7 Ottobre 2025

Il licenziamento in assenza di un valido patto di prova determina recesso ad nutum e tutela reintegratoria attenuata

di Giulia Ponzo Scarica in PDF

I giudici di legittimità sono tornati a pronunciarsi sugli effetti del licenziamento intimato in assenza di un valido patto di prova, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 128/2024, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015.

Con la sentenza n. 24201/2025 la Corte di Cassazione ha colto l’occasione per ripercorrere gli orientamenti giurisprudenziali circa gli effetti del licenziamento irrogato in costanza di un patto di prova nullo, dalla formulazione dell’art. 18, St. Lav., antecedente la riforma del 2012, sino all’attuale previsione di cui all’art. 3, D.Lgs. n. 23/2015.

Preliminarmente, occorre rilevare come vi siano diverse fattispecie che determinano la nullità del patto di prova – che nella sentenza in commento i giudici di legittimità definiscono «nullità generica» – tra le quali ricorrono:

  1. la totale assenza del richiamo al predetto patto nel contratto di assunzione, o in un accordo antecedente o contestuale tra le parti;
  2. la mancata specifica indicazione nel contratto di assunzione delle mansioni che il dipendente è tenuto a espletare (in tale ipotesi, infatti, posto che la ratio sottesa al patto di prova è la reciproca valutazione delle parti, il datore di lavoro non potrebbe legittimamente recedere se non sono rappresentate le mansioni per le quali il dipendente è stato assunto e, quindi, quelle rispetto alle quali è stato “valutato”).

In tali ipotesi il patto di prova è nullo, ma tale nullità non si estende a tutto il contratto di lavoro, che quindi resta in essere, ma solo alla previsione contrattuale, sicché ne determina la “conversione” ab origine della definitività dell’assunzione del dipendente.

Pertanto, se nel periodo di vigenza del patto di prova il datore di lavoro può liberamente recedere dal contratto di lavoro (ex art. 1, L. n. 604/1966) senza che sussista alcuna ragione giustificatrice, qualora la clausola fosse nulla tale libera recedibilità verrebbe meno e il licenziamento sarebbe assoggettato alla verifica dei requisiti richiesti di legittimità del recesso previsti dalla normativa per la generalità dei licenziamenti.

Ed è proprio sugli effetti del recesso datoriale intimato in costanza di un patto di prova nullo che la sentenza in commento ha ripercorso i suoi orientamenti: l’art. 18, comma 2, St. Lav., a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 92/2012, prevedeva che il licenziamento ad nutum intimato in assenza del patto di prova fosse illegittimo in assenza di una giusta causa o giustificato motivo, con conseguente applicazione della c.d. tutela reintegratoria attenuata (ex art. 18, comma 4).

Successivamente, con il D.Lgs. n. 23/2015, la giurisprudenza ha poi ritenuto che il licenziamento intimato in virtù del patto in commento nullo dovesse qualificarsi quale recesso ordinario e, quindi, assoggettato alla generale valutazione giudiziale in ordine alla sussistenza, o meno, del giustificato motivo o della giusta causa, con conseguente applicazione della mera tutela indennitaria (ex art. 3, comma 1). Tale conclusione muoveva dall’impossibilità di ricondurre tale ipotesi di illegittimo recesso a quelle previste dall’art. 3, comma 2 – ossia insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore nelle ipotesi di recesso per giusta causa e giustificato motivo soggettivo – per le quali è prevista la reintegra in servizio.

Deve, però, oggi approdarsi a una nuova conclusione a seguito della pronuncia della Corte Cost. n. 128/2024 di incostituzionalità della norma sopra richiamata, nella parte in cui non prevede che si applichi la tutela reintegratoria anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro. Pertanto, il licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di prova genericamente (però) nullo, integra un’ipotesi di recesso privo di giustificazione per insussistenza del fatto, con conseguente applicazione della c.d. tutela reintegratoria attenuata (ex art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015), quindi reintegra nel posto di lavoro e indennità risarcitoria corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre atti, per un massimo di dodici mensilità.

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