2 Novembre 2022

Obblighi di salute e sicurezza del datore in caso di eventi meteo estremi e in relazione al microclima

di Fabio Pontrandolfi

Lo scritto prende spunto da un pronunciamento del Tribunale di Palermo del 18 agosto 2022, per analizzare il tema delle misure di prevenzione relative agli aspetti climatici, alla luce dei principi costituzionali di prevedibilità e di tutela della salute.

 

Premessa

Uno degli aspetti normalmente rilevanti ai fini della prevenzione nell’ambito dei rischi fisici è il c.d. microclima, ossia il normale complesso dei parametri ambientali (temperatura, umidità relativa e velocità dell’aria) che condizionano lo scambio termico tra individuo e ambiente.

Il D.Lgs. 81/2008 si occupa espressamente di questa tipologia di rischio, sia in generale (articoli 180-186) sia in particolare (caratteristiche degli ambienti di lavoro, articolo 63 e allegato IV, punto 1.9).

Il tema, dunque, non rappresenta una novità[1]. Piuttosto, occorre considerare come incide l’organizzazione del lavoro sul tema della valutazione dei rischi e sull’applicazione concreta delle disposizioni previste dal D.Lgs. 81/2008.

 

L’incidenza del microclima rispetto all’organizzazione del lavoro

La valutazione dei parametri ambientali inerenti alle temperature scontano alcune considerazioni legate all’organizzazione del lavoro. Occorre, infatti, distinguere ovviamente tra attività al chiuso (dove i fattori sono governabili con interventi di natura organizzativa e tecnica sulla struttura, ad esempio, ventilazione, aerazione, climatizzazione, etc.) e all’aperto (dove si può intervenire esclusivamente sul piano organizzativo, formativo e di dotazione dei DPI). A questi fini, ad esempio, nell’ambito dei cantieri, l’articolo 96, D.Lgs. 81/2008, prescrive genericamente che il datore di lavoro debba curare la protezione dei lavoratori contro le influenze atmosferiche che possono compromettere la loro sicurezza e la loro salute.

Occorre, ancora, considerare se l’esposizione all’evento meteo dipenda o meno dall’organizzazione del lavoro determinata dal datore di lavoro, distinguendo così, ad esempio, tra il lavoro dei portalettere o quello di cantiere e il lavoro svolto in modalità agile ovvero dal lavoratore su piattaforma.

Va, quindi, operata una fondamentale distinzione legata allo svolgimento delle attività in un luogo di cui il datore di lavoro ha la disponibilità giuridica (azienda, cantiere, terreno) ovvero in luoghi sui quali non ha alcun potere conformativo (strada, luogo individuato autonomamente dal lavoratore, luogo continuamente variabile).

Il Tribunale di Palermo (ma poi si vedrà che la giurisprudenza occupatasi dell’argomento è più ampia) ha enucleato alcuni obblighi relativi al tema legato alle temperature, partendo dalla generica prescrizione dell’articolo 2087, cod. civ., quale norma di chiusura dell’ordinamento, e dall’ampia previsione dell’articolo 47-septies, D.Lgs. 81/2015, secondo il quale

“il committente che utilizza la piattaforma anche digitale è tenuto nei confronti dei lavoratori di cui al comma 1, a propria cura e spese, al rispetto del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81”.

Come visto, ai fini dello svolgimento delle considerazioni sul tema, ciò che rileva è il cambiamento dell’organizzazione del lavoro. E ciò vale sia ai fini della valutazione dei rischi ex ante sia della presenza di eventuali fattori modificativi delle condizioni di lavoro (ad esempio, rischio della strada) e, quindi, della stessa valutazione, ai fini della vigilanza da parte del datore di lavoro, sul rispetto delle regole da parte del lavoratore, per considerare l’incidenza di fattori diversi eventualmente presenti in ambienti nei quali si svolge l’attività del lavoratore, ma che non sono governabili dal datore di lavoro. Questi fattori non possono non determinare un approccio regolatorio e valutativo differente.

L’applicazione integrale delle logiche e degli obblighi previsti dal D.Lgs. 81/2008 equivarrebbe ad applicare disposizioni ontologicamente incompatibili con la diversa realtà giuridica e organizzativa del lavoro, come dimostra lo stesso D.Lgs. 81/2008, che, proprio per questo, regola fattispecie differenti, individuando esplicitamente la normativa di settore coerentemente applicabile[2].

Per altro verso, va considerato l’aspetto fondamentale del venir meno del determinante potere di controllo da parte del datore di lavoro, che è essenziale nel garantire l’efficacia della prevenzione e nel giustificare una responsabilità realmente fondata sulla colpa.

Queste peculiarità incidono tanto sulle possibili azioni del datore di lavoro quanto sulle sue responsabilità: diversamente, l’integrale applicazione degli obblighi individuati dal D.Lgs. 81/2008 fonderebbe i presupposti per una responsabilità di posizione, esclusa nel settore penale.

Non avrebbe senso, ad esempio, un’azione diretta a valutare e modificare i luoghi nei quali si svolge l’attività del lavoratore (ad esempio, la strada, gli edifici e i luoghi non di proprietà del datore di lavoro) come sarebbe improprio imporre una valutazione legata a rischi presenti in luoghi autonomamente individuati dal lavoratore per rendere la propria prestazione (come, ad esempio, il rischio strada nel caso del lavoro agile).

 

La soluzione proposta dal Tribunale di Palermo

Il Tribunale di Palermo, con ordinanza del 18 agosto 2018, segue una strada diversa rispetto alle considerazioni sopra esposte e – affrontando il caso di un malore del ciclofattorino (c.d. rider) – chiede un’integrale applicazione del D.Lgs. 81/2008, con evidenti improprie ripercussioni sugli obblighi e le responsabilità del datore di lavoro, affermando che “stante il generico obbligo di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, di cui all’art. 2087 cit. – applicabile nella specie per le ragioni prima enunciate – e la pacifica esistenza dei rischi per la sicurezza dei riders correlati alle elevate temperature della stagione estiva (che può ritenersi si protragga sino al 23 settembre), deve ritenersi che la società convenuta sia tenuta all’adozione delle misure preventive e protettive indicate dall’Inail nel Progetto Worklimate per la gestione del rischio caldo, sviluppato nel 2022 e nella Guida informativa”.

Dunque, secondo i giudici, da un lato, andrebbe applicato integralmente il D.Lgs. 81/2008 (quindi anche la valutazione a tutti i fini di ambiti e azioni non ricadenti nella disponibilità giuridica del datore di lavoro: nel caso di specie si tratta di un ciclofattorino) e poi, invece, riduce gli elementi valutativi individuando espressamente quelli considerati in un documento Inail (senza che nessuna norma contenga il rinvio a questo approfondimento tecnico). Quindi, il Tribunale individua ex post quale sarebbe stato il comportamento che il datore di lavoro avrebbe dovuto tenere e parametra la responsabilità non già all’inadempimento del generico obbligo previsto dal D.Lgs. 81/2008 in tema di microclima (che, come vedremo, per parte della giurisprudenza è insufficiente a fondare la colpa del datore di lavoro), ma individua puntualmente i comportamenti necessari, integrando l’obbligo generico previsto dalla legge (quindi scegliendo i parametri della colpa non in base a ciò che era deducibile dalla lettura della norma, ma scegliendo un approfondimento presente nel panorama scientifico).

Evidente il contrasto con i fondamenti della responsabilità penale, dove “la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale, che assegna alla sola legge e agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione – destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul diritto “inviolabile” (art. 13 Cost.) alla libertà personale dei destinatari della norma penale – spetti soltanto ai rappresentanti eletti a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 230 del 2012, n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge[3].

Rispetto al mandato costituzionale di determinatezza della norma incriminatrice, prosegue la Corte, “l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo (sentenza n. 115 del 2018). La garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe, in effetti, anch’essa svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura”.

La tecnica di giudizio del Tribunale va, dunque, superata. Sulla base di questi principi consolidati, ma evidenziando anche la necessità di aggiornare la lettura della norma all’evoluzione del sapere scientifico, occorre introdurre nella normativa un principio (di legalità e determinatezza) che consenta al destinatario della norma di individuare formalmente (sempre ex ante e mai ex post) quali siano gli approfondimenti scientifici (tecnici od organizzativi) che integrano continuamente la normativa in senso evolutivo, laddove il Legislatore non aggiorni egli stesso le disposizioni ovvero laddove la fattispecie sia regolata da disposizioni generiche. In assenza di questo continuo legame, si lascia alla ricerca e alla valutazione di ciascun datore di lavoro o alla integrazione ex post del giudicante l’individuazione o la precisazione degli obblighi, senza il rispetto dei principi di legalità, tassatività e determinatezza. Con il che ne risultano violati anche i principi di chiarezza, specificità e prevedibilità della normativa penale.

Anche i richiami formulati dalle Autorità di vigilanza[4] fanno rinvio a documenti del Ministero della salute o estratti tra i tanti esistenti (ad esempio, dal sito internet Worklimate), individuati ex post e senza che una norma consenta di rinviare a essi in modo puntuale: uno sforzo di selezione apprezzabile, ma che, intervenendo a selezionare ex post l’adempimento corretto, non risponde ai canoni costituzionali.

Come detto, sarebbe sufficiente introdurre una norma di legge secondo la quale specifici approfondimenti scientifici o tecnico-organizzativi[5] che, configurandosi come regole cautelari modali, consentono di dare piena attuazione a principi o disposizioni generiche, sono segnalati dall’Autorità pubblica e, da quel momento, rappresentano lo strumento che, puntualizzando obblighi generici, è presuntivamente esaustivo degli obblighi di legge (altrimenti l’esistenza o l’indicazione di strumenti diversi, di per sé[6], reca incertezza e priva di tassatività e determinatezza l’obbligo penale).

 

Cosa fare in concreto all’aperto

Il documento richiamato dal Tribunale è del 2017 e riporta le opportune misure di prevenzione in tema di microclima. In contrasto con l’indeterminatezza del richiamo all’intero D.Lgs. 81/2008 o ad altre generiche previsioni, l’approfondimento viene introdotto per specificare concretamente il contenuto generico della normativa e viene individuato quale comportamento corretto che avrebbe dovuto tenere il datore di lavoro. Si ripete, non il giudice, ma il Legislatore, dovrebbe fare riferimento (individuandoli concretamente) a protocolli, linee guida o documenti scientifici consolidati: solo con questo approccio si consente al destinatario della norma di porre in essere una puntuale e consapevole azione di prevenzione, sensibilizzazione, formazione, informazione, organizzazione. Se andiamo, infatti, ad approfondire le misure di prevenzione suggerite dall’Inail, troviamo i comportamenti che, non presenti nella legge, secondo la scienza sono efficaci. Dopo aver analizzato gli effetti delle ondate di calore sulla salute[7], il documento descrive cause ed effetti dello stress termico[8], individua i possibili infortuni correlati al calore eccessivo[9], i fattori di rischio[10] e i settori[11] e le categorie di lavoratori[12] maggiormente soggetti a tali rischi e individua le misure concretamente indirizzate al lavoratore e al datore di lavoro. Concretezza e determinatezza che difetta nel disposto legislativo, con gravi ripercussioni sulla tutela del lavoratore e con creazione di un’area di responsabilità oggettiva per il datore di lavoro.

Cosa fare, quindi, in concreto? In quali specifiche misure si attualizza la generica e impropria applicazione di tutto il D.Lgs. 81/2008?

Per il lavoratore, si suggerisce di:

  • prevenire la disidratazione (avere acqua fresca a disposizione e bere regolarmente, a prescindere dallo stimolo della sete);
  • durante una moderata attività in condizioni moderatamente calde bere circa 1 bicchiere ogni 15-20 minuti;
  • indossare abiti leggeri di cotone, traspiranti, di colore chiaro, comodi, adoperando un copricapo (non lavorare a pelle nuda);
  • rinfrescarsi bagnandosi con acqua fresca;
  • informarsi sui sintomi a cui prestare attenzione e sulle procedure di emergenza;
  • lavorare nelle zone meno esposte al sole;
  • ridurre il ritmo di lavoro anche attraverso l’utilizzo di ausili meccanici;
  • fare interruzioni e riposarsi in luoghi freschi;
  • evitare di lavorare da soli.

Per il datore di lavoro:

  • consultare il bollettino di previsione e allarme per la propria città (sito di riferimento: www.salute.gov/caldo);
  • nei giorni a elevato rischio ridurre l’attività lavorativa nelle ore più calde (dalle 14.00 alle 17.00) e programmare le attività più pesanti nelle ore più fresche della giornata;
  • garantire la disponibilità di acqua nei luoghi di lavoro;
  • inserire un programma di acclimatamento graduale e prevedere un programma di turnazione per limitare l’esposizione dei lavoratori;
  • aumentare la frequenza delle pause di recupero, invitare i lavoratori a rispettarle;
  • ove possibile, mettere a disposizione dei lavoratori luoghi climatizzati in cui trascorrere le pause di interruzione del lavoro;
  • mettere a disposizione idonei DPI e indumenti protettivi;
  • prima dell’estate informare e formare i lavoratori sui rischi correlati al caldo;
  • promuovere un reciproco controllo tra lavoratori.

A ben vedere, quindi, non basta una generica (e spesso, ordinaria, come al Sud Italia) condizione di caldo, occorrendo – come si vedrà – una situazione particolare, non ordinaria, segnalata dagli organi competenti, misurata secondo parametri specifici per luoghi specifici. Elementi assolutamente assenti nella normativa.

 

Cosa fare in concreto al chiuso

Diverso sarebbe stato se il lavoro si fosse svolto al chiuso e in ambiente gestito dal datore di lavoro: in tal caso le misure concrete sono indicate nell’allegato IV, D.Lgs. 81/2008, anche in questo caso abbastanza genericamente e con riferimento a logiche non puntuali, ma parametrate su principi di adeguatezza e sufficienza.

Il D.Lgs. 81/2008, in particolare, fa riferimento alla temperatura, all’umidità, al movimento dell’aria, al soleggiamento, a misure tecniche localizzati o a mezzi personali di protezione. Si tratta, come è evidente, di indicazioni risalenti al D.P.R. 303/1956 (articoli 9, 11, 12 e 13), che devono essere attualizzati. Oggi ci sono numerosi documenti che possono guidare nella valutazione del rischio e nell’adozione delle corrette misure di prevenzione. Uno di questi può essere La valutazione del microclima (2018) dell’Inail, che richiama a sua volta norme tecniche dell’UNI, studi scientifici, Linee guida delle Regioni, procedure operative della Conferenza Stato Regioni.

Anche in questo caso, la normativa risale agli anni ’50, la tecnologia si è ovviamente evoluta e, per sapere quali sono oggi le regole per la corretta valutazione dei rischi, ciascun datore di lavoro deve individuare il riferimento corretto e attuale, senza che il Legislatore individui, ex ante, la misura che ritiene corretta ai fini della responsabilità penale.

 

Le differenti letture della giurisprudenza

Alla luce di questa discrasia, la giurisprudenza (e il Legislatore) dovrebbero domandarsi se sia adeguato il generico rinvio a un testo legislativo prevalentemente pensato per un lavoro al chiuso oppure se non abbia più senso, ricorrendo alle conoscenze scientifiche, prevenire gli effetti del caldo e richiamare espressamente e concretamente le misure opportune e puntuali delineate nei protocolli o nelle linee guida, sorrette da adeguate valutazioni delle Autorità e valide per la specifica attività e lo specifico luogo e tempo nel quale si colloca la prestazione.

La giurisprudenza registra impostazioni differenti. Da un lato[13], si ritiene che “in situazioni del genere, vanno previste ed applicate regole precauzionali capaci di prevenire la concretizzazione del rischio, evitando di sottoporre il lavoratore ad attività all’esterno faticose in ore calde, prevedendo pause di riposo frequenti, predisponendo ripari ombreggiati, oltre ad accorgimenti sul vestiario, nonché sulla alimentazione e idratazione. Ciò perché l’ipertermia da colpo di calore è una “sindrome generale che si manifesta quando la temperatura interna del corpo si innalza notevolmente perché l’organismo non è più capace di mantenere il proprio equilibrio termico di fronte all’elevarsi della temperatura ambientale per difetto dei processi di termolisi, che si verifica quando la vasodilatazione periferica, la sudorazione, la termodispersione attraverso la cute, l’iperventilazione polmonare non sono più capaci di ridurre la termogenesi interna” (così la consulenza citata in sentenza). Nel caso di specie, pur in presenza di una norma cautelare “aperta”, nessun tipo di accorgimento era stato adottato per proteggere il lavoratore dal rischio di un danno alla salute come conseguenza di una prolungata esposizione al sole, in costanza di temperature assai elevate, durante lo svolgimento di mansioni lavorative pesanti e faticose”.

Dall’altra parte, si evidenzia che la presenza di norme cautelari aperte (e non modali, come invece richiesto dalla giurisprudenza prevalente[14]) determina l’incertezza di fondo e, di conseguenza, l’indeterminatezza degli obblighi.

Come detto in precedenza, altro senso avrebbe un sistema normativo che, laddove si elaborino procedure e misure puntuali in attuazione di previsioni generiche, a esse si faccia espresso e puntuale richiamo, ad esempio prevedendo che le linee guida o i protocolli costituiscono specifica, puntuale ed esaustiva applicazione della misura (generica) prevista nella legge. Nel contempo, ogni linea guida o protocollo che il Legislatore ritenga adeguato ai fini del rispetto della legge, dovrebbe essere reso noto e qualificato come tale, sempre dal Legislatore o, comunque, dall’Autorità che lo ha emanato.

Così sarebbe, ad esempio, se – in presenza di un’opportuna previsione di legge in questo senso – le linee guida dell’Inail sul calore avessero riportato l’espressa indicazione che il loro adempimento costituisce corretta attuazione dell’obbligo di valutare e adottare misure contro il calore[15].

Della vaghezza dell’obbligo di legge si rende conto la stessa giurisprudenza[16], laddove ritiene che, in caso di temperature elevate, interrompere l’attività nelle ore centrali della giornata costituisce una “generalissima norma di diligenza e prudenza”, che deve senza dubbio connotare la condotta del datore di lavoro.

“Ma proprio per il suo contenuto generico occorre che essa sia ancorata a parametri di prevedibilità individuabili da colui sul quale incombe l’apprezzamento, ché, altrimenti, si incorre nel rischio di trasformare la valutazione sulla conciliabilità fra condizioni atmosferiche ed attività lavorativa in un giudizio ex post. E ciò, da un lato, per la variabilità delle reazioni individuali alle situazioni climatiche e, dall’altro, perché il prodursi di un evento avverso deve essere pronosticabile dal datore di lavoro”.

Ecco che, allora, si evidenzia la necessità di fare riferimento a parametri concreti e noti e conoscibili ex ante, e non a valutazioni individuali e non tecniche: “per elidere la vaghezza di un simile norma comportamentale, tenendo presente la pluralità dei fattori che determinano la condizione meteorologica sfavorevole, non dipendente solo dalla temperatura (o, per ipotesi, dalla presenza di precipitazioni), ma anche dal vento, dall’umidità dell’aria, dalla tipologia dell’area interessata, occorre che, in concreto, il datore di lavoro possa riferirsi ad un quadro meteorologico valutato in modo tecnico e non empirico ed individualistico, che tenga conto dei fattori generali e di quelli specifici e che sia sintetizzato in una previsione che, laddove determinati valori soglia siano superati in quel preciso contesto territoriale, implichi il rispetto di una serie di raccomandazioni generali impartite dall’autorità competente sul comportamento da tenere in simili condizioni climatiche. Agevola l’individuazione del contenuto della regola cautelare il riferimento alle situazioni di ‘allerta meteo’ del Dipartimento della protezione civile, ma possono essere tenute in considerazione anche altre forme di allertamento, eventualmente locale, con cui venga reso noto che una determinata condizione climatica prevista potrà comportare problemi per la salute[17].

Al contrario, rappresenta un’affermazione generica e discutibile la dichiarazione della responsabilità penale del datore di lavoro per colpa, “perché, pur dovendo tutelare l’integrità fisica del suo dipendente, non aveva valutato il rischio cui era esposto, tenuto anche conto della sua corporatura che influiva sull’eliminazione del calore in eccesso, e lo aveva fatto lavorare nelle condizioni rilevate. Il datore di lavoro, peraltro, aveva il dovere di sottoporre il lavoratore a visita medica per controllare che fosse idoneo a svolgere un lavoro faticoso al sole in estate e di informare quest’ultimo dei rischi cui era esposto[18].

Ben fa, quindi, altra giurisprudenza a criticare questa generica imputazione (fondata su di un obbligo generico), laddove porti a individuare obblighi e responsabilità “senza che ciò trovi alcun riscontro tecnico, né esperienziale e soprattutto senza che una simile affermazione trovi aggancio in una condizione di allerta meteorologica giustificante l’astensione dalle attività fisiche e lavorative all’aperto. D’altro canto, è evidente che laddove si dovesse giungere ad un’affermazione come quella contenuta nella sentenza si dovrebbe affermare che in tutta la zona meridionale del Paese durante la stagione estiva è interdetta, in quanto pericolosa per la salute, ogni prestazione lavorativa che implica uno sforzo fisico all’aperto (i lavori edili, ma anche quelli svolti nei campi, la mietitura o la raccolta della frutta) ogniqualvolta la temperatura salga, il che è pacificamente contraddetto dai risultati dell’esperienza[19].

 

Conclusioni

L’esempio della prevenzione degli effetti del clima sulla salute (lo stesso potrebbe dirsi specificamente per il freddo, l’umidità, il vento, l’aria condizionata fastidiosa, etc.) pone, ancora una volta, il tema del rapporto tra norma ed evoluzione scientifica, tra genericità delle prescrizioni di legge e loro concreta individuazione e attuazione (da parte del destinatario della norma e di chi è chiamato a giudicare la responsabilità), tra esigenze costituzionali di prevedibilità della norma e della responsabilità e di efficacia della prevenzione.

Nel testo si propone una possibile soluzione, che potrebbe risultare adeguata, in quanto, da un lato, consente di rendere puntuale e concreto un obbligo troppo spesso generico e non affidato a regole cautelari modali (come, invece, richiesto dalla giurisprudenza), dall’altro, di aggiornare al sapere scientifico e tecnico necessario l’azione prevenzionale[20] e, infine, di fondare su una precisa indicazione normativa l’individuazione ex ante (e non con il senno di poi[21]) del comportamento doveroso, sottraendola sia alla ricerca individuale del soggetto obbligato[22] sia all’azione integratrice/creatrice del soggetto chiamato a individuare il comportamento alternativo lecito che doveva essere tenuto, in quanto preclusa dal Giudice delle Leggi per il principio di legalità[23].

[1] Il tema del microclima viene preso in considerazione anche ai fini della concessione della Cigo come strumento di prevenzione: da ultimo, messaggio Inps n. 2999/2022.
[2] Si faccia il caso della collaborazione, del lavoro autonomo, del distacco, del lavoro a domicilio, del telelavoro, etc..
[3] Da ultimo, Corte Costituzionale n. 98/2021.
[4] Note INL n. 4639/2021, n. 3783/2022, n. 4753/2022.
[5] Oggi, invece, vale il generico riferimento alle “misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, articolo 2087, cod. civ..
[6] Tantissimi sono gli studi tecnici e scientifici presenti in materia di salute e sicurezza, di matrice pubblica e privata (ad esempio, sullo stress termico si vedano: La misurazione e il controllo del microclima, Inail, 2022; Microclima in Portale agenti fisici; Rischi lavorativi da alte temperature, Regione Lazio; L’autocontrollo del microclima nella logistica, Spsal di Piacenza; La prevenzione del rischio da stress da calore negli ambienti di lavoro, Coordinamento regionale Emilia Romagna).
[7] Colpo di sole (rossore e dolore cutaneo, edema, vescicole, febbre, cefalea), all’effetto dell’eccessiva esposizione ai raggi solari si aggiungono gli effetti del surriscaldamento e della disidratazione; crampi da calore (spasmi dolorosi alle gambe e all’addome, sudorazione); esaurimento da calore (abbondante sudorazione, astenia, cute pallida e fredda, polso debole, temperatura normale); colpo di calore (temperatura corporea superiore a 40 °C, pelle secca e calda, polso rapido e respiro frequente, stato confusionale, deliri o convulsioni, possibile perdita di coscienza).
[8] L’evaporazione del sudore è ostacolata dal tipo di indumenti e dall’umidità dell’ambiente; il ritmo di lavoro provoca un aumento della temperatura corporea, che continuerà a salire se la dispersione di calore è insufficiente; all’aumento della temperatura corporea il corpo reagisce con un incremento della sudorazione e con l’eventuale rischio di disidratazione; l’aumento della frequenza cardiaca sottopone il fisico a ulteriore stress; se il corpo assorbe più calore di quanto non riesca a espellere, allora la temperatura corporea continuerà ad aumentare arrivando a un punto in cui il meccanismo di termoregolazione corporea diventa meno efficace; l’effetto può tradursi in una minore capacità di rispondere agli stimoli e ai pericoli imprevisti e in un aumento della disattenzione e della deconcentrazione.
[9] Incidenti di trasporto, scivolamenti e cadute, contatto con oggetti o attrezzature, ferite, lacerazioni e amputazioni.
[10] Obesità/eccessiva magrezza; età (˃ 65 anni) e sesso (˃ per le donne); presenza di patologie croniche (BPCO, diabete, cardiopatie, malattie neurologiche); assunzione di alcolici; assunzione di alcuni farmaci; gravidanza; alterazione dei meccanismi fisiologici di termoregolazione; scarso riposo notturno.
[11] Agricoltura, silvicoltura e pesca; costruzioni; elettricità, gas e acqua; industrie all’aperto; trasporti.
[12] Operai addetti a trasporto e produzione di materiali, addetti a macchinari e utensili, occupati all’aperto (manovratori, installatori, asfaltatori, cantonieri stradali, cavatori, edili, agricoltori, addetti alla pesca).
[13] Cassazione n. 30789/2022.
[14] Da ultimo, Cassazione n. 44943/2021, nel senso di regole che devono “indicare con precisione le modalità e i mezzi ritenuti necessari ad evitare il verificarsi dell’evento”.
[15] Sul modello della previsione che il rispetto dei protocolli esaurisce gli obblighi in materia di sicurezza con riferimento al Covid, costituendo piena attuazione del generico obbligo contenuto nell’articolo 2087, cod. civ..
[16] Cassazione n. 9824/2021.
[17] Cassazione n. 9824/2021.
[18] Cassazione n. 38157/2009.
[19] Cassazione n. 9824/2021.
[20] Attualizzando così i generici parametri previsti dall’articolo 2087, cod. civ., che, secondo la giurisprudenza più recente, è di norma di dovere ma non regola cautelare, mancando l’elemento modale. Si veda Cassazione n. 32899/2021.
[21] Cassazione n. 34944/2022.
[22] Corte Costituzionale, n. 312/1996: l’azione di prevenzione deve sempre, comunque, fare riferimento a misure accolte negli standard di produzione industriale, quando non specificamente prescritte.
[23] Da ultimo, Corte Costituzionale n. 98/2021; Cassazione n. 34944/2022.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

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