15 Febbraio 2023

I fringe benefit di inizio anno 2023

di Cristian Valsiglio

La gestione fiscale e contributiva dei fringe benefit da ormai 3 anni si caratterizza per una continua e frammentata disciplina spesso scoordinata e che pecca sicuramente di una visione di insieme. Il motivo, ai più, ormai è noto: l’inadeguatezza del limite di esenzione di 258,23 euro.

 

Normativa di riferimento

La disciplina fiscale e contributiva dei fringe benefit passa dall’articolo 51, comma 3, Tuir, e dal principio di armonizzazione delle basi imponibili fiscali e previdenziali.

Prima di soffermarsi sul predetto comma 3, è opportuno rammentare che, a mente dell’articolo 51, comma 1, Tuir:

“Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro” (c.d. principio di omnicomprensività ai fini della tassazione).

Ai fini della tassazione dei beni in natura, il comma 3 precisa che

“Ai fini della determinazione in denaro dei valori di cui al comma 1, compresi quelli dei beni ceduti e dei servizi prestati al coniuge del dipendente o a familiari indicati nell’articolo 12, o il diritto di ottenerli da terzi, si applicano le disposizioni relative alla determinazione del valore normale dei beni e dei servizi contenute nell’articolo 9. Il valore normale dei generi in natura prodotti dall’azienda e ceduti ai dipendenti è determinato in misura pari al prezzo mediamente praticato dalla stessa azienda nelle cessioni al grossista. Non concorre a formare il reddito il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se complessivamente di importo non superiore nel periodo d’imposta a lire 500.000 (ora euro 258,23 ndA); se il predetto valore è superiore al citato limite, lo stesso concorre interamente a formare il reddito”.

Ai fini della determinazione della base imponibile, l’articolo 9, Tuir, precisa che

“Per valore normale (…) si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore”.

Ma non è tutto: l’articolo 51, comma 3-bis, Tuir, prevede, altresì, che, ai fini dell’applicazione del comma 3 (oltre che del comma 2),

“l’erogazione di beni, prestazioni, opere e servizi da parte del datore di lavoro può avvenire mediante documenti di legittimazione, in formato cartaceo o elettronico, riportanti un valore nominale”.

Inoltre, il comma 4, richiamando proprio l’applicazione di cui al comma 3, prevede che nella gestione della tassazione dei fringe benefit rientrino anche le auto aziendali concesse a uso promiscuo, gli alloggi, i prestiti e i servizi di trasporto ferroviario concessi ai dipendenti. Questi ultimi beni, tuttavia, si caratterizzano per il fatto che devono essere quantificati sotto l’aspetto fiscale secondo dei valori convenzionalmente previsto dalla legge.

 

La disciplina generale dei fringe benefit

Come anticipato, la disciplina generale della tassazione dei fringe benefit è rinvenibile nel comma 3.

Tale disposizione è stata più volte commentata dall’Amministrazione finanziaria, tuttavia risultano quanto mai attuali le interpretazioni fornite tramite la circolare n. 326/E/1997.

Dal testo della norma, così come interpretata dal Fisco, sono rilevabili i seguenti aspetti:

  • i valori dei beni concessi devono essere determinati secondo le regole del valore “normale” indicate nell’articolo 9, Tuir;
  • i valori e i servizi di rilevanza fiscale possono essere concessi dal datore di lavoro o da terzi al dipendente, al coniuge o ai familiari del dipendente di cui all’articolo 12, Tuir, anche se non fiscalmente a carico. Relativamente al predetto aspetto, la circolare sopra richiamata precisa che la locuzione “il diritto di ottenerli da terzi” dev’essere posta

in collegamento con il principio generale vigente in materia di reddito di lavoro dipendente in base al quale costituisce reddito della specie tutto ciò che il dipendente riceve, anche da soggetti terzi, in relazione al rapporto di lavoro. La fattispecie in esame si verifica, quindi, allorquando un terzo cede beni o presta servizi, compresi quelli di cui al successivo comma 4, a dipendenti di un datore di lavoro per effetto di un qualunque collegamento esistente con quest’ultimo o con il sottostante rapporto di lavoro sebbene non in forza di un accordo o di una convenzione che questi abbia con lui stipulato”;

  • l’ultimo periodo del comma 3 stabilisce che non concorre a formare il reddito di lavoro dipendente il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati, se, complessivamente, di importo non superiore, nel periodo d’imposta, a 258,23 euro, e che se il valore in questione è superiore a detto limite, lo stesso concorre interamente a formare il reddito. In sostanza il limite di 258,23 euro è una soglia di esenzione e non una franchigia.

 

Il limite “inadeguato” di 258,23 euro

Il limite “soglia” è stato fissato in 500.000 lire (258,23 euro) nel 1997 e, da allora, è stato modificato solo in via eccezionale e non strutturale negli anni 2020 (516,46 euro), 2021 (516,46 euro) e 2022 (prima 600 euro e alla fine 3.000 euro) nonostante lo stesso Tuir, all’articolo 51, comma 9, preveda la possibilità di rivalutazione del predetto limite in presenza di variazioni significative del valore medio dell’indice dei prezzi al consumo. Situazione economica che appare in questo periodo evidente.

 

Il buono pasto non è un fringe benefit

Come previsto dall’articolo 51, comma 2, lettera c), Tuir, non concorrono alla formazione del reddito

le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro nonché quelle in mense organizzate direttamente dal datore di lavoro o gestite da terzi; le prestazioni sostitutive delle somministrazioni di vitto fino all’importo complessivo giornaliero di euro 4, aumentato a euro 8 nel caso in cui le stesse siano rese in forma elettronica; le indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte agli addetti ai cantieri edili, ad altre strutture lavorative a carattere temporaneo o ad unità produttive ubicate in zone dove manchino strutture o servizi di ristorazione fino all’importo complessivo giornaliero di euro 5,29”.

Relativamente ai buoni pasto la disciplina giuridica è presente nel D.M. 122/2017.

Il buono pasto, come definito dall’articolo 2, lettera c), D.M. 122/2017, è

il documento di legittimazione, anche in forma elettronica, avente le caratteristiche di cui all’articolo 4, che attribuisce, al titolare, ai sensi dell’articolo 2002 del codice civile, il diritto ad ottenere il servizio sostitutivo di mensa per un importo pari al valore facciale del buono e, all’esercizio convenzionato, il mezzo per provare l’avvenuta prestazione nei confronti delle società di emissione”.

I buoni pasto, alla luce di quanto indicato nell’articolo 2002, cod. civ. (il quale afferma che sono documenti di legittimazione “i documenti che servono solo a identificare l’avente diritto alla prestazione, o a consentire il trasferimento del diritto senza l’osservanza delle forme proprie della cessione”), costituiscono dei titoli, in formato cartaceo o elettronico, che identificano gli aventi diritto alla prestazione di vitto.

La prestazione oggetto del buono pasto consiste nella somministrazione di alimenti e bevande o nella cessione di prodotti di gastronomia pronti per il consumo e può essere fruita presso esercizi commerciali convenzionati (ristoranti, supermercati, etc.).

Le caratteristiche essenziali del buono pasto sono identificate nell’articolo 4, D.M. 122/2017, e sono le seguenti:

  • non è cedibile;
  • non è cumulabile oltre il limite di 8 buoni;
  • non è commercializzabile;
  • non è convertibile in denaro;
  • è utilizzabile solo dal titolare;
  • è utilizzabile esclusivamente per l’intero valore facciale.

I buoni pasto possono essere riconosciuti non solo ai lavoratori dipendenti, ma anche a soggetti non titolari di un rapporto di lavoro subordinato. Beneficiari dei buoni pasto possono essere anche coloro che hanno instaurato un rapporto di collaborazione, non necessariamente subordinato, con il soggetto che corrisponde i documenti di legittimazione.

L’articolo 4, comma 1, D.M. 122/2017, specifica che i buoni pasto sono utilizzabili fino a un limite di 8 giornalieri. Tale limite di cumulabilità non incide, inoltre, sull’esenzione ai fini Irpef dell’importo del buono pasto, salvo che quest’ultimo superi i limiti quantitativi disposti dall’articolo 51, comma 2, lettera c), Tuir (cfr. principio di diritto n. 6/2019). I buoni pasto, infatti, rimangono detassati fino ai limiti di cui parliamo anche sotto: fino a 8 euro per i ticket elettronici, fino a 4 euro per i cartacei. Inoltre, è bene precisare che i buoni pasto devono essere utilizzati per l’intero valore facciale, il che vuol dire che non si possono avere residui di valore utilizzabili.

Come precisato dalla risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 26/E/2010, la disposizione dell’articolo 52, comma 3, Tuir, e il limite di 258,23 euro non riguardano il buono pasto. Infatti, a parere del Fisco, l’evidenziazione del valore nominale porta a ritenere che i ticket restaurant non costituiscano erogazioni in natura. L’importo del loro valore nominale che eccede il limite di esenzione del buono pasto (4 euro o 8 euro) non può, pertanto, essere considerato assorbibile dalla soglia di esenzione prevista dall’articolo 51, comma 3, Tuir, e, quindi, concorre alla formazione del reddito di lavoro dipendente.

 

I voucher sono fringe benefit

Come precisato dal D.M. 25 marzo 2016,

l’erogazione di beni, prestazioni, opere e servizi di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, può avvenire anche attraverso il rilascio di documenti di legittimazione nominativi, in formato cartaceo o elettronico. Tali documenti non possono essere utilizzati da persona diversa dal titolare, non possono essere monetizzati o ceduti a terzi e devono dare diritto ad un solo bene, prestazione, opera o servizio per l’intero valore nominale senza integrazioni a carico del titolare”.

In deroga a quanto disposto dal comma 1, i beni e servizi di cui all’articolo 51, comma 3, ultimo periodo, Tuir, possono essere cumulativamente indicati in un unico documento di legittimazione, purché il valore complessivo degli stessi non ecceda il limite di importo di cui alla medesima disposizione.

I beni, le prestazioni, le opere e i servizi citati nel comma 3-bis sono quelli volti all’applicazione dei commi 2 e 3 del medesimo articolo 51, Tuir, in merito alla determinazione del reddito di lavoro dipendente.

Per indicazione del D.M. 25 marzo 2016 i predetti documenti “nominativi”:

  • non possono essere utilizzati da persona diversa dal titolare;
  • non possono essere monetizzati o ceduti a terzi;
  • devono dare diritto a un solo bene, prestazione, opera o servizio per l’intero valore nominale senza integrazioni a carico del titolare.

Secondo quanto precisato dall’Agenzia delle entrate con circolare n. 28/E/2016, in deroga al principio in base al quale i voucherdevono dare diritto ad un solo bene, prestazione, opera o servizio per l’intero valore nominale“, l’articolo 6, comma 2, D.M. 25 marzo 2016, precisa che

i beni e servizi di cui all’articolo 51, comma 3, ultimo periodo del TUIR possono essere cumulativamente indicati in un unico documento di legittimazione purché il valore complessivo degli stessi non ecceda il limite di importo di 258,23 euro“.

Tale deroga deve essere vista come un’eccezione al “divieto di cumulo“, potendo un unico voucher rappresentare più beni e servizi, di importo complessivo non superiore a 258, 23 euro.

Sono ricondotte a tale fattispecie le erogazioni in natura sotto forma di beni o servizi o di buoni rappresentativi degli stessi di importo non superiore a tale limite.

A tal fine, si distinguono, pertanto, 2 tipologie di voucher:

  • il voucher monouso: dà diritto a un solo bene, prestazione, opera o servizio, predeterminato ab origine e definito nel valore;
  • il voucher cumulativo: può rappresentare una pluralità di beni, determinabili anche attraverso il rinvio a un’elencazione contenuta su una piattaforma elettronica, che il dipendente può combinare a sua scelta nel “carrello della spesa”, per un valore non eccedente 258,23 euro

Per quanto concerne le erogazioni di benefit erogati mediante voucher, l’articolo 6, comma 1, D.M. 25 marzo 2016, connota tale documento come titolo di legittimazione rappresentativo di una specifica utilità. Ciò comporta che il benefit si considera percepito dal dipendente, e assume quindi rilevanza reddituale, nel momento in cui tale utilità entra nella disponibilità del lavoratore, a prescindere che il servizio venga fruito in un momento successivo.

 

Il buono carburante

L’articolo 1, D.L. 5/2023, prevede che

Fermo restando quanto previsto dall’articolo 51, comma 3, terzo periodo, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, il valore dei buoni benzina o di analoghi titoli per l’acquisto di carburanti ceduti dai datori di lavoro privati ai lavoratori dipendenti, nel periodo dal 1° gennaio 2023 al 31 dicembre 2023, non concorre alla formazione del reddito del lavoratore, se di importo non superiore a euro 200 per lavoratore”.

In sostanza, i datori di lavoro privati hanno la possibilità di erogare, ai propri lavoratori dipendenti, buoni benzina o titoli analoghi in completa esenzione d’imposta, se di valore non superiore a 200 euro; infatti, l’articolo 1, D.L. 5/2023, con efficacia retroattiva dal 1° gennaio e validità fino al 31 dicembre prossimo, ripropone il c.d. bonus carburante, apparentemente senza differenze rispetto all’anno 2022.

È bene precisare che il buono carburante non è un diritto del lavoratore e il costo del buono è sostenuto direttamente dal datore di lavoro e non dallo Stato. L’agevolazione consiste nel fatto che detti buoni possono essere concessi ai lavoratori dipendenti in esenzione fiscale e contributiva.

La disposizione valida per l’anno 2023 richiama l’articolo 51, comma 3, terzo periodo, Tuir: la relazione illustrativa al decreto chiarisce che, come avviene per la soglia generale delle erogazioni in natura pari a 258,23 euro, anche l’erogazione di buoni benzina per un ammontare superiore a questo limite comporta la tassazione dell’intero valore dei buoni ceduti ai lavoratori. In merito ai beneficiari della disposizione, la norma fa specificamente riferimento ai lavoratori dipendenti. Secondo l’Amministrazione finanziaria, nell’analogo caso del bonus carburante per il 2022 (circolare n. 27/E/2022), rileva solo la tipologia di reddito prodotto, ossia quello di lavoro dipendente. Dunque, sono esclusi i titolari di reddito assimilato a quello di lavoro dipendente, come ad esempio l’amministratore di una società di capitali, se non dipendente, o in generale i redditi percepiti per le collaborazioni coordinate e continuative. La posizione interpretativa è criticabile, come correttamente segnalato anche da Assonime.

Sotto l’aspetto operativo risulta opportuna una contabilizzazione differenziata tra i buoni carburante gestiti nella soglia di 200 euro e i buoni carburanti gestititi come fringe benefit puri, ossia secondo la soglia di 258,23 euro.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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