarsi intangibili, bensì sempre suscettibili di revisione, anche in peius, per intervento di successive modifiche degli accordi collettivi stessi applicati.
Il trasferimento d’azienda e la tutela dei rapporti di lavoro
Le tematiche connesse alle vicende circolatorie aziendali, tra cui si annoverano tipicamente i trasferimenti d’azienda[1], appaiono particolarmente rilevanti e delicate, in quanto legate alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori e oggetto di ampia tutela sia da parte dell’ordinamento interno (art. 2112, c.c.) sia nella normativa comunitaria (Direttiva 2001/23/CE).
Ne conseguono, naturalmente, numerosi contenziosi ed altrettante pronunce che vertono principalmente sulla corretta interpretazione dell’art. 2112, c.c. La disposizione, come noto, introduce il generale principio del mantenimento dei diritti dei lavoratori nei trasferimenti d’azienda, affermando, al comma 1, che «in caso di trasferimento di impresa i rapporti di lavoro continuano con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano».
Con l’espressione «tutti i diritti» ci si riferisce al diritto alla retribuzione percepita presso la cedente, all’anzianità acquisita, alla qualifica e alle mansioni svolte, alle tutele del contratto collettivo applicato (seppur con i limiti di cui al comma 3 della medesima disposizione, di cui si dirà più approfonditamente nel prosieguo), con alcune eccezioni[2].
La pronuncia in commento si sofferma, nello specifico, sul destino degli accordi di fonte collettiva nel trasferimento d’azienda[3], passando attraverso un accorto esame alla giurisprudenza comunitaria. L’attuale testo dell’art. 2112, comma 3, oggetto dell’odierna disamina costituisce infatti, come noto, attuazione della Direttiva 98/50/CE, poi abrogata e sostituita dalla Direttiva UE 23/2001[4] e ne riproduce i medesimi contenuti.
I fatti di causa e l’inquadramento offerto dalla Corte d’Appello
La vicenda sottoposta al vaglio di legittimità della Suprema Corte trae origine da plurime azioni promosse a mezzo di ricorso ingiuntivo di pagamento da alcuni dipendenti di un’associazione, trasferiti alcuni anni prima mediante cessione di ramo di azienda a collegata società di servizi.
In occasione del passaggio era stato stipulato, mediante accordo aziendale nell’anno 1997, il mantenimento in favore dei lavoratori del precedente trattamento retributivo goduto – in ragione del livello di inquadramento rivestito ed eccedente i minimi retributivi – mediante l’indicazione in busta paga di un “superminimo non assorbibile”. Il passaggio alla società di servizi aveva, infatti, comportato il “cambio” del CCNL applicato, che era passato da un accordo di primo livello ad hoc al CCNL Terziario commercio.
Il trattamento di miglior favore in essere per i lavoratori ceduti, comprendente il già citato superminimo, veniva successivamente mantenuto e recepito in un ulteriore accordo integrativo aziendale, rimasto in vigore sino alla formale disdetta di tutti gli accordi collettivi integrativi del CCNL Commercio, avvenuta nel 2018 per comunicazione unilaterale del datore di lavoro cessionario e motivata dall’insostenibilità economica di tali emolumenti aggiuntivi.
Successivamente alla disdetta, i lavoratori trasferiti subivano l’eliminazione in busta paga della voce relativa al menzionato “superminimo non assorbibile”: gli stessi, considerando illegittima la decisione datoriale, si rivolgevano alla magistratura del lavoro per ottenere le tutele del caso e, in particolare, il pagamento del superminimo “abrogato”.
I lavoratori ottenevano, in prima battuta, l’accoglimento delle domande di pagamento richieste in via monitoria, ovvero a mezzo di decreto ingiuntivo di pagamento. Viceversa, sia nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo promossi dalla società di servizi, sia nei successivi giudizi di appello, riuniti e trattati congiuntamente dalla Corte d’Appello, le domande dei lavoratori venivano rigettate per le seguenti ragioni di diritto:
- all’accordo di salvaguardia del 1997 non poteva essere riconosciuta valenza plurisoggettiva/individuale. La natura dello stesso era chiaramente di tipo collettivo, così come il successivo accordo aziendale. Il principio è, infatti, storicamente sancito da pronuncia della Corte di Cassazione[5], secondo cui «I contratti di lavoro aziendali, alla cui stipulazione è legittimata ogni organizzazione sindacale operante nell’azienda […] hanno la natura e l’efficacia di contratti collettivi; pertanto le loro clausole ben possono essere derogate o sostituite da clausole meno favorevoli per i lavoratori, contenute in contratti collettivi successivi, sia aziendali che di categoria, essendo inapplicabile la disposizione dell’art. 2077, comma 2, c.c. che concerne esclusivamente la relazione tra contratto collettivo e contratto individuale di lavoro subordinato»;
- gli istituti del contratto collettivo non si possono normalmente incorporare in quello individuale, come da consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, recentemente ribadito dalla Suprema Corte, che ha così precisato[6]: «le disposizioni del contratto collettivo non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti, sottratti al potere dispositivo dei sindacati, ma, invece, operano dall’esterno sui singoli rapporti di lavoro come fonte individuale, sicché, nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole per il lavoratore»[7];
- gli unici diritti intangibili da parte di una norma collettiva successiva sono quelli che sono già entrati a fare parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita[8]. Non sono, quindi, soggette a tale regime di intangibilità mere pretese alla stabilità nel tempo di normative collettive più favorevoli o di semplici aspettative sorte alla stregua di tali precedenti regolamentazioni[9].
Sulla scorta degli enunciati principi di diritto, le tesi dei ricorrenti, fondate sostanzialmente sulla violazione del principio di irriducibilità della retribuzione e del divieto di c.d. reformatio in peius nei trasferimenti d’azienda, venivano respinte.
Cassazione n. 33146/2024: la decisione della Corte
La pronuncia in esame, nel confermare la decisione della Corte d’Appello, e in richiamo al proprio orientamento consolidato[10], ha ribadito che, secondo una corretta interpretazione dell’art. 2112, comma 3, c.c.[11], ai dipendenti ceduti si applica il contratto collettivo in vigore presso la cessionaria, anche se più sfavorevole, atteso il loro inserimento nella nuova realtà organizzativa e nel mutato contesto di regole, anche retributive, potendo trovare applicazione l’originario contratto collettivo nel solo caso in cui presso la cessionaria i rapporti di lavoro non siano regolamentati da alcuna disciplina collettiva.
Tale interpretazione, secondo tale arresto, non confligge né con la Direttiva EU 2001/23, né con la giurisprudenza comunitaria. Nello specifico, l’art. 3, n. 3), Direttiva 2001/23, così prevede: «dopo il trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’applicazione di un altro contratto collettivo».
Secondo la Corte di Giustizia[12], tale disposizione mira ad assicurare il mantenimento di tutte le condizioni di lavoro conformemente alla volontà delle parti contraenti del contratto collettivo e, ciò, nonostante il trasferimento di impresa. Per contro, questa stessa disposizione non è idonea a derogare alla volontà di dette parti così come manifestata nel contratto collettivo. Di conseguenza, se le parti contraenti hanno stabilito di non garantire talune condizioni di lavoro oltre una determinata data, l’art. 3, n. 3), Direttiva 2001/23, non può imporre al cessionario l’obbligo di rispettarle posteriormente alla data convenuta di scadenza del contratto collettivo, giacché, al di là di questa data, il contratto collettivo di cui trattasi non è più in vigore.
Ne consegue che l’art. 3, n. 3) non impone al cessionario di garantire il mantenimento delle condizioni di lavoro stabilite con il cedente oltre la data della scadenza del contratto collettivo.
La Suprema Corte richiama, a conferma, il proprio precedente orientamento[13], evidenziando come, anche nella sentenza 6 settembre 2011, causa C-108/10 (sentenza Scattolon), la Corte di Giustizia abbia ribadito che la norma prevista dall’art. 3, n. 2), comma 2, Direttiva 77/187 (coincidente con l’art. 3, n. 3), Direttiva 2001/23), dev’essere interpretata nel senso che «il cessionario ha il diritto di applicare, sin dalla data del trasferimento, le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione».
Secondo gli Ermellini, la ratio della richiamata disposizione di tutela, nell’ordinamento interno recepita dall’art. 2112, c.c., consiste nell’impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole «per il solo fatto del trasferimento»[14].
In questi termini si era già espressa la Suprema Corte[15], sottolineando che il trasferimento d’azienda: «non può determinare per il lavoratore trasferito un peggioramento retributivo ossia condizioni di lavoro meno favorevoli di quelle godute in precedenza, secondo una valutazione comparativa da compiersi all’atto del trasferimento, in relazione al trattamento retributivo globale, compresi gli istituti e le voci erogati con continuità, ancorché non legati all’anzianità di servizio».
Nel caso di specie, osserva il Collegio, è incontestato che al momento del trasferimento i ricorrenti non abbiano subito una decurtazione della retribuzione ed anche che il trattamento migliorativo assegnato loro rispetto agli altri dipendenti della cessionaria sia stato preservato per oltre 20 anni.
È pure incontrovertibile, alla luce dei principi di diritto già richiamati dalla Corte d’Appello, che successivamente alla cessione la retribuzione dei lavoratori trasferiti possa essere influenzata dalle dinamiche contrattuali che la disciplinano, esattamente al pari degli altri lavoratori.
Nel caso di specie, il nuovo assetto negoziale conseguente alla disdetta degli accordi di fonte collettiva ha comportato il venir meno del “superminimo non assorbibile”: i lavoratori coinvolti nel trasferimento non sono, quindi, stati collocati in una posizione meno favorevole per il verificarsi della cessione del rapporto di lavoro, bensì per il mutamento degli accordi collettivi aziendali che ha colpito il loro trattamento retributivo come quello di tutti gli altri lavoratori della cessionaria non coinvolti dal trasferimento.
La Suprema Corte ha, così, evidenziato come non vi sia stata violazione dell’art. 2103, c.c., per un duplice ordine di ragioni:
− per un verso, in quanto il trattamento retributivo goduto dai ricorrenti fino al 1996 non era determinato dal contratto individuale, ma da un contratto collettivo che, come tale, resta “fonte” esterna al rapporto individuale di lavoro, sicché le sue clausole ben potevano essere modificate anche in peius da successivi contratti collettivi;
− per altro verso, considerando che la clausola del superminimo può ritenersi incorporata nel contratto individuale di lavoro e divenire insensibile ai successivi mutamenti del contratto collettivo solo se destinata a compensare determinate qualità professionali del dipendente o determinate mansioni oppure specifiche modalità di esecuzione della prestazione lavorativa (nel caso di specie non risultava che il superminimo non assorbibile in contesa fosse riconosciuto per una delle specifiche ragioni sopra dette).
Conclusioni
La pronuncia in esame si pone nel solco già tracciato da precedenti giurisprudenziali conformi e conferma che la tutela, assicurata dall’art. 2112, comma 3, c.c., riguarda il diritto del lavoratore trasferito a non subire un peggioramento delle condizioni di lavoro rispetto a quelle godute in precedenza, per il solo fatto del trasferimento. Viceversa, tale disposizione di tutela non può estendersi sino a rendere intangibili anche per il futuro tutti gli istituti e le voci retributive erogate con continuità ai dipendenti trasferiti qualora gli stessi originino da accordi collettivi le cui clausole ben possono essere derogate o sostituite da clausole meno favorevoli per i lavoratori, contenute in contratti collettivi successivi, sia aziendali che di categoria, senza che ciò rappresenti violazione dell’art. 2112, c.c.
[1] La definizione di trasferimento d’azienda ci viene offerta dall’art. 2112, comma 5, c.c., per il quale «si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento».
[2] Per un approfondimento ad hoc sulle garanzie che assistono i crediti di lavoro si veda E. Frigerio – G. Sciacca, “Trasferimento d’azienda: le garanzie che assistono i crediti di lavoro”, in Il Giurista del lavoro, n. 8-9/2024.
[3] La cui disciplina si rinviene all’art. 2112, comma 3, c.c.: «Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello».
[4] La Direttiva 2001/23/CE, che ha sostituito l’abrogata Direttiva 98/50/CE, concerne il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti.
[5] Cass. n. 6414/1981.
[6] Cass. n. 16043/2018.
[7] Dalla pronuncia vengono richiamate anche le pronunce della Cass. n. 4517/1986, n. 1119/1995 e n. 11805/1995.
[8] Cfr. Cass. n. 6116/1988.
[9] Cfr. Cass. n. 18548/2009.
[10] V. Cass. civ. n. 37291/2021; Cass. civ. 23105/2019.
[11] Il comma 3 dell’art. 2112, c.c., così prevede: «Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello».
[12] V. sentenza Corte Giustizia 27 novembre 2008, causa C-396/07, punti 33 e 34.
[13] Espresso in Cass. n. 37291/2021.
[14] Sent. 26 maggio 2005, causa C-478/03, Celtec, Racc. pag. I-4389, punto 26 e giurisprudenza ivi citata, nonché, in merito alla Direttiva 2001/23, ord. 15 settembre 2010, causa C-386/09, Briot, punto 26.
[15] Cfr. Cass. n. 35423/2022.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro”.



