25 Settembre 2018

Trasferta vs trasfertismo: finirà questa partita?

di Roberto Lucarini

È nota ai più la questione, specie in campo contributivo, legata alla distinzione tra indennità di trasferta e indennità erogata al trasfertista. Partendo dall’articolo 51, commi 5 e 6, Tuir, quindi in tema prettamente fiscale, stante l’oramai datata armonizzazione delle basi imponibili, il problema è spesso emerso sul piano contributivo.

Il Legislatore, d’altronde, ha inteso distinguere le 2 figure di lavoratore, imponendo altrettanti e differenti trattamenti tributari/contributivi alle relative indennità. La questione, dunque, ruota attorno alla figura del dipendente; meglio, riguarda le modalità di svolgimento della sua opera.

Due gli attori in questo teatrino:

  1. da un lato le imprese, che con l’erogazione dell’indennità di trasferta ex comma 5, attuano di fatto la non imponibilità fino alla soglia prevista dalla norma. Talora, in verità, non vanno tanto per il sottile, utilizzando il regime che fa loro più comodo;
  2. dall’altro l’Inps, che in sede ispettiva controlla con attenzione dette erogazioni indennitarie, stante la loro non imponibilità.

Come si può immaginare, e come qualcuno ha provato sulla propria pelle, uscire fuori da contestazioni del genere non è cosa semplicissima; tant’è che molto spesso venivano e vengono interessati i Tribunali, fino al massimo grado. Di recente, infatti, è stata la Suprema Corte ad occuparsi dell’argomento, con ordinanza n. 16263/2018.

Che dire, in sostanza, sullo stato attuale di tale questione?

Dopo qualche anno di discussioni, finalmente il Legislatore intervenne per cercare di rendere più agevole la valutazione delle fattispecie concreta. Lo fece a mezzo dell’articolo 7-quinquies, D.L. 193/2016, stabilendo le caratteristiche che, presenti tutte contestualmente, connotano il lavoratore quale trasfertista, cui sarà applicabile il comma 6 dell’articolo 51, Tuir. A tal fine occorre, quindi, che si riscontri:

  • la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro;
  • lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente;
  • la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta.

Cosa rilevante è che la norma riveste natura interpretativa, il che la rende valevole in via retroattiva.

Finisce dunque la distinzione fattuale, ma pur sempre di non facile dimostrazione per chi fosse onerato della prova, tra lavoratore in trasferta, in via occasionale, e trasfertista, ovvero colui che agisce costantemente fuori sede in relazione al tipo di attività svolta. Adesso vi sono precise indicazioni normative, cui attenersi per tale distinzione.

Con ciò non voglio dire che i problemi siano finiti; da noi accade sempre che una norma, per quanto chiara, sia interpretabile in modo vario. Rilevo però come il D.L. 193/2016 abbia fornito una pista valutativa interessante, su cui basarsi al momento della scelta applicativa tra comma 5 e comma 6 dell’articolo 51.

Che vi siano in circolazione dei furbi, non vi è alcun dubbio; che adesso costoro sfuggano un po’ meno alla norma, trovo che sia cosa buona e giusta.

 

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