23 Ottobre 2018

Di cagionevole, ma fin troppo robusta Costituzione

di Evangelista Basile

Lo scorso 26 settembre la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il D.Lgs. 23/2015, il c.d. Jobs Act, nella parte in cui stabiliva che il metodo di calcolo del risarcimento in caso di illegittimità del licenziamento dovesse essere parametrato alla sola anzianità di servizio del lavoratore. In attesa delle motivazioni della sentenza, mentre i tribunali territoriali hanno saggiamente deciso di rinviare le cause in corso per comprendere la linea da tenere, il Tribunale di Bari ha invece emesso la prima ordinanza avente ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento intimato a un lavoratore a tutele crescenti (a onor di cronaca, il caso di specie trattava un licenziamento collettivo). Le conclusioni a cui è giunto il giudice pugliese lo scorso 11 ottobre sono ardite: accertata l’illegittimità del licenziamento intimato per violazione della procedura di licenziamento collettivo prevista dalla L. 223/1991, la Società è stata condannata al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità di retribuzione. Il lavoratore a tutele crescenti aveva un’anzianità di servizio inferiore a 2 anni!

Il ragionamento seguito dal giudice del lavoro prende le mosse da quanto previsto dall’articolo 18, St. Lav. (inapplicabile nel caso di tutele crescenti), in caso di violazioni procedurali, ovvero un range indennitario da 12 a 24 mensilità; passa poi dall’indennità minima di 4 mensilità prevista dall’ormai cassato Jobs Act in funzione dell’anzianità del lavoratore (escludendo l’applicabilità della novella del Decreto Dignità, secondo cui tale indennità avrebbe dovuto essere almeno di 6 mensilità), per giungere a un’“equa” indennità di 12 mensilità di risarcimento, quale via mediana fra le 4 e le 24, determinata sulla scorta dei “vecchi” principi previsti dall’articolo 18, St. Lav.. Uno zig zag nel traffico delle norme giuslavoristiche per arrivare al traguardo (a sentenza) prima di leggere le motivazioni della Corte Costituzionale.

Ebbene, senza voler entrare troppo nel merito del discutibile iter argomentativo del giudice pugliese, questa prima pronuncia è di fatto l’emblema di ciò che sarà: il ritorno a un’ampia discrezionalità dei magistrati del lavoro nello stabilire il quantum risarcitorio e, dunque, a un’alea del giudizio sempre più imprevedibile.

Come spesso accade nel diritto del lavoro, fra continue riforme e altalenanti posizioni ideologiche, anche questa volta siamo riusciti a rovinare l’unica cosa che stava funzionando: le tutele crescenti. Un sistema di tutele, quest’ultimo, che – al di là dei gusti e del tifo ideologico di ciascuno – aveva raggiunto l’unico obiettivo che in questi anni poteva dirsi realmente realizzato nel panorama dei licenziamenti: la certezza del diritto.

Se da una parte, infatti, la sentenza non sembra aver toccato il fulcro delle ultime riforme, ossia il passaggio da un regime di job property (reintegratorio) a un sistema basato prevalentemente sulla liability rule (ossia risarcitorio), slegare il quantum indennitario da un qualche parametro che possa dirsi quantomeno certo e oggettivo, come l’anzianità di servizio, condurrà a un sicuro aumento del contenzioso giudiziale (di cui gli unici beneficiari saranno gli avvocati) e a un costante clima di incertezza dovuto all’estrema volubilità dei costi e delle norme, a scapito delle reali necessità del mercato del lavoro e dell’intero sistema Paese.

 

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