25 Maggio 2021

La tassazione per il telelavoro prestato all’estero

di Roberto Lucarini

Lo sviluppo tecnologico ha sempre più influenzato la nostra vita, sotto ogni punto di vista; non ultimo quello lavorativo. Sono, quindi, nate forme di lavoro che, ove non sia necessaria la presenza fisica del lavoratore, prevedono lo svolgimento dell’opera da remoto: personal computer e connessione internet stanno alla base di tali sviluppi. Penso al telelavoro, ma anche al più recente lavoro agile.

Al di là delle molte tematiche che tale evoluzione ha prodotto, molto interessante appare il caso esaminato dall’Agenzia delle entrate nella recente risposta a interpello n. 296/2021.

Provo a riassumere la questione.

Una società italiana ha in forza un telelavoratore italiano, residente però nel Regno Unito, il quale svolge il lavoro affidatogli dalla propria abitazione nello Stato estero.

Attenzione a un punto di assoluta rilevanza: il telelavoratore risulta residente oltremanica, tanto che è anche regolarmente iscritto all’Aire, l’Anagrafe dei cittadini italiani residenti all’estero.

La datrice di lavoro si è correttamente posta il problema relativo a dove deve essere effettuata la tassazione di tale reddito da lavoro subordinato; in Italia o nel Regno Unito?

Chiede, quindi, lumi all’Agenzia delle entrate tramite interpello.

I tecnici dell’Agenzia iniziano la loro analisi del disposto ex articolo 23, Tuir, riguardante appunto la tassazione per soggetti non residenti in Italia. Tale norma prevede che: “Ai fini dell’applicazione dell’imposta nei confronti dei non residenti si considerano prodotti nel territorio dello Stato: … c) i redditi di lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato, compresi i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 50”.

Ciò significa che, in caso di soggetto non residente, la tassazione di un reddito da lavoro subordinato avviene in Italia solo quando l’attività sia effettivamente svolta nel nostro Paese.

Per il caso in esame le cose non stanno così, lavorando il dipendente dal Regno Unito; quindi, che fare?

Per rispondere ci viene in soccorso la Convenzione contro le doppie imposizioni, presente fin dal 1988 tra Italia e Regno Unito, la quale dispone sul tema all’articolo 15: “i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di una attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tal titolo sono imponibili in questo altro Stato”.

Fermiamoci a tale indicazione, proseguendo poi il testo con una casistica non attinente.

Il principio è chiaro e, a ben vedere, espone un criterio guida dettato dalla preminenza del luogo di svolgimento dell’attività di lavoro subordinato. Un soggetto non residente, che riceve la retribuzione da un datore italiano e lavora in Italia, sarà assoggettato a tassazione nel nostro Paese; ma se egli svolge la propria opera nel Regno Unito, l’imposizione avverrà in quello Stato.

Ricordo che la Convenzione di cui si parla ricalca, come molte altre, lo schema convenzionale Ocse; ciò significa che il nostro caso è certamente estensibile ad altre ipotesi. Per valutare eventuali altre situazioni sarà, quindi, necessario riferirsi all’eventuale Convenzione presente tra l’Italia e il Paese estero.

L’Agenzia delle entrate conclude, quindi, che il datore italiano non risulta obbligato a effettuare le consuete ritenute fiscali, operando, però, sotto propria responsabilità. Sarà, pertanto, necessario che detto datore si faccia fornire dal lavoratore tutta la documentazione necessaria a dimostrare la sussistenza dei requisiti richiesti.

 

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