27 Novembre 2018

Il divieto di licenziamento per matrimonio non vale per gli uomini

di Evangelista Basile

Con sentenza n. 28926 del 12 novembre 2018, la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’applicabilità del divieto di licenziamento in costanza di matrimonio al lavoratore padre. La questione, infatti, aveva di recente visto delle pronunce di merito (ad esempio, Tribunale di Vicenza del 24 maggio 2016) riconoscere l’estensione della presunzione di nullità prevista all’articolo 35, comma 3, D.Lgs. 198/2006, il c.d. Codice delle pari opportunità, anche al lavoratore padre.

Secondo detta norma, infatti, salvo quanto previsto al seguente comma 5 (e quindi in caso di licenziamento per giusta causa, cessazione dell’attività aziendale, scadenza del termine), il licenziamento “della dipendente”, intimato nel periodo intercorrente dalla data della richiesta delle pubblicazioni a un anno dopo la celebrazione del matrimonio, si presume sia stato disposto per causa di matrimonio e, come tale, da ritenersi nullo.

Secondo la Corte, contrariamente a quanto affermato dai Tribunali di merito, la norma non lascia spazio a interpretazioni estensive, poiché la ratio della stessa si fonda sulla tutela della maternità, in quanto emanata in seguito alla prassi diffusa dei licenziamenti delle lavoratrici in occasione del loro matrimonio. E, dunque, secondo la Cassazione riservare tale tipo di tutela alle sole lavoratrici è rispondente a ragioni coerenti con la realtà sociale e fondate su di una pluralità di principi costituzionali (fra cui l’articolo 37) che giustificano misure legislative che consentano alla donna di poter coniugare il diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare.

L’articolo 37, infatti, affermando che le condizioni di lavoro della lavoratrice devono consentire l’adempimento da parte di quest’ultima della sua essenziale funzione familiare, non si limita alla tutela della salute di madre e bambino, ma anche dell’intero complesso rapporto fra i due, anche da un punto di vista relazionale e affettivo. Pertanto, lungi dall’essere discriminatoria, la norma risponde a una diversità di trattamento giustificata da ragioni, non già di genere del soggetto che presta l’attività lavorativa, ma di tutela della maternità, costituzionalmente garantita alla donna, anche nell’assicurazione “alla madre e al bambino” di “una speciale adeguata protezione”. Né tale norma, conclude la Corte, risulta in contrasto con i principi europei o sovranazionali secondo cui, in ogni caso, “il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevengano vantaggi specifici a favore del sesso rappresentato” (così l’articolo 23, Carta dei diritti fondamentali dell’UE).

Pertanto, la Corte ha rigettato il motivo relativo alla presunta violazione dell’articolo 35, D.Lgs. 198/2006, per trattamento non paritario in ragione del sesso del ricorrente.

 

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