4 Agosto 2022

La Corte Costituzionale torna sul tema licenziamenti

di Roberto Lucarini

Sembra che i Giudici delle leggi, ultimamente, si interessino molto alle tutele in tema di licenziamento. Dopo aver inferto alcune picconate a destra e a manca, ossia al sistema delle tutele crescenti (D.Lgs. 23/2015), ma anche all’articolo 18, St. Lav., nella versione post Riforma Fornero-Monti, con la recente sentenza n. 183/2022, hanno valutato, stavolta, le tutele, contro il licenziamento illegittimo, poste dal D.Lgs. 23/2015 per i datori di lavoro di piccole dimensioni (ovvero fuori dalla portata dimensionale ex articolo 18, St, Lav.).

Una pronuncia che non censura, al momento, la disposizione normativa attenzionata, ma che riporta un forte monito al Legislatore, affinché provveda, in qualche modo, a un “aggiustamento” della norma.

Al centro della questione di costituzionalità è posto l’articolo 9, comma 1,  D.Lgs. 23/2015, il quale, disponendo circa le tutele per il caso in cui non ricorrano gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta, nei casi di “piccoli” datori di lavoro, prevede che l’ammontare dell’indennità dovuta quale ristoro al lavoratore sia dimezzato, rispetto a quelli previsti per i datori ex articolo 18, considerato, tuttavia, che il limite massimo non può superare le 6 mensilità.

Il Tribunale di Roma, nel rimettere il caso alla Corte Costituzionale, avrebbe rilevato che “l’indennità dovrebbe essere individuata “nello stretto varco risultante fra il minimo di tre e il massimo di sei mensilità” e sarebbe inidonea, pertanto, “a soddisfare il test di adeguatezza” e a garantire il riconoscimento di un’indennità personalizzata”. Tale rilievo muove dal fatto che “la distinzione delle tutele in base ai requisiti occupazionali del datore di lavoro sia fondata “su un elemento che risulta esterno al rapporto di lavoro””, rilevando come un indennizzo così esiguo, non superiore a 6 mensilità e senza neppure l’alternativa della riassunzione, non attuerebbe “un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto”. Nessuna concreta adeguatezza al caso concreto, ma una standardizzazione che, al giudice rimettente, appare contraria ai principi della Suprema Carta (contrasto con gli articoli 3, comma 1, 4, 35, comma 1, e 117, comma 1).

Il verdetto, come anticipato, non interviene in favore del rimettente, visto che il giudice romano non chiede “di caducare un meccanismo di determinazione, parte integrante di un sistema che comunque si ricompone secondo linee coerenti”, quanto, piuttosto, intende ridefinire la stessa soglia massima dell’indennità prevista ex articolo 9. Tutto questo va, invece, inquadrato, ad avviso dei Giudici delle leggi, in una rimodulazione generale delle tutele esaminate. In sostanza, la Corte ravvisa di non poter porre rimedio e che “una soluzione costituzionalmente adeguata, che possa orientare l’intervento correttivo e collocarlo entro un perimetro definito, segnato da grandezze già presenti nel sistema normativo e da punti di riferimento univoci”.

La Corte, tuttavia, esprime con chiarezza alcuni concetti che muovono rilievi importanti all’attenzione del Legislatore.

Viene, anzitutto, ribadita la validità del criterio distintivo tra datori di lavoro, sulla base delle dimensioni occupazionali, stante il rapporto stretto e fiduciario dei soggetti in queste piccole realtà d’impresa. Così come il fatto che dette tutele siano demandate alla valutazione del Legislatore, il quale, tuttavia, deve evitare di omologare situazioni eterogenee e anche non trascurare le specificità del caso concreto.

Occorre, però, che vi sia “un rimedio adeguato, che assicuri un serio ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento illegittimo e dissuada il datore di lavoro dal reiterare l’illecito”; considerato che “un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza”. Un simile sistema di tutele, secondo la Corte, non attua, quindi, un equilibrato componimento di interessi, intaccando l’efficacia stessa del presidio posto a tutela contro i licenziamenti illegittimi.

A questo il legislatore potrebbe rimediare tracciando “criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative”. E in funzione di tale affermazione la Corte ritiene di non potersi esimere “dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà”.

Volendo sintetizzare, la Corte Costituzionale invia, con la sentenza in esame, in forte monito al Legislatore, del tipo: provvedi a riformare le tutele previste per licenziamento illegittimo da parte di datori di piccole dimensioni, altrimenti provvederemo noi. Una bocciatura dell’attuale sistema, che, oggettivamente, dovrebbe spingere verso una sua rimodulazione.

La questione, tuttavia, è molto delicata.

Vi sono paletti di costituzionalità che, dopo questa sentenza, dovranno essere ben valutati; esiste senza dubbio il diritto del lavoratore a un equo ristoro; vi sono, tuttavia, anche le esigenze delle piccole imprese, che impongono necessità di certezza nei termini quantitativi del presidio normativo. E, inoltre, cosa certo non ultima per importanza nel mondo della piccola impresa, un troppo forte presidio sanzionatorio potrebbe agire come un potente freno verso nuove assunzioni.

Un bel groviglio di esigenze, dal quale non è semplice uscire con equilibrio ed equità.

Sia come sia, il Legislatore sarà chiamato, nel prossimo futuro, a un intervento sul tema; speriamo che non ne esca un pasticcio. I precedenti, viste le varie recenti bocciature, non lasciano dormire sonni tranquilli.

 

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