2 Agosto 2023

Azzeramento per i contratti a termine: casi e possibili soluzioni

di Luca Vannoni Scarica in PDF

In sede di conversione in legge del D.L. 48/2023, è stato inserito (mediante aggiunta del comma 1-ter, articolo 24) una disposizione volta a non considerare i contratti a termine sottoscritti prima del 5 maggio 2023: molte sono le incertezze che si annidano nelle poche righe della disposizione. Al di là di quelle che erano le intenzioni, è importante valutare la disposizione sulla base delle situazioni che l’attività professionale determina, cercando di individuare le soluzioni possibili.

 

Introduzione

Come è ormai noto, in sede di conversione in legge sono state apportate 2 importanti modifiche alla disciplina del contratto a termine. Partiamo dal dato letterale.

In primo luogo, mediante modifica del comma 1, articolo 21, D.Lgs. 81/2015, è stato previsto che:

“il contratto può essere prorogato e rinnovato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1”.

Inoltre, il nuovo comma 1-ter, articolo 24, D.L. 48/2023 prevede che “ai fini del computo del termine di dodici mesi previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, del decreto legislativo n. 81 del 2015, come modificati dai commi 1 e 1-bis del presente articolo, si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Prima di entrare nel merito di tali novità, si sottolinea come non vi sia stata alcuna modifica in ordine alla durata massima del rapporto – sia come unico contratto, sia come sommatoria – pari a 24 mesi, a cui eventualmente si può aggiungere un ulteriore periodo di 12 mesi, purché siglato presso l’ITL.

 

Quali sono i rinnovi liberi da causale?

Con la prima disposizione si è eliminato l’obbligo di motivare i rinnovi contrattuali “nei primi 12 mesi”, equiparandone la regolamentazione, sotto tale profilo, a quella della proroga; anzi, paradossalmente si è invertito il grado di agibilità: le proroghe, anche se fatte nei primi 12 mesi senza obblighi di motivazione, sono comunque soggette al limite quantitativo di 4, il rinnovo, viceversa, non è soggetto a limiti. Dal punto di vista operativo, l’applicazione di tale forma di liberalizzazione pone rilevanti dubbi, in ordine a 2 distinte direttrici.

In primo luogo, la norma fa riferimento, in termini grossolani, ai “primi 12 mesi”, senza ulteriori specificazioni. A cosa si riferiscono i primi 12 mesi?

In termini letterali, senza ulteriori specificazioni, il periodo di 12 mesi potrebbe essere inteso come un arco temporale, di calendario, che decorre dalla sottoscrizione del contratto a termine (inferiore a 12 mesi di durata, in caso contrario raggiungerebbe già il limite di acausalità).

Facendo un esempio, ipotizziamo un contratto sottoscritto in data 10 maggio 2023, di durata pari a 6 mesi. Scaduto il contratto, viene offerta una nuova opportunità di occupazione a termine, che in ipotesi consideriamo rinnovo, il 20 maggio 2024, sempre di 6 mesi. Applicando tale lettura, sarebbe scaduto il periodo in cui il rinnovo può essere fatto senza una specifica causale.

È evidente che, in tale ottica, quella che è stata rappresentata come una forma di liberalizzazione dei rinnovi, di fatto, sarebbe un ulteriore meccanismo macchinoso nella gestione dei contratti a termine. Anche prendendo per buona tale interpretazione, rimarrebbe poi il dubbio se si limita ai contratti sottoscritti nei primi 12 mesi o che rientrano nei primi 12 mesi: in termini prudenziali, appare di gran lunga preferibile tale opzione: in caso contrario, sarebbe possibile arrivare a periodi di acausalità superiori a 12 mesi (ad esempio, dopo un contratto a termine di 10 mesi, e nei primi 12 mesi, siglo un rinnovo per 10 mesi), di fatto creando una sorta di acausalità massima a 23 mesi e 10 giorni (tenuto conto dello stop and go legale, che fra l’altro potrebbe essere cancellato dalla contrattazione collettiva).

Tale lettura poi non giustificherebbe l’azzeramento dei contratti precedenti.

Passiamo a una diversa interpretazione, a livello sistematico, più omogenea con l’attuale regolamentazione del rapporto e, probabilmente, aderente con le intenzioni del Legislatore: i primi 12 mesi potrebbero intendersi come la durata complessiva del rapporto, sommando i singoli segmenti fino a raggiungere tale soglia. Il problema di tale lettura, oltre a un dato letterale che non ha puntualizzato un meccanismo per sommatoria della verifica del periodo di 12 mesi, si ricollega con la seconda direttrice di incertezza sopra anticipata, e cioè quali siano i rinnovi da sommare, o meglio, quando un nuovo contratto tra le stesse parti possa essere considerato un rinnovo del precedente rapporto, con riferimento in particolare alle mansioni.

Ipotizziamo 3 possibili varianti: mansioni perfettamente coincidenti con il precedente contratto, mansioni diverse ma rientranti nello stesso livello, e con la stessa categoria, e mansioni di diverso livello (o di ugual livello, ma di diversa categoria: l’unico aspetto rilevante diverrebbe che sto riassumendo quel lavoratore).

Non dovrebbero esserci dubbi che si possa parlare di rinnovo nel primo caso, relativo alle mansioni perfettamente coincidenti. Vediamo cosa succederebbe, tenendo in considerazione quanto previsto dall’articolo 19, comma 2, D.L. 48/2023 ragionando al contrario: se nella nuova assunzione il lavoratore cambiasse mansioni, ma sempre all’interno dello stesso livello e a parità di categoria, il contratto rientrerebbe nei 24 mesi, ma non essendo un rinnovo, si arriverebbe a 24 mesi senza causale.

Ora prendiamo per buona, non fosse altro perché il Mlps ha affermato con l’ultimo chiarimento in materia fornito (circolare n. 17/2018) che “si ricade altresì nell’ipotesi del rinnovo qualora un nuovo contratto a termine decorra dopo la scadenza del precedente contratto”, la terza interpretazione, quella in base al quale si considera rinnovo una nuova assunzione, a prescindere dalle mansioni del lavoratore, e proviamo a fare qualche esempio concreto.

Ipotizziamo che un lavoratore venga assunto in data 10 giugno 2023, come impiegato di III livello, nel settore commercio, per un primo rapporto a tempo determinato di durata pari a 9 mesi. Il 10 marzo 2024 viene riassunto come impiegato II livello (ovviamente i livelli devono essere strettamente connessi con le mansioni svolte) sempre per 9 mesi.

In questo caso, come durata complessiva del rapporto (essendo stipulati entrambi i rapporti dopo il 5 maggio 2023), rientreremmo sicuramente nell’obbligo di causale. Tuttavia, si determina subito una prima incongruenza: i 2 rapporti, pur essendo rinnovi, essendo distinti per livello, determinerebbero 2 autonomi periodi massimi di 24 mesi ai sensi dell’articolo 19, comma 2, D.L. 48/2023. Ulteriore effetto negativo che determina tale lettura, nell’ottica del lavoratore, sarebbe la disincentivazione a possibili crescite professionali: perché un datore di lavoro deve utilizzare una causale, quando, assumendo un lavoratore nuovo, mai visto né conosciuto, non sarebbe soggetto a tale obbligo?

Il punto dolente decisivo, tuttavia, è un altro: se consideriamo i rinnovi con la maglia più ampia, cioè consideriamo rinnovo il nuovo contratto tra le stesse parti, a prescindere dalle mansioni, come facciamo a considerare i primi 12 mesi esenti da causale?

Se prendiamo per buona la lettura sistematica, cioè la sommatoria dei rinnovi, dovrei creare un nuovo contatore, distinto da quello per sommatoria dei 24 mesi (che ha come comune denominatore il livello contrattuale, aspetto mancante in tale ipotesi), per verificare il margine di rinnovi liberi, con comune denominatore esclusivamente l’identità delle parti contrattuali, di durata pari a 12 mesi.

L’interpretazione che determina minori problemi operativi è sicuramente quella, sistematica, per cui si considerano rinnovi tutti i contratti successivi al primo, che rientrano nel medesimo contatore dei 24 mesi, soprattutto se abbinata all’altra legata ai “primi 12 mesi”: si avrebbe un unico contatore con 2 soglie, 12 mesi termine della acausalità e 24 mesi durata massima.

Si tenga poi conto che il parametro del livello, nell’identificazione di un rapporto di lavoro, trova la sua giustificazione nell’articolo 2103, cod. civ., in quanto, all’interno di esso, il datore di lavoro ha facoltà di intervenire in modifica delle mansioni (c.d. ius variandi). Se posso chiederti tutte le mansioni che rientrano in quel livello – fermo restando obblighi formativi, questioni legate alla sicurezza sul lavoro –, l’elemento fondamentale che connota quel rapporto non può che essere il livello.

A ogni modo, pur apparendo come la più logica e calzante nel quadro attuale, a causa di un dato letterale al quanto raffazzonato, non sembra essere scontata. Eventuali chiarimenti amministrativi, non potranno comunque condizionare orientamenti giurisprudenziali che, è facile presumere, spesso sposeranno tesi a favore dei lavoratori.

Per tale ragione, è sicuramente consigliabile prudenza e, nel dubbio, supportare l’assunzione con una motivazione da contrattazione collettiva (e fino al 30 aprile prossimo, e con una buona dose di rischi in più, per ragioni tecniche, organizzative e produttive).

 

Azzeramento dei contratti anteriori al 5 maggio

In secondo luogo, in sede di conversione in legge è stato introdotto una sorta di azzeramento al 5 maggio 2023, data di entrata in vigore del D.L. 48/2023, dei precedenti rapporti ai fini del computo del periodo di 12 mesi di acausalità.

Anche in questo caso è opportuno partire dal dato letterale.

Già l’incipit suscita una prima perplessità, sostanzialmente coincidente con quanto scritto nel paragrafo precedente: il “termine” di 12 mesi farebbe suppore a un periodo continuativo di 12 mesi che arriva a scadenza.

Entrando nel merito, la disposizione introduce una sorta di anno 0 in quanto sono presi in considerazione, nel computo del periodo sopra indicato, soltanto i contratti stipulati dall’entrata in vigore del D.L. 48/2023, e cioè dal 5 maggio 2023.

Non sembrano esserci dubbi che un rapporto iniziato prima del 5 maggio, di durata fino a 12 mesi, sarà neutralizzato ai fini dell’obbligo di motivazione in caso di rinnovo, anche nel caso in cui sia con scadenza successiva al 5 maggio (ad esempio, se ho sottoscritto il primo rapporto il 2 maggio per 10 mesi (acausali), rinnovando quel contratto si avrebbero ulteriori 12 mesi di acausalità). In tali situazioni si possono avere 22 mesi di acausalità.

Un primo dubbio riguarda l’eventualità che un precedente rapporto sia stato già di durata pari o superiore a 12 mesi: in questo caso opera la neutralizzazione? Si pensi, ad esempio, a un rapporto già oltre ai 12 mesi dove si è reso necessario indicare una motivazione di assunzione. Anche in questo caso, prudenzialmente, si consiglia di applicare una motivazione ex articolo 19, comma 1, D.Lgs. 81/2015: il raggiungimento dei 12 mesi acausali si è già verificato e, pertanto, potrebbe ritenersi non applicabile l’azzeramento.

Ulteriore dubbio riguarda la corretta interpretazione, difficilmente risolvibile, del passaggio riferito ai “contratti stipulati” a decorrere dal 5 maggio 2023, gli unici che cubano ai fini del calcolo del periodo di 12 mesi: se, da una parte, la ratio della norma sembrerebbe essere rivolta alla semplificazione dei rinnovi, lo scarno dato letterale non è di certo preclusivo verso la proroga, che di fatto, rappresenta comunque un contratto ai sensi dell’articolo 1321, cod. civ..

L’esclusione o l’inclusione della proroga, a seconda della durata e delle specifiche del rapporto, può creare conseguenze del tutto diverse: se la proroga fosse esclusa, per rapporti in essere di durata inferiore a 12 mesi, per sfruttare al massimo la acausalità, si potrebbe prorogare il rapporto fino a 12 mesi, staccare e poi rinnovare il contratto per ulteriori 12 mesi di acausalità. Se viceversa rientrasse anche la proroga nel concetto dei nuovi contratti, si perderebbero, nell’esempio di cui sopra, qualche mese di acausalità: il contatore partirebbe da quel momento, e non dal rinnovo successivo al raggiungimento dei 12 mesi.

Anche in questo caso è opportuno un approccio prudenziale: considerare le proroghe come contratti sottoscritti dopo il 5 maggio, nell’esempio cui sopra, obbligherà il datore di lavoro a motivare l’ultimo contratto, con una maggior tutela del lavoratore (considerando i 3 mesi di contratto, il rinnovo del 10 dicembre avrebbe la causale, superandosi il limite di 12 mesi).

 

Conclusioni

Le modifiche apportate in sede di conversione, come si è cercato di esemplificare con esempi concreti, determina diverse interpretazioni che, al di là di quella che ogni professionista può considerare come la più corretta, potranno trovare poi credito nell’eventuale contenzioso, tenuto conto che sul contratto a termine gli orientamenti giurisprudenziali appaiono, molto più che in altri settori, a tutela del lavoratore. D’altronde, se il contratto a tempo indeterminato è la forma comune di lavoro (articolo 1, D.Lgs. 81/2015), l’eccezione, cioè il contratto a termine, è legittima solo nelle casistiche predeterminate dalla legge, mood di fondo che non può che portare a orientamenti restrittivi. Per tale ragione, è sicuramente consigliabile prudenza, al fine di evitare spiacevoli conversioni a tempo indeterminato.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza”.

Diritto del lavoro