Il caso AS Roma/Gianluca Petrachi: l’inquadramento del lavoratore sportivo alla luce della pronuncia della Corte di Cassazione del 4 giugno 2025
di Mattia Grassani Scarica in PDF
Il rapporto di lavoro sportivo è definito speciale perché presenta marcate peculiarità rispetto alla disciplina ordinaria, individuate dal D.Lgs. n. 36/2021, abrogativo della Legge n. 91/1981.
Due elementi di specificità sono costituiti dalla necessaria qualifica soggettiva per il valido perfezionamento di un contratto di lavoro sportivo e dalla regolamentazione delle modalità di cessazione del rapporto, non applicandosi numerose previsioni dello Statuto dei lavoratori e della Legge n. 604/1966.
Non tutti gli enti rappresentativi delle categorie di lavoratori sportivi hanno stipulato accordi collettivi, per cui, in caso di insorgenza di controversia, le norme regolatrici vengono individuate nella legge dello Stato e nel contratto individuale di lavoro.
Uno dei più significativi precedenti contenziosi tra società sportiva e professionista sportivo è quello che ha visto opposti l’AS Roma e il direttore sportivo Gianluca Petrachi, approdato al Tribunale del lavoro di Roma – e, successivamente, alla Corte d’Appello e in Corte di Cassazione – a seguito del recesso per giusta causa intimato dalla società al lavoratore.
Il Tribunale del lavoro di Roma ha accolto il ricorso del lavoratore, dichiarando illegittimo il licenziamento e condannando la società al pagamento del risarcimento del danno, non avendo ritenuto sussistente la giusta causa sottesa al recesso.
A seguito di impugnazione da parte della compagine professionistica, la Corte d’Appello di Roma, Sezione lavoro, riformava integralmente la sentenza di primo grado, dichiarando legittimo il recesso datoriale, sul presupposto che il direttore sportivo dovesse qualificarsi come dirigente apicale, con conseguente diverso metro di valutazione dei motivi posti a fondamento dell’interruzione del rapporto, che, per risultare legittimi, non devono connotarsi come arbitrari o discriminatori.
La Suprema Corte di Cassazione, cui si è rivolto il calciatore, ritenendo determinante, ai fini della definizione del giudizio, l’accertamento della natura dirigenziale del rapporto tra AS Roma e Gianluca Petrachi, ha pronunciato ordinanza di rinvio affinché la Corte d’Appello, in diversa composizione, svolga «un nuovo puntuale accertamento che, sulla scorta dei poteri e del ruolo effettivamente svolti dal lavoratore, tenuto conto dell’ordinamento sportivo di riferimento, individui l’esatta categoria professionale rivestita dal ricorrente».
Il caso in commento offre lo spunto per rilevare come, nell’ordinamento sportivo, i rapporti di lavoro trovino ancora una disciplina eccessivamente superficiale e scarna, in sostanza poco dettagliata, che non consente di inquadrare, i diversi soggetti appartenenti alle varie categorie di lavoratori sportivi previste dal D.Lgs. n. 36/2021, nelle varie qualifiche previste dall’art. 2095, c.c., rimandandone l’accertamento all’Autorità giudiziaria ordinaria, caso per caso, compito eccessivamente complesso e aleatorio perché privo di adeguati riferimenti normativi.
Sarebbe opportuna, dunque, l’adozione di pattuizioni collettive più specifiche e adeguate all’attuale scenario delle relazioni lavorative che si sviluppano all’interno dell’ordinamento sportivo, per attribuire maggiore certezza ai rapporti e tutele più adeguate, oltre che al passo con i tempi, in favore dei protagonisti dello specifico segmento.
La Legge n. 91/1981 prima e il Decreto n. 36/2021 poi: il lavoro sportivo come rapporto “speciale”
Nel nostro ordinamento si definiscono “rapporti di lavoro speciale” quelle tipologie contrattuali che presentano caratteristiche particolari rispetto al lavoro subordinato tradizionale e, per alcuni tratti distintivi, derogano alla disciplina generale.
Tali rapporti sono spesso regolati da leggi speciali che tengono conto delle peculiarità dell’attività o della categoria di lavoratori coinvolta.
Rientrano in detto ambito il lavoro domestico, il lavoro aereo e nautico, il portierato, il telelavoro, il lavoro intermittente e, ovviamente, il lavoro sportivo, oggi disciplinato dal D.Lgs. n. 36/2021 che, come ormai noto, ha sostituito la Legge n. 91/1981, per oltre 40 anni cardine dello sport professionistico.
I 2 provvedimenti legislativi avevano e hanno un comune denominatore: l’individuazione delle categorie di soggetti titolati a instaurare rapporti di lavoro sportivo.
La Legge n. 91/1981, infatti, all’art. 2, stabiliva che: «sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici».
Con il D.Lgs. n. 36/2021, il novero delle categorie inquadrabili come lavoratori sportivi si è esteso, come chiaramente riportato dall’art. 25, comma 1, a «l’atleta, l’allenatore, l’istruttore, il direttore tecnico, il direttore sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara» nonché «ogni altro tesserato, ai sensi dell’art. 15, che svolge […] le mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti tecnici della singola disciplina sportiva, tra quelle necessarie per lo svolgimento di attività sportiva, con esclusione delle mansioni di carattere amministrativo-gestionale».
L’art. 26, D.Lgs. n. 36/2021, poi, proprio come espressione della specialità del rapporto di lavoro sportivo, dispone che «ai contratti di lavoro subordinato sportivo non si applicano le norme contenute negli artt. 4 [divieto di installazione di impianti audiovisivi], 5 [divieto di accertamenti sanitari individuali], e 18 [tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo] della Legge 20 maggio 1970, n. 300, negli artt. 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 della Legge 15 luglio 1966, n. 604 [norme sui licenziamenti individuali], negli artt. 2, 4 e 5 della Legge 11 maggio 1990, n. 108 [sempre sulla disciplina dei licenziamenti individuali], nell’art. 24 della Legge 23 luglio 1991, n. 223 [norme in materia di riduzione del personale], e nel Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 [Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti] nell’art. 2103 del Codice civile».
Il dato fondamentale, caratterizzante il lavoro sportivo sin dall’introduzione della novella del 1981, rivelatosi più che efficace, tanto da essere confermato – con un fisiologico aggiornamento – dal Legislatore del 2021, consiste nella necessità, onde potersi fregiare del relativo status, di disporre di una qualifica soggettiva specifica. Elencazione rigida e tipizzata, impermeabile a qualsivoglia applicazione estensiva.
La Legge, poi, rimette agli accordi collettivi la disciplina degli specifici rapporti di lavoro tra prestatori – riconducibili alle varie categorie professionali (atleti, allenatori, direttori sportivi, preparatori atletici e così via) – e società.
Ne consegue che, salvo rare eccezioni, le diverse Leghe appartenenti alle Federazioni sportive interessate negoziano, con ciascuna categoria, le condizioni generali del rapporto di lavoro, addivenendo alla stipulazione di un accordo collettivo valido per tutti coloro che detengono quella specifica qualifica soggettiva (atleti, allenatori, preparatori atletici, direttori sportivi ecc.) intenzionati a instaurare un rapporto di lavoro con i club, a prescindere dal livello salariale e dal ruolo di responsabilità ricoperta.
Per fare un esempio, la “stella” di un club di Serie A è assoggettata alle medesime condizioni contrattuali di un giovane che, per la prima volta, assume lo status di professionista; l’allenatore della prima squadra di una società soggiace alle medesime previsioni di un tecnico del settore giovanile operante nello stesso club; il direttore sportivo di una compagine calcistica, che sovrintende l’intera organizzazione aziendale, quantomeno dell’area tecnica, ha gli stessi diritti e doveri di un collega, avente medesima qualifica soggettiva (ovvero l’iscrizione nell’elenco speciale dei direttori sportivi tenuto dalla FIGC), il cui perimetro di attività è ben più limitato (il team manager, il dirigente del settore giovanile, il segretario sportivo).
Esistono poi i casi, per la verità non infrequenti, in cui la categoria di riferimento non ha raggiunto un accordo con una determinata Lega – o con una Federazione – per la stipulazione di un accordo collettivo.
In tali frangenti, la disciplina del rapporto viene dettata dalla Legge – nello specifico dal D.Lgs. n. 36/2021 e dalle altre disposizioni in materia di lavoro, la cui applicabilità non è espressamente esclusa dalla predetta fonte normativa – e dal contratto individuale di prestazione sportiva.
Gli esempi sono numerosi: nel calcio, la Lega Nazionale Professionisti Serie A ha siglato – lo scorso 31 luglio 2025 – un accordo collettivo con l’Associazione italiana calciatori, relativo, dunque, agli atleti, ma non ha raggiunto alcuna intesa con gli enti rappresentativi delle categorie di allenatori, preparatori atletici (Associazione italiana allenatori calcio) e direttori sportivi (Associazione italiana direttori sportivi e segretari).
Nel basket, parimenti, esistono CCNL, peraltro piuttosto datati, esclusivamente con riferimento alle categorie degli atleti e degli allenatori.
Infine, la Federazione Italiana Pallavolo – fino al 2023 avente natura dilettantistica e, dunque, comprensibilmente protagonista di un percorso più complesso – non ha adottato alcun contratto collettivo bensì esclusivamente accordi tipo individuali secondo lo schema della collaborazione coordinata e continuativa.
Il caso AS Roma/Gianluca Petrachi. I fatti e l’iter giudiziale
È in tale contesto che si è sviluppata la vicenda oggetto del presente contributo, che ha contrapposto, in una delle rarissime controversie sul tema celebrate avanti all’Autorità giudiziaria ordinaria, un soggetto iscritto all’elenco speciale dei direttori sportivi tenuto dalla FIGC, Gianluca Petrachi, e un club partecipante al campionato di Serie A di calcio, l’A.S. Roma S.p.A.
Contesto e ambito in cui non è in vigore l’accordo collettivo disciplinante il rapporto di lavoro tra club di Serie A e soggetto avente la qualifica di direttore sportivo. Nei quali non viene sottoscritta alcuna clausola compromissoria in forza della quale i contenziosi siano devoluti a collegi arbitrali, con la conseguenza che gli unici riferimenti attraverso i quali delibare il giudizio sono stati – e sono tuttora, giacché la vicenda non è ancora definita, dopo la rimessione della causa alla Corte d’Appello di Roma, Sezione lavoro, per la nuova pronuncia di merito – la legge dello Stato e il contratto individuale.
I fatti
All’inizio della stagione sportiva 2019-2020, AS Roma, società partecipante al campionato di calcio di Serie A, assumeva, con l’incarico di direttore sportivo, il sig. Gianluca Petrachi, instaurando con lo stesso un rapporto di durata triennale, e, dunque, con scadenza 30 giugno 2022.
Il 3 luglio 2020, AS Roma trasmetteva al direttore sportivo, dopo avergli notificato specifica contestazione disciplinare ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, una comunicazione, avente a oggetto il licenziamento per giusta causa, con cui la parte datoriale esercitava il recesso anticipato dal contratto, adducendo il venire meno del vincolo fiduciario in ragione di una serie di comportamenti addebitati al sig. Petrachi nel corso della prima stagione sportiva di durata del rapporto.
Lo sportivo professionista impugnava il licenziamento innanzi al Tribunale del lavoro di Roma, territorialmente competente, che, nel risolvere la controversia, ha fornito, sin dal primo grado, spunti di assoluto interesse con riferimento all’applicazione dei principi generali giuslavoristici al lavoro al rapporto sportivo.
La sentenza del Tribunale del lavoro di Roma
Innanzitutto, il giudicante premetteva – come principio generale – che «laddove, come nel caso di specie, il rapporto di lavoro è instaurato a tempo determinato, l’ipotesi di recesso non è qualificabile come licenziamento, in senso proprio, bensì quale sua cessazione anticipata da ritenersi legittima solo se disposta in presenza di una giusta causa che costituisce la sola ragione giustificativa della risoluzione anticipata del contratto a termine (Cass. 23 novembre 2020, n. 26591)».
In altre parole, poiché la stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro sportivo si caratterizza per la natura a tempo determinato, il giudice ha precisato che l’unico parametro da considerare, in ordine alla legittimità o meno del recesso intimato dalla società, consiste nella ricorrenza di una giusta causa ai sensi dell’art. 2119, c.c., facendo presente che «come è noto, la Legge n. 604/1966 non specifica in cosa consista la giusta causa ma rinvia all’art. 2119 c.c., che la definisce appunto quale evento ‘che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto».
Analizzando nel merito le contestazioni rivolte dalla società al dipendente, il Tribunale del lavoro riteneva insussistente la giusta causa del recesso, fornendo, nella motivazione della sentenza, interessanti spunti metodologici per l’analisi di questo tipo di fattispecie.
In particolare, si legge nel corpo delle motivazioni, che il giudice è tenuto a valutare «da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare».
In tale contesto, le condotte del direttore sportivo contestate dalla società sono state ritenute inopportune, integrando «forse irriguardose», ma «prive di ogni coefficiente di illiceità preordinata o di illegittimità sopravvenuta».
Applicando i principi generali alla fattispecie concreta, il giudice di primo grado ha sviluppato, nella statuizione favorevole al direttore sportivo – successivamente appellata dalla compagine giallorossa – utili approfondimenti sui profili di specialità del rapporto di lavoro sportivo, soffermandosi, in particolare, sulla disciplina della risoluzione del rapporto in ordine al quale «non è applicabile la quasi totalità delle norme previste dall’ordinamento a tutela del lavoratore licenziato».
In particolare, osserva il giudice monocratico – dopo aver descritto le deroghe normative già trattate supra – che «nel rapporto di lavoro subordinato sportivo è evidente lo squilibrio esistente tra la rigidità della fase di costituzione (dove addirittura è richiesta l’approvazione del testo contrattuale da parte della Federazione Sportiva) e la libertà che caratterizza la recedibilità del rapporto (dato che, come già chiarito, il recesso non è assistito da particolari formalità e tutele)», interpretando detto principio con la conseguenza che, ove instaurato a tempo indeterminato (ipotesi, per la verità, rarissima), «opera il c.d. “recesso ad nutum”, vale a dire il recesso che non richiede alcuna giustificazione, disciplinato dagli artt. 2118 e 2119 c.c.».
Alla luce di tali considerazioni, nonché del principio secondo cui, ai sensi dell’art. 2119, c.c., «il recesso dal contratto a termine – sia da parte del datore che del lavoratore – è consentito solo in presenza di un fatto di gravità tale da non consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto di lavoro» e, che, in tale ipotesi, «il soggetto che recede prima del termine, non per giusta causa, è tenuta a risarcire l’altra parte», la società veniva condannata a risarcire il danno in favore del direttore sportivo in misura pari all’integrale retribuzione che lo stesso avrebbe dovuto percepire fino alla scadenza del contratto, oltre al danno di immagine.
La sentenza della Corte d’Appello di Roma
La decisione del Tribunale del lavoro veniva gravata dalla società soccombente avanti alla Corte d’Appello di Roma, che, con sentenza n. 2598/2023, riformava integralmente la sentenza di prime cure.
Accogliendo l’appello, il collegio introduceva un tema non approfondito nel giudizio di primo grado, foriero di interessanti riflessioni sul piano tecnico-giuridico.
In particolare, la Corte d’Appello di Roma premette, nella propria decisione, che «occorre … muovere le mosse dal ruolo e dalla qualifica ricoperta dal DS Petrachi, per verificare se il giudice di primae curae ha fatto buon governo dei principi vigenti in materia di licenziamento dirigenziale, nell’ambito del quale va inquadrato tale recesso, ovvero abbia commesso le violazioni censurate con l’appello proposto dalla società».
Il giudice dell’impugnazione, in sostanza, ha qualificato il direttore sportivo come dirigente apicale della società, tenendo in precipua in considerazione il mansionario previsto dall’art. 1, comma 2, Regolamento dell’elenco speciale dei direttori sportivi: «È Direttore Sportivo, indipendentemente dalla denominazione, la persona fisica, che, anche in conformità con il Manuale delle Licenze UEFA e con il Sistema delle Licenze Nazionali per l’ottenimento delle licenze, svolge per conto delle Società Sportive professionistiche, attività concernenti l’assetto organizzativo e/o amministrativo della società, con particolare riferimento alla gestione dei rapporti fra società e calciatori o tecnici e la conduzione di trattative con altre Società Sportive, aventi ad oggetto il trasferimento di calciatori, la stipulazione delle cessioni dei contratti e il tesseramento dei tecnici, secondo le norme dettate dall’ordinamento della FIGC», richiamato anche dal contratto individuale di lavoro. Sulla base di tale incipit, spiega la Corte, il Petrachi «rappresentava un punto di riferimento essenziale per la squadra» e «un punto di raccordo tra i calciatori, l’allenatore e gli alti vertici della società».
In forza di tale presupposto, mai affrontato dal Tribunale del lavoro, la Corte d’Appello di Roma ha ritenuto che i fatti oggetto della contestazione andassero valutati da un punto di vista diverso, ovvero utilizzando «i principi che governano la giusta causa e la giustificatezza del licenziamento del dirigente […] applicabili all’odierno rapporto seppure in considerazione delle peculiarità del contratto di lavoro sportivo».
In tale contesto, la Corte d’Appello di Roma, ancora una volta, valorizzava i profili di specificità del rapporto di lavoro sportivo, rimarcando, però, come «le peculiarità del settore e dell’insieme degli interessi, non solo di tipo sportivo, che ruotano attorno a tale mondo, non possono fare venire meno il riconoscimento dei principi giuslavoristici e dell’insieme delle tutele previste dal Legislatore per ogni altro lavoro».
In quest’ottica, non potendo sottrarsi, il dirigente sportivo, «alle regole previste per ogni altro dirigente», il giudice d’appello ha valutato la fattispecie, rilevando come, in giurisprudenza, si sia affermato il principio in virtù del quale «il recesso intimato al dirigente deve essere supportato non da una giusta causa o un giustificato motivo, ma dalla giustificatezza che – comunque – è da intendersi come una forma peculiare di giusta causa applicata al lavoro dirigenziale», intesa come «un qualsiasi motivo ‘purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuita al dirigente».
In altre parole, secondo la pronuncia di seconde cure, l’ampiezza dei poteri e la rilevanza del ruolo attribuita al dirigente, determinerebbero maggiore elasticità e minore rigore nella valutazione dei motivi posti a fondamento del recesso dal rapporto da parte del datore di lavoro, tanto da concludere che «il licenziamento del dirigente è sempre valido se non viene dimostrata l’arbitrarietà dello stesso, se non anche la natura discriminatoria».
Tracciata la linea interpretativa della fattispecie, la Corte concludeva il proprio ragionamento, affermando che risultava comprovato il deterioramento del rapporto fiduciario tra direttore sportivo e club, in ragione del ritenuto erroneo esercizio, da parte del lavoratore, dei propri poteri e responsabilità.
«Poteri e responsabilità, che se da un lato hanno reso il rapporto di lavoro estremamente flessibile e suscettibile di essere interrotto molto più facilmente di come potrebbe avvenire per un ordinario dipendente, al verificarsi del riscontrato inadempimento hanno determinato la scelta datoriale di optare per la condizione più dura e radicale, quale è quella della verifica della sussistenza della giusta causa di recesso».
Nella sostanza, dunque, la Corte d’Appello di Roma ha accolto il ricorso della società sul presupposto che, dovendosi il direttore sportivo qualificare come dirigente apicale, la valutazione della giusta causa – rectius della giustificatezza – del recesso avrebbe dovuto eseguirsi con criteri meno rigidi di quelli adottati dal giudice di primo grado.
La sentenza della Corte di Cassazione
Scontato il ricorso per cassazione della società, il giudizio avanti alla Suprema Corte si è recentemente concluso con ordinanza di rinvio, pubblicata il 4 giugno 2025. Essa si concentra proprio sul fondamento posto dal giudice del gravame alla base della propria decisione, risultando «evidente che la qualifica del rapporto di lavoro in termini di dirigente abbia avuto una effettiva influenza ai fini della decisione presa dalla Corte territoriale».
Nello specifico, il direttore sportivo aveva contestato, tra i 6 motivi di ricorso, che «Petrachi non rientrava nella categoria dei dirigenti come risultava dal contratto di prestazione sportiva, dal ricorso introduttivo e dal fatto che nessuno delle parti avesse mai allegato tale circostanza avendo anzi sostenuto il contrario» e, conseguentemente, «la sentenza era viziata in quanto aveva deciso la controversia in violazione dell’art. 101, comma 2, c.p.c. avendo omesso il giudice di segnalare alle parti una questione che intendeva porre a fondamento della propria decisione e da loro non prospettata, concedendo un termine, non inferiore a 20 giorni e non superiore a 40, per il deposito di una memoria contenente eventuali osservazioni sulla questione».
Analizzando il percorso argomentativo della Corte di merito, congiuntamente al fatto che il direttore sportivo non ha mai affermato, nel giudizio, di rivestire un ruolo di dirigente apicale, mentre il club aveva fatto riferimento, in secondo grado, a un incarico «paragonabile ad un Dirigente con funzioni apicali», la Suprema Corte ha ritenuto necessario, attesa la centralità del profilo, svolgere «un nuovo puntuale accertamento che, sulla scorta dei poteri e del ruolo effettivamente svolti dal lavoratore, tenuto conto dell’ordinamento sportivo di riferimento, individui l’esatta categoria professionale rivestita dal ricorrente nel contraddittorio delle parti, tenendo conto della domanda svolta e dello sviluppo del processo».
Precisando, altresì, che «sono in ogni caso del tutto fuori tema il richiamo della nozione di giustificatezza e del recesso ad nutum dal rapporto di lavoro dirigenziale».
Conseguentemente, il processo sarà riassunto avanti alla Corte d’Appello di Roma che, in diversa composizione, dovrà svolgere una nuova valutazione, più approfondita, circa la riconducibilità dello status del sig. Petrachi, nel corso del rapporto di lavoro intercorso con AS Roma, alla qualifica di dirigente come intesa dalle norme e dalla giurisprudenza giuslavoristica: accertamento, questo, che inciderà in maniera decisiva sulla considerazione – in maniera più o meno rigida – relativa alla legittimità del recesso intimato dal club giallorosso.
Il lavoro sportivo e l’art. 2095, c.c.
L’interessante argomento propugnato dalla Corte di Cassazione fornisce lo spunto per un approfondimento in ordine al rapporto tra l’art. 2095, c.c. e il D.Lgs. n. 36/2021.
La norma generale – la cui applicabilità non viene esclusa per il rapporto di lavoro sportivo – dispone che «i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai. Le leggi speciali, in relazione a ciascun ramo di produzione e alla particolare struttura dell’impresa, determinano i requisiti di appartenenza alle indicate categorie».
Tuttavia, nel caso in esame, come detto, né la Legge speciale in materia di lavoro sportivo – come detto il D.Lgs. n. 36/2021 – né tantomeno gli accordi collettivi, inesistenti per alcune categorie, silenti per altre, contribuiscono a soddisfare lo scopo di attribuire, a ciascun lavoratore sportivo, la qualifica di riferimento.
È, peraltro, da rilevare come, secondo la Corte di Cassazione, Sezione lavoro (sentenza n. 8589/2015), «il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda, ed è sindacabile in sede di legittimità a condizione, però, che la sentenza, con la quale il giudice di merito abbia respinto la domanda senza dare esplicitamente conto delle predette fasi, sia stata censurata dal ricorrente in ordine alla ritenuta mancanza di prova dell’attività dedotta a fondamento del richiesto accertamento».
In proposito, nell’ambito del lavoro sportivo, il passaggio concernente «l’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria», così come il confronto tra le attività concretamente svolte e «i testi della normativa contrattuale» non sono possibili in concreto, avendo, le fonti a oggi esistenti, omesso di affrontare il tema della suddivisione, dei vari soggetti appartenenti alla medesima categoria professionale (atleti, allenatori, direttori sportivi, preparatori atletici, ecc.), nelle varie qualifiche previste dall’art. 2095, c.c. (dirigenti, quadri, impiegati, operai).
Tale esigenza appare più marcata nell’epoca moderna, laddove, all’interno di una medesima categoria (ad esempio degli allenatori, o dei direttori sportivi), ogni club assume molteplici soggetti in possesso della stessa abilitazione, affidando, però, loro le mansioni più svariate, laddove, al momento in cui l’impostazione normativa oggi vigente fu introdotta, le società sportive erano molto più snelle e semplificate ed il perimetro dei diritti e degli obblighi di ciascuna categoria di lavoratori sportivi più delineato.
Rimanendo nel novero, amplissimo, della categoria dei direttori sportivi, che la FIGC individua mediante riconoscimento di un titolo abilitativo conseguito all’esito di un esame, all’attualità, i club attingono numerosi soggetti, cui attribuisce, in base alle esigenze concrete, incarichi di direttore sportivo, team manager, segretario sportivo, segretario generale, responsabile del settore giovanile, responsabile del settore scouting e così via. Incarichi cui corrispondono poteri, responsabilità, standard retributivi molto diversi tra loro ma che, tuttavia, sono assoggettati alla medesima disciplina normativa e collettiva, in mancanza di specificazione, all’interno dell’accordo collettivo in vigore nelle serie ove è stato approvato (Serie B e Lega Pro), delle varie qualifiche all’interno della categoria.
Parimenti accade, ad esempio, per gli allenatori: l’allenatore della prima squadra di un club partecipante alle competizioni UEFA, chiamato a gestire un patrimonio tecnico del valore di centinaia di milioni di euro, ha i medesimi diritti e gli stessi obblighi, stando al tenore dei vari accordi collettivi vigenti, del tecnico responsabile della formazione under 15 dello stesso club.
A maggior ragione, poi, alla luce dell’estensione delle categorie per le quali è consentito stipulare un rapporto di lavoro sportivo, intervenuta con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 36/2021 (si è, infatti, passati, come ricordato, da atleti, tecnici, direttori tecnico-sportivi e preparatori atletici della Legge n. 91/1981 a «allenatore, l’istruttore, il direttore tecnico, il direttore sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara» nonché «ogni altro tesserato … che svolge verso un corrispettivo a favore dei soggetti di cui al primo periodo le mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti tecnici della singola disciplina sportiva, tra quelle necessarie per lo svolgimento di attività sportiva» di cui alla fonte normativa oggi vigente). Appare, quindi, auspicabile l’adozione di una disciplina più specifica e calibrata sulle esigenze e peculiarità di ogni singola categoria, all’interno della quale i prestatori di lavoro sono chiamati a svolgere, in base alle esigenze individuali, attività proprie dell’operaio, dell’impiegato, del quadro o del dirigente.
Risulta, infatti, molto complesso, oltre che eccessivamente aleatorio, pretendere, caso per caso, che l’Autorità giudicante, svolga, specie con criteri di uniformità e oggettività, ogni più ampio accertamento, senza alcuno specifico dato contrattuale ovvero in mancanza di riferimenti dalla negoziazione collettiva, della qualifica di un lavoratore, per giunta in un settore così specifico come lo sport, laddove, poi, da tale esercizio, può dipendere la sorte dell’intero rapporto di lavoro.
Inoltre, si rivela, ormai, imprescindibile l’adozione di accordi collettivi che abbraccino tutte le diverse categorie di lavoratori sportivi, in maniera trasversale, individuando le specificità e le varie declinazioni di ogni ruolo, adottando, così, in maniera esaustiva ed omnicomprensiva, la disciplina più organica e aggiornata in un settore troppo complesso per affidarsi a regolamentazioni, laddove esistenti, basiche e risalenti.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Associazioni e sport”.



